La poesia della sciabica

Il titolo di questo capitolo va inteso come presenza della sciabica in alcune composizioni poetiche e in opere in prosa. Al di là di riferimenti veloci in qualche verso sparso qua e là nell’ambito della produzione di questo o quell’autore, mi è sembrato che l’unica scelta significativa fosse quella di inserire nella nostra mini rassegna solo le poesie nelle quali la sciabica  e lo sciabicotto sono indiscussi protagonisti. Conoscevo già quanto scritto in proposito da Luigi Sorgentini e Emilio Gardini, e naturalmente i loro lavori sono qui riproposti. Ai due “mostri sacri” della nostra poesia dialettale si aggiungono Alessandro Mordini e Novella Torregiani. Non ho dimenticato che anche Antonio Galieni ha dato un contributo che, se non è in versi, non perciò è da trascurare.

Ho poi trovato una poesia in dialetto brindisino, che è troppo bella per non essere riportata in questo capitolo.

Infine, niente meno che una novella di Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura nel 1926.  


Luigi Sorgentini (1911/1988) ha celebrato la sciabica con una composizione di 18 versi apparsa a pagina 46 de Nun ce se pia più un capezzu (Edizioni Del Colle, Roma 1979). Titolo, appunto, La sciabbega. L’andamento è improntato al gesto lento e solenne dell’uomo ricco di caparbia speranza e a perenne confronto col mare e con se stesso:

La sciabbega ‘a lenta…

E’ sciabbegottu …tenta,
butta la rete in maru,

fa ‘n’arcu paru paru,
la resta nu’ la ‘llenta…
Se fida del cullaru!
I pia sempre li posa
Senza che se reposa;
tira cum’un sumaru,       
la rete ‘ia stragìna… 
E conta finu a…centu                  
Cul passu lentu,
lentu…   

‘sogna la rete… pîna!                  

La sciabbega ‘a lenta…

Chi troppu ‘ô, languisce!
Tuttu je se sbiadisce
‘nte l’aria che respira,
mentre fa tira…tira…

 

 

C’è poi Antonio Galieni, autore di alcune pubblicazioni di notevole interesse su Porto Recanati, la sua storia e i suoi costumi. In uno dei suoi volumi, Questu scì che è parlà chiaru (Porto Recanati, 1982), ho trovato due modi di dire che si riferiscono agli sciabicotti (pp. 91 e 93). Il primo: Ete dattu la carta de la musega ‘nte le mà d’i sciabbegotti, per significare che si è sbagliato tutto in quanto non ha senso dare da leggere a uno sciabicotto uno spartito musicale. Che cosa ne sa lui di note e pentagrammi? Insomma, non si è trovata la persona giusta per fare una certa cosa.

Il secondo: Quessa è cume la papalina de la sciabbega, detto di una ragazza non ancora esperta della vita (la papalina è il novellame) e quindi facile preda di chi volesse circuirla.

Sul detto U’ sciabbigottu nun è bonu mancu a fa’ da testemoniu avremo modo di tornare in seguito.

Emilio Gardini (1934/1995)
ha ripreso il tema in versi liberi suddivisi in 25 distici, interrotti una volta sola da un verso singolo per marcare il momento centrale della pesca. La poesia, La sciabbega, si trova a pagina 32 de Pe’ nun ‘mmalamme de nustalgia (Porto Recanati, 1988) e non tradisce lo stile che conosciamo, fatto di pennellate rapide, ma capaci di sprigionare vivezza di effetti cromatici e di stati d’animo. E’ il Gardini artista e fotografo che ci è tanto caro:

Edè matina
el sole in fonnu al maru        
    se sveja e te culora
    el cêlu d’oru…

Un vecchiu, scalzu,
in ma’ tiene un cullare         
    passa la ‘oce
    che prestu se fa coru:

“Se ara…”
La barca scure lesta            
    tra le lonne
    calchidù parla…

gnisciuna je responne…
El remu batte el schermu      
    rugenitu       
    per cumpagnà quel sonnu

mai fenitu
“Se cala…”      
    De bottu tutti quanti
    pìene ‘ita

e subetu ‘gni cosa
è fatta lesta…  
    Chi pìa ‘na cima            
    chi ‘mmucchia su ‘na resta

chi lancia in tera
‘na coffa scanuscita…
    “Se salpa…”

E la speranza
de ‘na pescata grossa         
    je mette drentu         
    ‘na forza che spaura

‘Ncora el più ‘ècchiu
duenta ‘na creatura      
    quannu la sacca,
    ‘nzuppa, ‘ria a la costa.

‘Nte quele facce
carche de sudore         
    ce se po’’ legge tuttu
    de la ‘ita…

‘Na ‘ô’ ‘a bè
un’altra te ‘a male            
    sempre de cursa
    finché nun è fenita…

El sciabbegottu
quessu ce lu sa…             
    la rete è sgodia
    ma rtorna po’ a salpà…

Drentu de lu’
nun pôle mai murì            
    la oja e la speranza
    de ciarnì.

 

 

 

Per Alessandro Mordini (1931), a differenza di Sorgentini e Gardini, l’esperienza dello sciabicotto non è stata soltanto letteraria. Pertanto l’approccio all’argomento è davvero diretto, come ci si può accorgere alla lettura de El vestitu d’i puretti, pubblicata in Canto a cinque voci (Humana editrice, Ancona 1999, p.49). In questo autentico poeta giunto relativamente tardi al confronto con il pubblico, oltre che il possesso pieno dello strumento linguistico dialettale, non fa mai difetto la capacità di sorprendere con immagini cavate direttamente dal profondo dell’anima popolare.

Quannu a la matina
de bunora,
cumensàa a fa’ ell’alba
all’urezzonte
spettami el sole
che scappasse fòra
e che c’esse bagiàtu
nte la fronte.

‘Emi aratu
a le dó de notte
la bàa terana
ce ‘ngranciulìa gni cò
c’emi le schine
tutte ‘mezze rotte’
‘ndacemi a sciabbega
a guadagnà calcò

C’era la guera
erimi mal redutti

El sole era el vestitu
d’i puretti.

 

Novella Torregiani
porta la sua e la nostra attenzione, fin dal titolo, sullo sciabicotto (Sciabbegòttu, da Donne purtannare, p. 23, inedito). Con pochi tocchi l’autrice riesce a darci una descrizione precisa di questa caratteristica figura nostrana e, al tempo stesso e sempre con consapevole scelta di sintesi, delle sue speranze deluse. L’istantanea, però, lascia nel lettore un sentimento di simpatia verso il povero pescatore che non è riuscito a fare il salto nella categoria superiore.

‘Na fiezza de capéji
‘nte la fronte,
‘na giacca ‘ècchia, ‘na maja,
le braghe ónte:
‘ndacea ggió la marina
a ‘ede el maru,
speraa de fa’ un bel giornu
el marinaru.
Invece nun sapéa
quattru e quattr’ottu:
è rmastu sempre e solu
u’ sciabbegottu.

Si può essere sicuri che la sciabica abbia fornito ispirazione a poeti o artisti in ogni parte d’Italia e del mondo. Un esempio molto vicino a noi l’abbiamo nei locali del Comando in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dell’Adriatico, in Ancona; nella sala d’attesa che confina con l’ufficio dell’Ammiraglio Comandante c’è infatti un bassorilievo della scultrice Gianna Fiorenti, datato 1961 e intitolato La tratta marina, donato dalla Amministrazione Provinciale del capoluogo marchigiano.

Un poeta brindisino che ha dedicato alcuni gioielli alla sciabica e agli sciabicotti è stato senz’altro don Luigi De Marco (1877 – 1949), a lungo parroco nella chiesa di Sant’Anna e della SS.ma Trinità (oggi Santa Lucia). Riordinò la biblioteca arcivescovile, fu regista e direttore del teatrino Manzoni, cappellano delle carceri giudiziarie. Giuseppe Catanzaro, autore dell’introduzione al volume Lu sciabbicotu dove sono raccolti, a cura di Virgilio Indini, i versi dialettali di don Luigi, lo considera …il legittimo continuatore di un altro grande poeta dialettale brindisino, don Agostino Chimienti…e aggiunge che …l’opera del De Marco resta tuttora viva non perché a pochi anni fa ammonta la sua scomparsa (egli scrive per un’edizione del 1966), bensì perché il contenuto di quasi tutte le poesie è sempre attuale e perché seppe interpretare magnificamente l’anima del popolo, le di lui aspirazioni, i sentimenti, i bisogni….

Per ciò che ci interessa più da presso in relazione all’argomento che stiamo trattando, Catanzaro ci informa che don Luigi…diresse e stampò per alcuni anni una decina di fascicoli intitolati “LA SCIABBICA – Raccolta di versi giocosi”, sotto lo pseudonimo di LU SCIABBICOTU. Le SCIABBICHE è il nome di un rione vecchio e tipico di Brindisi, abitato in maggior parte da famiglie di pescatori, dove si parlava un linguaggio spiccatamente dialettale e si tramandavano consuetudini, usanze e costumi antichi, oggi quasi del tutto scomparsi…

Del prete/poeta pubblichiamo volentieri La calata:

Quandu lu soli all’aria cita poni,               Quando il sole nell’aria silenziosa tramonta
Quando pì l’aria cantunu l’acieddi,            Quando nell’aria cantano gli uccelli,         
Quando la sera scendi, e allu farconi        Quando la sera scende sul cielo all’orizzonte
Viti spuntari tu li prima steddi;                Vedi spuntare tu le prime stelle

Li varchi già so pronti a rip’a mari            Le barche già son pronte il riva al mare
Cu mattiri e cu ridi priparati:                  Con le mattere e le reti preparate:
Li giovini so pronti pì viari                       I giovani son pronti per vogare
Senza giacchetti e tutti nfurdicati.           Senza giacche e in maniche di camicia     

Vòiunu tutti suezzi a na palora,               Vogano tutti insieme all’unisono,
E voiunu cu llena e cu llicria,                   E vogano con lena e con allegria
Mentri ca la campana segna l’ora            Mentre la campana suona l’ora
L’ora ca sona già l’Avi Maria.                   L’ora che suona è già l’Ave Maria.   

Li viti, si ndi vannu assai luntanu             Li vedi, se ne vanno assai lontano
Tutti contenti a maru sotu e chiaru         Tutti contenti al mare quieto e chiaro
Candandu na canzona chianu chianu….     Cantando una canzone piano piano…..
E’ la canzona ti lu marinaru!!!                 È la canzone del marinaio.

Acculi a mmienz’a mari ntra ddò botti,     Eccoli in mezzo al mare in men che non si dica,
Lassunu ti viari…e già li viti,                   Finiscono di vogare…e già li vedi,
Mentri c’avanza sempri cchiù la notti,      Mentre avanza sempre più la notte,
A mmiezz’all’acqua mènunu li riti.            In mezzo all’acqua buttano le reti  

Ti quisti a manu zziccunu li cimi              Di queste con la mano prendono le cime
Doppu alla spiaggia vòiunu cu llena          Dopo alla spiaggia vogano con lena
Nfacci’alli varchi lassunu li rimi,               Attaccati alla barca lasciano i remi,
E tirunu li riti a cantilna.                        E tirano le reti con cantilena

E zzumpunu ntra quiddi trighizzoli,           E saltano dentro quelle conche
Alici, careni e sparatieddi;                  
  Alici, granchi e sparatieddi,
Cafituli, lustrini – e tirragnoli,                 Cafituli e lustrini e cefalotti,
E l’àcuri, li scorfini e sardeddi.                E l’aguglie, gli scorfani e sarde.

Po’ ndenchiunu li mattiri –di pesci            Poi riempiono le mattere di pesci
E a nterra si ndi tornunu cantando:         E a terra tornano cantando:
Lu cielu già ccumenza cu schiarisci          Il cielo già incomincia a schiarire
Lu soli a picca a picca va spuntando.       Il sole a poco a poco va spuntando.

 

Secolare regina dell’Adriatico, culla di una gloriosa storia marinara, Venezia non poteva mancare in questa rapida rassegna, anche se ho dovuto constatare che l’argomento sciabica spunta soltanto di sfuggita nella produzione della lirica popolare veneziana. Ne ho trovato timida presenza nel Descorso del pescaore ciozotto, opera della quale non è indicata la data di composizione  nel volume, peraltro godibilissimo, curato da Manlio Dazzi (La lirica popolare – Pozza editore – Vicenza, 1993).
Qui, a pagina 53, il pescatore di Chioggia elenca alcuni tipi di rete e tra questi cita le trate, termine generico per le reti a strascico.
Non è certo gran cosa, ma non è nemmeno niente.

  

 

A Venezia, o comunque alle coste venete, ci riporta una novella di Grazia Deledda, “La sciabica”, che abbiamo trovato nel quinto volume delle novelle della scrittrice sarda (Grazia Deledda – Novelle – a cura di Giovanna Cerina – ed. Ilisso, Torino 1996, pp. 254/258).  
Grazia Deledda è stata un premio Nobel per la letteratura (1926); pertanto l’argomento della nostra ricerca non può che essere nobilitato dalla presenza di una simile testimonianza letteraria.
Riporto dunque per intero il testo al quale farò seguire qualche osservazione. Per ora invito solo ad un’attenta lettura; i portorecanatesi, e non solo loro, potranno trovare più di un elemento di somiglianza con l’esperienza dei nostri sciabicotti.

      La passeggiata dei due amici, lungo la spiaggia, venne fermata dall’impedimento di una grossa corda che alcuni pescatori traevano dal mare e portavano a forza di braccia e di schiena, indietreggiando, in fila a distanza di pochi passi l’uno dall’altro, su fino all’estremità dell’arenile.

Intorno alla schiena ciascuno di essi aveva un’alta cintura di corde intrecciate, fermata, davanti, in modo da non premere lo stomaco, da un bastoncino al quale era legata una breve cordicella, una specie di laccio, con l’estremità ad uncino, che aiutava la mano del pescatore ad afferrare e tirare con più forza la fune.

Questa cintura era il segno che tutti, vecchi, giovani, bambini, e una donna, che pareva fatta di sabbia, e anche lei tirava con vigore, appartenevano alla comunità della barca nera e vecchia come quella di San Pietro apostolo, che, abbandonata a se stessa, si gingillava con le ondine celesti lì davanti alla riva.

La corda non finiva mai: pareva che il mare ne fosse pieno. Tira e tira, arrivato in cima all’arenile, il primo pescatore della fila l’abbandonava sulla sabbia, e correva a riprenderla alla riva, agitando l’uncino della cordicella come un campanello e così via tutti.

A pochi metri di distanza, di lato, la faccenda si ripeteva: un’altra fune cioè veniva tirata, portata in su, abbandonata sul mucchio già formatosi sulla rena e i tiratori si sostituivano a vicenda, in modo che parevano moltiplicarsi, come le comparse in teatro quando rappresentano una folla.

Della folla plebea essi avevano anche le caratteristiche; vecchi, giovani, ragazzi e bambini, brutti tutti, arsi e scabri come pesci salati, eppure uno diverso dall’altro, con addosso tutti gli stracci immaginabili, nude però le gambe e i piedi di radica, ed in testa berretti, cappelli, copricapi che ricordavano tutta la collezione dei funghi mangerecci e velenosi. Anche la donna aveva un fazzoletto giallo, messo in modo che la sua testa pareva un limone.

“Ma che fanno?” – domandò il più piccolo dei due amici.

Il maggiore ne avrebbe saputo quanto lui se non fosse stato del posto: quindi fece sfoggio di erudizione.

“E’ la pesca alla sciabica, così si chiama la rete che sta laggiù nell’acqua e non si vede. Sciabica vuol dire rete da sabbia, perché non arriva dove l’acqua è alta. Questa pesca si chiama anche tratta, perché vedi come tirano”

“Eh, lo vedo bene – ammise l’altro, e s’incantò a guardare.

E gli vennero in mente i suoi genitori, che litigavano sempre, o almeno si lamentavano, per la mancanza di denaro, le difficoltà della vita e la durezza del lavoro quotidiano. Anche adesso che stavano per quindici giorni di riposo, per via di lui, Matteino, che aveva assoluto bisogno di aria di mare, anche adesso non trovavano pace: anzi, meno che mai, perché i soldi, diceva la madre, se ne andavano come portati via dal vento, e il padre replicava che era lei a non saper fare economia. Ma come si fa a fare economia quando il pane costa più che un tempo la torta, e i pomidoro si vendono come se il loro nome fosse autentico, ed un pesciolino, ‘mannaggia la miseria’ (quando è esasperata la mamma usa il linguaggio delle donne del mercato) te lo fanno pagare come se dentro le viscere ci avesse una perla.

Chi sa, invece, quanti pesci questi pescatori, che sembrano tanti zingari del mare, si mangiano in pace ed allegria.

Allegri, adesso, veramente non sembrano; e neppure in pace, perché anche essi questionano, l’uno con l’altro nella stessa fila, od attraverso lo spazio con quelli dell’altra, e sono urli, bestemmie, improperi, dei quali i più delicati sono ‘lasaròn’ o ‘fiol d’un can’, e verrebbero forse alle mani se le mani indolenzite e ardenti non pensassero per conto loro a tirare la corda.

E la corda, rossastra ed oleosa, come una salsiccia dura, si lascia tirare volentieri, pur dandosi l’aria di essere lei a trarre dal mare il peso misterioso della rete ancora invisibile.

Alcuni ragazzi bagnanti, che da lungo tempo assistono allo spettacolo, per puro spirito di solidarietà umana, o perché credono che il loro valido aiuto affretti l’opera, s’intruppano fra i pescatori e si mettono anch’essi a tirare. Ci si mette anche un signore in maglia e berretto da marinaio; un bel tipo di negriere coi denti, anche quelli di davanti, tutti d’oro. Ci si mette anche una signorina secca, vestita di verde come una cavalletta.

“Brava, brava – si grida intorno.

“Ma il pesce che pescano a chi va? – domanda Matteino all’amico.

“Lo vendono, o se è poco se lo dividono fra loro. Una volta ne ho avuto pure io perché ho aiutato a tirare”

Allora un’idea luminosa guizza nella mente di Matteino: mettersi anche lui a tirare e portare poi alla mamma affaccendata il suo berretto da bagno gonfio di pesci.

“Tiriamo anche noi” –propone all’amico- ma questi fece una smorfia di diniego, anzitutto perché Matteino era così piccolo e mingherlino che pareva fatto di zolfanelli incrociati, poi perché quella volta, nel tirare la fune, s’era fatto le vesciche alle mani, e la serva aveva buttato via i pesciolini da lui portati a casa, non, com’egli affermava, ricevuti dai pescatori avari, ma raccattati fra gli scarti lasciati da loro sulla sabbia.

Intanto già fra le ondine celesti che pareva si prestassero graziosamente anche esse a spingere a riva la rete, si notavano i primi segnali di questa, con l’apparire dei sugheri a galla: i pescatori adesso tacevano, tirando con più forza, col viso rischiarato dalla speranza. La donna di sabbia s’era fatta la più animosa; quando veniva il suo turno di ricominciare, scendeva a precipizio dall’arenile e riafferrava la corda riversandosi indietro sulla sua cintura selvaggia, come se da quello sforzo dipendesse la salvezza della sua vita..

Fu dietro di lei, fra lei e un omone rosso il cui sudore pareva sangue, che Matteino, avvolto anche lui da quell’atmosfera di speranza diffusa intorno, si mise a tirare la corda: e gli parve di essere lui solo a produrre la forza necessaria ancora a portare l’opera a compimento.

“Forza, coraggio, tira, tira, Matteino –diceva a se stesso, preso da un’ebbrezza che gli faceva dimenticare lo scopo meschino della sua impresa. Su, su, la sabbia gli sfuggiva di sotto i piedi, e in realtà egli si sentiva trasportato fra l’omone forzuto e la donna tenace, come sospeso nell’aria.

La rete adesso la si vedeva uscire piano piano dal fitto delle onde; pareva un grande canestro di velo rosso merlettato di nodi di sughero e trapunto di pagliuzze d’acciaio. Erano i primi pesciolini, che destarono un senso di pietà in Matteino. Poveri, poveri pesciolini! Se ne stavano affacciati tranquilli ai finestrini della rete perché l’acqua ancora la riempiva, ma arrivati sulla sabbia, nel sentire l’orrore della loro sorte, cominciarono a spiccare salti e a contorcersi, inarcandosi come anelli d’argento, riuscendo qualcuno a balzar fuori dalla sua prigione.

“Se però tutta la pesca è qui, stiamo freschi” –pensa Matteino; e vede anche il viso diabolico dell’amico sogghignare di scherno.

I pescatori invece erano tutti animati da una silenziosa letizia; il loro viso splendeva come se il sole sorgesse dal mare. Sentivano il peso della rete; e più degli altri poteva sentirlo la donna perché sotto l’arco del suo fazzoletto gli occhi d’ambra rifulgevano simili a quelli di un cane da caccia.

Anche l’aitante negriere, con la sua California (i suoi denti d’oro) in bocca, sorrideva soddisfatto quasi fosse lui il padrone della pesca.

Adesso una folla di curiosi s’era stretta lungo le corde, come quella che assiste allo sbarrato passaggio di un corteo reale: altri ne venivano e si vedevano le lunghe gambe rosee delle donne seminude avanzarsi quasi danzando sullo sfondo azzurro del mare.

“Terra, terra “ – gridò un monello.

E tutti a ridere, a spingersi, ad ammucchiarsi sulla riva.

I pescatori sollevavano e agitavano i lembi della rete, perché i pesciolini ne rimbalzassero e restassero in fondo; la donna era la più svelta e feroce nella faccenda; staccava dalla rete i gamberetti disperati e li masticava vivi; altrettanto avrebbe fatto coi bambini molesti che respingeva coi fianchi gridando.

“Via i burdel, via i bambini”.

Fra le piccole triglie, le sardine e i bianchi naselli distinse il pesceragno, la tarantola del mare, e presolo per la coda lo seppellì nella sabbia e lo schiacciò col piede.

Quest’atto di apparente crudeltà cominciò ad indisporre Matteino. Aveva anche lui abbandonato la corda per mettersi in prima fila fra gli spettatori, e aspettava la sua porzione, quando invece si sentì respinto quasi con violenza da due pescatori che portavano una dentro l’altra due ceste vuote ancora brillanti di scaglie.

“Permesso, permesso, largo, signori”

“Via i burdel”

“Via, bambini, avete capito?”

La rete veniva su, su, sempre più larga, con la sua immensa bocca coi denti di sughero spalancata, e dentro un rimescolamento luminoso: pareva avesse pescato tutti i tesori del mare. Anche l’amico di Matteino non sogghignava più; poiché molte pesche alla sciabica lui ricordava, ma nessuna abbondante come questa.

Attorcigliati anch’essi e presi da una furia infernale, i pescatori agitavano in dentro i lembi della rete; e in fondo a questa i pesci si ammucchiavano, crescevano, crescevano, come se la disperazione stessa li facesse moltiplicare.

Una prima cesta, portata da due pescatori e scaricata sulla sabbia con rapidità veramente fulminea, destò un grido di ammirazione intorno. Si ebbe l’impressione che un lampo fosse caduto sulla rena e vi si agitasse, inchiodato da una forza superiore alla sua: poi un’altra cesta, un’altra, altre ancora. I pescatori adesso ridevano, come ubbriachi: la donna di sabbia s’era strappata di testa il fazzoletto, per riempirlo di pesci.

Sulla sabbia, fra il cerchio degli spettatori quasi sbalorditi, la macchia lampeggiante si allargava tremolando, come fatta di mercurio, e lo schioppettio dei pesciolini, rimbalzati e urtati fra di loro dalle convulsioni della morte, ricordava quello del fuoco.

Tutto lo splendore tumultuoso del mare pareva si fosse riversato sulla rena, e il mare ne restava come impallidito.

Allora Matteino pensò ch’era giunta l’ora del compenso della sua fatica: già altri ragazzi spigolavano i pesci rimasti qua e là, e scappavano svelti come grandi ladri. Egli s’era già tolto il berretto da bagno, ne aveva allargato l’elastico e cominciava a buttarvi piccole manciate di pesciolini che gli sfuggivano fra le dita come spilli.

Già vedeva il viso sorridente della mamma, già i begli occhi glauchi di lei lo guardavano dal fondo del berretto. Ma sentì anche lo scottante ceffone del babbo.

“Lazzarone, figlio d’un figlio d’un cane, lascia stare lì la roba che non è tua”.
Queste parole stridenti erano accompagnate da scapaccioni a confronto dei quali quelli che di tanto in tanto gli prodigava il babbo, sembravano carezze. Era la donna di sabbia che glieli regalava; ed egli dovette fuggire carponi fra le gambe degli spettatori, davvero come un figlio di cane, col berretto tra i denti, per salvarsi dalla furia di lei.  

Comprendendovi anche la donna di sabbia, non sono poche le somiglianze, a partire dal sistema di disporsi in doppia fila per trarre a terra la rete. La barca, però, non veniva abbandonata a se stessa, ma a bordo restava sempre qualcuno (il barcaro). Identico il pubblico di curiosi che in folla attorno ai pescatori, attirati da quello strano spettacolo e, come accadeva da noi, anche nel racconto della Deledda ci sono dei bambini che aiutano nel lavoro i padri, i nonni o i fratelli maggiori.

Noto che anche per la scrittrice sarda il termine sciabica è essenzialmente riferito alla rete e non alla barca, un fatto, questo, che sembra appartenere al mondo della marineria portorecanatese e a pochi altri.