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S O M M A R I O

INTRODUZIONE 
LA PAROLA
SCIABICA DA MANUALE 
       Sciabiche da spiaggia
       Caratteri distintivi 
       Sciabiche da spiaggia e da natante
IN GIRO PER IL MONDO 
LA POESIA DELLA SCIABICA
IN GIRO PER L'ITALIA 
NUMERI
SCOTE E CALA 
       La barca       Gli uomini
       La rete         A pesca
       Non di corsa, ma a passo veloce       Le parti
       Come parla uno sciabbegottu
ALBUM DEL PORTO 
UN SEGNO DELLA NOSTRA CIVILTÀ MARINARA
AGURA E SGOMBRI  
CONCORRENZA SLEALE
LA CANTINA
NEL NOME DEL PADRE
LE DONNE  
EPISODI
       Sciabbegotti e testimonianze
       Sciabica... in collina
       La barchetta dove la metto?
       Per la patria in guerra
       Qualche personaggio (ma pochi, se no non la finiamo più)
CONCLUSIONI
1° CONCORSO DI POESIA DIALETTALE MARCHIGIANA (premio E.GARDINI)


Introduzione

Diversi amici, tra i quali Emilio Gardini e Giuseppe Perfetti, hanno visto e riferito che al museo de Il Cairo c’è esposta un’opera nella quale sono chiaramente raffigurati dei pescatori che tirano la sciabica. Un’attività, dunque, che è propria, non da ieri, almeno dell’intero bacino del Mediterraneo. Un’altra testimonianza “nobile” si trova nella pianta catastale di Montorso, risalente al XVII secolo, già pubblicata in Veleggiando (Porto Recanati,1999, p.63): si vedono anche lì degli sciabicotti al lavoro.

Gli sciabbegotti, così nella versione dialettale, hanno rappresentato un settore importante nell’economia di Porto Recanati.

Ci sono stati momenti, 80/100 anni fa, in cui ce ne erano almeno un centinaio; ciò significa che più o meno 500 o 600 persone (mogli, figli e genitori anziani) vivevano della sciabica.

Una tale presenza ha logicamente prodotto storie, aneddoti e personaggi in quantità; soprattutto, però, ha avuto un peso non indifferente nelle vicende della nostra comunità. La quale, comunque, e questo va pur detto per amore della verità, nel passato non ha mai manifestato una grande considerazione per questa categoria di lavoratori.

Gli sciabbegotti contavano meno di tutti. Meno, soprattutto, dei pescatori d’altura, quelli delle paranze e delle lancette, che costituivano l’aristocrazia del mare. Senza esagerare, però, come opportunamente fa notare Bruno Venusto, pescatore e poeta. Bruno ha sempre fatto il pescatore di “altura”, ha navigato anche, e lungamente, in Atlantico. Da lui viene una sottolineatura della differenza tra sciabicotti e pescatori… Non conosco la sciabica  – ci ha detto – anche perché io sono nato a San Vito Chietino e chi è pratico di quei posti sa bene che, non essendoci spiagge subito vicino al mare, ma ripe e scogliere, vi erano i famosi trabocchi (palafitte sugli scogli dalle quali si lancia la rete in mare). Anche coloro che andavano sui trabocchi erano definiti pescatori, come tutti quelli che pescano pesci. A me, per quanto difficile possa essere, preme soltanto rilevare che fare il pescatore con la sciabica è una cosa, fare il pescatore col trabocco è una cosa, fare il pescatore con la canna è una cosa, ma fare il pescatore su una lancetta a vela e su un peschereccio è tutt’altra cosa. Forse tutti i metodi di pesca esistenti al mondo sono più nobili ed importanti culturalmente e storicamente della lancette a vela e dei pescherecci, ma vivere l’esperienza di mare su costoro è tutt’altra cosa. Certo, la parola pescatore si riferisce a tutti i tipi di pesca. È come dire la parola Uomo. Ma esiste l’uomo che è andato sulla luna e l’aborigeno australiano. Tutti nasciamo analfabeti, poi c’è chi si laurea e chi resta agli albori. Tutto questo per dire che si dovrebbe fare uno studio o un dibattito del perché nello stemma del Comune di Porto Recanati ci sono le vele e non il collare? No. Non è un problema mio. E’ solo per evitare la confusione, che è tanta, intorno alla parola pescatore.

Addirittura gli sciabicotti non venivano ritenuti capaci nemmeno di far da testimoni. Una tale leggenda metropolitana ha a lungo resistito nell’immaginario popolare; l’intervento in proposito di Mario Panetti, riportato nel corso di questo lavoro, servirà a fare giustizia sull’argomento.

Certo è che sono vissuti a lungo nella miseria. Negli ultimi anni non è stato più così (e ci mancherebbe altro), ma è pur vero che i nostri sono i tempi in cui, in maniera progressiva e inesorabile, la sciabica è andata incontro alla sua quasi totale sparizione, tanto che desta meraviglia venire a conoscenza della persistenza dell’attività di qualche ciurma. È questo mondo che intendiamo valorizzare nel nostro secondo speciale, per paura che se ne perda la memoria e che di esso non resti che effimera aneddotica.

Abbiamo cercato di farlo pubblicando il meglio di quanto ci è riuscito di raccogliere: qui il lettore troverà pagine sulla barca detta sciabica e sull’omonima rete, sul linguaggio degli sciabicotti, sulla loro religiosità e le loro donne, sul modo di pescare e di vendere il pescato; e poi, dati statistici tratti da documenti vari, incursioni in altre parti d’Italia e del mondo dove pure la sciabica è ben conosciuta, l’avventura mozambicana, le cantine, personaggi e leggende. Crediamo di aver fatto un lavoro non inutile, che ora affidiamo al giudizio del lettore; la nostra speranza è, come sempre, che la lettura stimoli altri a fare ricerche, ad approfondire l’argomento, a portare contributi (ma seri) alla conoscenza di un aspetto rilevante della storia della Comunità del Porto. Suggerimenti possono esserci inviati anche tramite il nostro sito internet: www.centrostudiportorecanati.it

I capitoli di cui non è citato l’autore sono opera del sottoscritto.

E adesso venite con noi. Si vara.
Porto Recanati, autunno 2001.                                                                                              Il Direttore                     Vai al SOMMARIO

 

 


La parola

La parola italiana sciabica (dialetto sciabbega, da cui il derivato sciabbegottu per sciabicotto) ha la sua origine nella lingua araba nella quale il termine šabaka indica la rete a due ali con sacca centrale.

Da qui (dall’area linguistica araba in generale, in particolare quella  relativa all’Africa Settentrionale) il vocabolo dovrebbe essere passato prima nel siciliano per poi invadere le coste italiane e tutto il quadrante marittimo che interessa la Penisola, visto che si tratta di un tipo di pesca praticata ovunque nel Mediterraneo. 

E non solo nel Mediterraneo.

Per quanto riguarda l’Italia, Manlio Cortellazzo e Paolo Zolli (Dizionario etimologico italiano, vol. 5/S-Z-, Zanichelli, Bologna 1988), che definiscono la sciabica “rete a strascico per piccole profondità, costituita da due ali e un sacco a maglie diverse”, scrivono che la voce è attestata già da M. Buonarroti il giovane nel 1619 e che, in epoca sicuramente assai anteriore essa si trova nelle forme sciaveca e  sciabica negli Statuta, privilegia et consuetudinis civitatis Cajetae (Gaeta).

Indicazioni più ricche si trovano certo nel Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia ( Torino 1996,vol. XVIII, pp.2/3) dal quale sono tratte le citazioni sotto trascritte.

Sulla sciabica intesa come rete: Soderini (Avendola la natura provvista di doppia corteccia - la pianta del sughero - …si dirizza a far pianelle contro all’umido, a far girelle che tengono sospese le sciabiche et altre reti nell’acqua dirette); il sopra citato Buonarroti (Ecco reti passar, quai chiuse e quali / adattate ed acconce in braccio altrui, / come se ‘l giacchio qui trar si dovesse, / o le sciabiche tendere o le ragne); Reina (Si pigliano forse i pesci con la medesima maniera tutti? Certo che no! Si prendono con la sciapica, s’ingannano con l’esca, s’incarcerano con le nasse); Daniello Bartoli (Avendo ogni moltitudine ‘bonos et malos’, come disse Cristo dei pesci tratti con la sciapica, in cui figurò la predicazione dell’Evangelio); lo stesso (e si entra un gran tratto entro mare, e dalla barca gettando la sciabica, si pianta nell’acqua un gran ricinto di mura, e vi si fabbrica una prigione. Fondamenta sono i piombi, che radono il fondo; le cime de’ suveri, che stanno a galla, la compiono. Indi dal lito se ne tirano i capi, e si raccoglie la prigione insieme, e i prigionieri); Targioni Tozzetti (Tralla preda che fecero certi pescatori genovesi colla sciabica, osservai delle torpedini assai piccole); Bresciani (In mare gittaron sciabiche, nasse, rezze e tramagli, ma don Sebastiano non fu trovato né vivo né morto); D’Annunzio (I sugheri che pendono dalla sciabica stesa ad asciugare dopo la pesca); Moretti (Una vasta rete che, trattenuta dai pali, chiudeva uno spazio di mare, v’imprigionava il pesce, lo serrava, lo premeva man mano che uno dei pescatori di sciabica, con le gambe nude nell’acqua, stringeva le reti abbondanti).

Sulla sciabica come imbarcazione:
Guglielmotti (Sciabica: altresì ciascuna delle barche che adoperano la detta rete);
D’Annunzio (Quella

 

voce la sentì anche Mingo che stava seduto dentro la sciabica in secco a tagliare un sughero); Viani (La ciurma della sciabica non ha limitazione di numero; quanti rematori possono entrare in una imbarcazione sconquassata, tanti sono gli sciabicotti).

Si va dalla fine del Trecento (Guglielmotti) a noti autori del XX secolo. Da sciabica, notiamo anche questo, sono stati tratti i diminutivi sciabichèlla e sciabichétto nonché il verbo sciabicare; quest’ultimo termine significa, certo, pescare con la sciabica, ma è presente anche nel gergo della Marina Militare, come viene qui attestato dal Comandante Nando Carotti: Il ‘gergo marinaresco’ italiano è un misto di termini e modi di dire che risalgono ai tempi di costituzione delle più antiche marinerie: e, date la geografia della Penisola e le tradizioni delle popolazioni rivierasche, non è difficile immaginare che esso risulti, allo stato degli atti, ciò che di comune hanno avuto fin dall’inizio della storia della navigazione soprattutto i liguri, toscani, campani, veneti, cioè i marinai delle quattro Repubbliche Marinare, con  qualche inserimento sardo e siciliano (Marina Sarda e Marina Borbonica). Nel caso specifico dell’interesse che suscita nel lettore il presente argomento, la sciabica, ecco alcuni esempi di come il termine si sia per così dire allargato nel gergo marinaresco: un marinaio ‘in franchigia’, cioè in libera uscita per qualche ora, può dire ai commilitoni che va ‘a sciabicare’ e tutti capiscono che intende percorrere su e giù le strade alla ricerca d’una ragazza; quando comandavo una squadriglia di dragamine, ricevuto l’ordine di operazioni, informavo il mio tenente (il secondo) che andavamo ‘a sciabicare’ nella zona tal dei tali; quando, in tempo di guerra, si ‘pettinava’ il mare in formazione di varie unità alla ricerca di sommergibili nemici si sapeva bene quanto logorasse i nervi ‘sciabicare’ anche per parecchi giorni. È corretto avanzare l’ipotesi che il termine ‘sciabica’ sia stato introdotto nella Marina Militare Italiana dai suoi elementi liguri, e specificatamente genovesi, anche se tutti gli uomini di mare sono estremamente ‘campanilisti’ e non hanno mai perduto del tutto quella sottile rivalità sommersa che ancora oggi fa dire, ad esempio, da un genovese, parlando di un veneto, ‘quello lì è della Marina Veneta’. Ciò non toglie che si facciano tanto di cappello l’un l’altro.

Andiamo all’estero. In serbo/croato, come succede per l’italiano e il nostro dialetto, c’è un solo termine per indicare sia la rete che la barca, vale a dire šabaka, in linea con l’arabo. Tuttavia, qualche vocabolario da anche neka mreža potegače per la prima e neka ribarska barka per la seconda.

Doppi esiti linguistici in Francia e in Spagna. Nel Vocabolario Francese/Italiano di A.Sergent e A. Strambio (tomo secondo, p.944) si trova la voce Xabega, così spiegata: “Specie di rete composta da due ali e un sacco nel mezzo, con la quale gli spagnoli prendono le sardine”.

Stessa spiegazione, questa volta nel Nouveau Larousse Illustré (tomo 7), per Xabeba.
Si indica chiaramente che i vocaboli, pur se registrati in un dizionario francese, sono  entrambi di origine spagnola e si rifanno alla comune radice araba.

Il francese, però, utilizza anche traîne e lo spagnolo non è da meno con traìna o traìña per la rete mentre trainera è la barca. Fin qui, siamo nei limiti del Mare Nostrum, ed è logico che si trovino termini, come quelli appena citati, che provengono diritti dal latino; nel caso che ci riguarda vanno scomodati il verbo trahere o il sostantivo trahea, da cui anche l’italiano tratta.

Tuttavia, i temini sopra trattati per il francese e lo spagnolo servono ad indicare, di solito, il tipo di pesca a strascico in generale, nel quale rientra certo la pesca a sciabica, ma esistono anche vocaboli più specifici, che sono segnalati da Mario Ferretti, curatore di un Inventario degli attrezzi da pesca usati nelle Marinerie Italiane, del quale non conosco l’anno di pubblicazione, edito dal Ministero della Marina Mercantile, Direzione Generale della pesca marittima..

Ferretti  segnala senne per il francese e red de cerca per lo spagnolo (per la rete) e, rispettivamente, senne de plage e arte de playa per la così detta sciabica da spiaggia.

Il fenomeno si è esteso ai mari settentrionali del continente, poiché troviamo fischtrawler in tedesco e trawl-net in inglese, dove la radice latina si scorge con facilità. Anche qui va osservato, come sopra, che i due vocaboli riguardano la pesca a strascico in generale e allora, ancora una volta, ci soccorre Ferretti, che per l’inglese ha scovato seine net (per la rete) e beach seine per sciabica da spiaggia.

La ricerca, se continuata, darebbe certo risultati interessanti e anche sorprendenti, ma non è esattamente ciò che mi sono proposto in questa sede, volendo limitarmi ad accennare soltanto alla caratteristica di universalità del tipo di pesca reso oggetto del nostro lavoro.

Perciò torno verso casa, in Adriatico, dove la sciabica era praticata con particolare intensità. Il fatto, però, non ha prodotto una consistente letteratura in proposito. Pochi e insufficienti, per quello che mi è risultato, gli studi effettuati fino ad ora, rare le presenze nella stessa poesia dialettale.

A San Benedetto del Tronto, per esempio, il Circolo dei sambenedettesi ha pubblicato nel 1993 un bellissimo studio di Francesco Palestini sul dialetto della città; le numerose foto inserite nel volume sono tutte commentate con brani poetici (lancette, retare etc..) tranne quella degli sciabbecùtte, forse perché i curatori non ne hanno trovate (o non ne hanno trovate di significative). In ciò a Porto Recanati siamo stati più fortunati, come si potrà leggere nel seguito di questa pubblicazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In ogni modo Palestini ha dedicato alla voce sciàbbeche uno dei commenti più sostanziosi della parte del libro relativa al gergo sambenedettese. Lo ripropongo per intero: Sciàbbeche, sciabica: imbarcazione lunga, manovrata a remi e usata per la pesca strettamente costiera. La sciabica lasciava a terra parte della ciurma e s’allontanava verso il largo ‘filando’ un cavo (reste) al quale all’occorrenza veniva aggiunto un secondo, un terzo, ecc..; dopo l’ultimo cavo e legata ad esso, veniva calata in mare la rete distesa a largo arco, quasi parallela alla spiaggia; poi la barca tornava a riva ‘filando’ altrettante reste che nell’andata. Quivi, gli sciabbecùtte a forza di braccia ed aiutandosi con gli strùppele, tiravano i cavi a terra parallelamente da ambo le parti, trainando la rete e restringendo mano a mano le distanze fra le due ‘squadre’. Era difficile che il pesce sorpreso nello specchio d’acqua potesse sfuggire: la rete era tenuta in alto da sugheri e distesa verso il fondo da piombi (le mazze) e terminava in un ‘sacco’ (lu sacche). Tale pesca era particolarmente praticata nelle stagioni in cui i pesci migrano a branchi.

Il vocabolo strùppele (da noi stròppolo) indica la cordella terminale del collare dello sciabicotto, annodata al cavo di traino (viene dal greco stróphos > latino stroppus, con il significato di ‘corda’).

Altri termini dialettali rilevati nell’Inventario di Mario Ferretti, che elenco senza un ordine preciso di riferimento: tratta, bragagna, arte da masse, sciabaccone, sciabacca, palandare, trattolina, sciabichello, gorro. Una ricerca sulla loro provenienza non è materia di questo lavoro, ma cercherò di svolgerla prima possibile.

Non posso non terminare questa fin troppo rapida rassegna linguistico/filologica senza trascrivere la definizione di sciabica presente nel vocabolario dialettale purtannaru (Fattu pe’ descure – Porto Recanati 1996)  redatto anche dal sottoscritto in collaborazione con Marino Scalabroni, scusandomi per l’autocitazione: Sciàbbega, sciabica: tipo di barca da pesca strettamente costiera. Di forma allungata, agile al tocco dei remi, con fondo ampio ed ampio pianale di poppa per le reti. Sulla prua aveva il tipico ornamento sacro costituito dalla croce ed i simboli della passione (eredità dei pescatori di Galilea). Era sospinta dai remi, il poppiero di destra (remu da preme) fungeva da timone. L’equipaggio era formato da 9/10 uomini, più i mozzi. Il riparto del pescato era suddiviso per un quarto al padrone della barca, mentre i restanti tre quarti all’equipaggio.

 

 

 

 

 

 

 

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Sciabica da manuale

Prima di accompagnare il lettore tra storie di sciabbegotti e nell’esame minuzioso della barca e della rete usate per l’esercizio del loro mestiere, nonché nelle tecniche di pesca e via …sciabicando, mi avvalgo di nuovo dell’Inventario degli attrezzi da pesca usati nelle Marinerie Italiane perché i meno provvisti in materia abbiano almeno qualche ragguaglio essenziale sull’argomento di cui qui si scrive. Quanto si sta per leggere sarà oggetto di molti richiami nelle pagine che seguono.

La sciabica è un antichissimo tipo di rete da pesca usato in passato in tutte le marinerie. Veniva utilizzata in modo completamente manuale da un elevato numero di persone (una dozzina). La sciabica è formata da varie pezze di rete di forma e dimensioni di maglie diverse. Sulle braccia si hanno maglie abbastanza grandi che diminuiscono gradatamente verso il centro della rete. Le braccia sono molto lunghe se paragonate al corpo della rete e al sacco. Questi ultimi anzi in alcuni casi sono così ridotti da essere semplicemente un prolungamento delle braccia.

L’apertura verticale di bocca è assicurata dai galleggianti sulla lima da sugheri e dai piombi sulla lima da piombi: mentre la apertura orizzontale è ottenuta col particolare metodo di calo e di tiro.

Secondo il regolamento di esecuzione della 963 (M.M.M. 1980) la sciabica deve avere maglie di apertura non inferiore a mm 40. Ciò perché la sciabica è accumunata alle reti a strascico da cui comunque nettamente si differenzia per il metodo di calo in mare e per la velocità di tiro che è indubbiamente più bassa.

La selettività della sciabica è quindi nettamente diversa dalla selettività della rete a strascico. A velocità bassa infatti le maglie restano più aperte e quindi il pesce ha maggiori possibilità di fuga….




Sciabiche da spiaggia

La sciabica da spiaggia è ancora usata saltuariamente a livello professionistico artigianale da molti pescatori italiani. Per le operazioni di pesca sono necessarie da un minimo di 5/8 persone fino ad una dozzina. Questo in funzione anche delle dimensioni della sciabica. La rete e le reste vengono caricate su una piccola barca a remi, che lasciato a terra il capo di una resta, a semicerchio cala la prima resta poi il braccio della sciabica, il corpo, il secondo braccio, la seconda resta facendo in modo di portare a terra il capo della seconda resta ad una congrua distanza dal punto dove si è lasciato il capo della prima resta.

A questo punto inizia il tiro a mano lentamente, ma possibilmente con continuità. I pescatori tirano la sciabica indietreggiando sulla spiaggia tenendo quindi costantemente sotto controllo visivo l’attrezzo. Arrivati al limite della spiaggia a turno ritornano verso la battigia e ricominciano a tirare le reste. Il semicerchio si riduce sempre di più mentre il pesce impaurito dall’ombra delle reste si concentra fino a quando non arrivano sulla spiaggia le braccia della rete che in pratica impediscono ogni possibilità di fuga al pesce a meno di non saltare fuori dall’acqua o di cercare di passare sotto la lima da piombi che comunque tocca il fondo per tutta la sua lunghezza.

Continuando a tirare si concentra il pesce nel sacco o nella parte centrale della rete da cui viene agevolmente prelevato.

Questo tipo di pesca è completamente manuale e generalmente non dà grosse catture, ma in alcuni casi permette a coloro che lo praticano di guadagnarsi la giornata. In pratica il ricavato se si eccettua la manodopera è tutto guadagno. Le spese infatti sono praticamente irrisorie e consistono nella riparazione della rete o nella sostituzione delle pezze usurate. La barca che cala la rete, durante le operazioni di calo procede a remi e quindi non vi è consumo di carburante per la pesca.

Eventualmente vi è un leggero consumo quando la barca è munita di motore per il trasferimento da un punto all’altro per effettuare la pesca.

Caratteri distintivi

Le sciabiche sono formate da varie pezze di rete con maglie degradanti verso il centro o sacco della rete. La rete può essere con nodo e senza nodo a seconda delle usanze locali. Sulla rete sono sempre presenti i galleggianti e i piombi mentre le due braccia terminano su di una asta chiamata mazzetta o mazza. Le reste sono generalmente in cavo tessile, in passato in fibra naturale, ora in fibra sintetica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sciabiche da spiaggia e da natante

Osservando solo la rete le sciabiche si possono agevolmente distinguere da qualunque altro attrezzo da pesca oltre che per le caratteristiche su specificate anche per le seguenti:

a)        Si distinguono dalle reti da traino per una minore grossezza del filo e per avere un sacco molto piccolo se rapportato alla lunghezza totale della rete.

b)        Si distinguono dalla reti a circuizione per l’assenza del sistema di chiusura della rete e per avere sulla mazzetta una pezza di rete con poche maglie che quindi può permettere solo aperture verticali dell’ordine del metro. Le sciabiche poi contrariamente alle reti a circuizione hanno le due lunghe reste.

c)        Si distinguono dalle reti da posta perché le sciabiche sono composte di varie pezze di rete diverse una dall’altra e a filo più grosso.

Se poi si ha la possibilità di osservare le operazioni di pesca la differenza è ancora più agevole.

a)        Le reti da traino vengono tirate dal o dai natanti con l’elica. Le sciabiche vengono tirate a mano da terra o dal natante ancorato, col verricello.

b)        Le reti a circuizione vengono calate a cerchio e chiuse sulla lima da piombi. Le sciabiche vengono calate a semicerchio o a cerchio con due lunghe reste alla estremità (centinaia di metri) e lentamente fatte strascicare sul fondo, tirandole.

c)        Le reti da posta vengono calate verticalmente e lì abbandonate per un certo tempo. Sono reti passive che catturano il pesce che nel suo movimento vi incappa. Le sciabiche vengono tirate e vengono loro stesse portate verso il pesce da catturare.

 

 

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In giro per il mondo

Un nome circolava da sempre nella memoria collettiva degli sciabbegotti evocando posti lontani, esotici, ricchi di fascino e di mistero: Lagobei. Con una sola indicazione per lo smarrito ricercatore che lo sente pronunciare per la prima volta: a sud di Suez. Come dire, quasi nell’universo. Si parlava di sciabbegotti  andati a cercar fortuna in terre lontanissime, di viaggi compiuti su vecchie carrette del mare, tra grandi sacrifici e pericoli, di pesche miracolose e pure di delitti. Materia buona per una serie intera di gialli alla Jessica Fletcher, la gentile signora in  giallo della televisione americana.

Su quel nome, a un certo punto, un dubbio: forse bei è da scrivere bay; proviamo allora a cercare Lagobay o magari Lago Bay. E giù con il dito a scorrere sull’atlante geografico lungo le coste africane da un oceano all’altro.

Nascita di un sospetto, originato dalla consultazione di un atlante pubblicato prima della indipendenza del Mozambico, scovato con tanta fortuna nella biblioteca del Liceo Campana di Osimo: vi si legge, poco sotto Lourenço Marques, la capitale (oggi Maputo), scritto fino fino: Baia di Delagoa. Vuoi vedere che ci siamo? Non può essere che quel sito fosse conosciuto come Delagoa Bay, diventato Lagobei nella pronuncia dei nostri sciabbegotti, cui non si poteva certo rimproverare la scarsa conoscenza dell’inglese o del portoghese?

La conferma che l’ipotesi non è per niente peregrina arriva subito da due fonti: l’ufficio anagrafe del Comune di Porto Recanati e l’Ambasciata della Repubblica del Mozambico in Italia.

Il primo sforna una lista di 24 persone (23 uomini, in maggioranza con la qualifica di marinaio, e una donna) che tra il 1899 e il 1900 hanno richiesto e ottenuto il passaporto per destinazione Delagao Bay. Tra il novembre e il dicembre 1899 sono stati rilasciati passaporti a: Camilletti Teodoro, Cionfrini Bartolomeo, Stefanelli Francesco, Stefanelli Giuseppe, Stefanelli Nicola, Sorgentini Biagio fornaio, Feliciotti Renato pescivendolo, Scalabroni Vincenzo, Consolini Luigi e Monachesi Saverio.

Tra gennaio e febbraio del 1900 ottennero invece il documento: Scalabroni Marone (accompagnato da Scalabroni Angelo di anni 98), Giorgetti Fortunato (accompagnato da Gaetini Andrea di anni 16), Casali Giuseppe, Pandolfi Nicola, Giri Paolo, Michelini Toto (Antonio Giuseppe) –canepino-, Scartozzi Luigi, Rosati Antonio, Flamini Vittorio, Stefanelli Pasquale, Giri Filippo e Gaetini Vincenza in Moretti, massaia di anni 90.

Fuori degli addetti ai lavori (vale a dire alle operazioni di pesca vere e proprie), è da notare la presenza di un canepino, cioè dell’artista del cordame, elemento giudicato indispensabile per una spedizione così complessa, di un fornaio e di un pescivendolo.

Ma ciò che stupisce sono i due vecchi, la donna novantenne e Angelo Scalabroni, che ha quasi un secolo di vita.
Perché si sono imbarcati anche loro? Per fare che cosa, laggiù, nel Paese della canna da zucchero, della palma di cocco e dell’anacordio?
Non ho compiuto ricerche al riguardo, ma penso sia lecito dubitare che i due siano tornati a rivedere il Porto.

L’altra informazione è giunta, come ho accennato sopra, per via diplomatica. È l’Incaricato d’Affari che il 14 giugno ’99 mi scrive dall’Ambasciata del Mozambico in Roma: … In riferimento alla Sua richiesta ho il piacere di informarLa che nel secolo scorso l’attuale Baia di Maputo si chiamava Delagao Bay ed era frequentata da marinai e pescatori provenienti dalla varie parti del mondo. Non è quindi da escludere la presenza italiana in un luogo di una certa importanza storica per il commercio e lo sviluppo economico del sud del Mozambico e del Sudafrica. La così chiamata Delagao Bay si trova nella città di Maputo, capitale della Repubblica di Mozambico, dove esiste un archivio con informazioni documentate sulla vita dell’attuale città di Maputo nei secoli passati.

Un peccato non poter approfittare del suggerimento relativo all’archivio, ma ancora oggi andare in Mozambico non è come fare una gita a Loreto.

Come che sia, i nostri andavano di sicuro a lavorare in un posto dove la loro tecnica di pesca e la loro esperienza, coniugate con la ricchezza di pesce dei mari tropicali, potevano consentire guadagni piuttosto lauti. In un ambiente non ideale, anche questo va pur detto, rispetto alle abitudini dei portorecanatesi. Si pensi che a Lourenço Marques - Maputo, 26 gradi di latitudine, le temperature medie vanno da 18 a 25 gradi, con 779 millimetri medio annui di precipitazioni, un coefficiente annuo di umidità di 0,66.

In compenso, non doveva esserci troppa concorrenza; nessuna, credo, dagli indigeni, se è vero che ancora negli anni Cinquanta del XX secolo, la pesca era praticata con mezzi rudimentali e dava assai scarsi risultati. Così ci assicura, per esempio, Luigi Visintin, autore di un documentato Continenti e Paesi del 1953, edito dall’Istituto Geografico De Agostini di  Novara.

Di queste avventurose spedizioni si occupò pure V., il nostro collaboratore amante dell’anonimato (vedi Potentia n°4), desiderio che continuiamo a rispettare. Riporto quanto egli scriveva sull’argomento, primo tra tutti, intorno alla metà degli anni ’80: Ma ci fu un tempo che sciabbegotti di Porto Recanati andavano a far la stagione nientemeno che in Africa, a sud di Suez, in una località chiamata Lagobej. Un fatto che ormai ricordano solo in pochi, i più vecchi, che accadeva intorno alla fine del secolo scorso e al principio del nuovo: durante i lunghi mesi invernali, quando maggiormente si fa sentire il peso della noia e il desiderio di far qualcosa per la famiglia, un gruppo di sciabbegotti decide di tentare l’avventura africana, recandosi nei ‘mari rosci’, colà richiamati dai discorsi di altri portorecanatesi che hanno attraversato il canale egiziano a bordo di velieri, descrivendolo ricco di pesce azzurro. S’imbarcano ad Ancona e le prime volte portano con loro soltanto la rete. Poi, un anno pensano di portarsi laggiù anche una sciabbega: si era intorno al 1905. Sono Santì Longo (il nonno di Mario el Cuciniero), el vecchio de Pumì (Monachesi Giuseppe), Fortunato Giri (il padre de ‘Ntò Longo), Pacì (Bufarini Pacifico), Saeretto de Nanà (Monachesi Saverio), Cellerì (Fortunato Stefanelli). Quella, però, fu l’ultima campagna perché il povero Cellerì, che era il cuoco della compagnia e s’era recato al villaggio a far la spesa, venne ucciso dai negri e il corpo fatto sparire.

Che storia. Chiarito che Longo sta per ‘alto’ (a beneficio del lettore non portolotto), c’è però da aggiungere che forse i morti furono due, anche se non ho alcuna certezza che il fatto raccontato da V. e quello che segue siano avvenuti nel corso della stessa spedizione.

Dunque, pare che un certo giorno ci sia stata una grossa discussione tra Fortunato Giri e un altro sciabbegotto di cui scriverò solo l’iniziale del soprannome, ‘M’. Interviene Mariano, il fratello di Santì Longo, che si becca una coltellata mortale da M, il quale, per questo, viene imprigionato dalle autorità portoghesi (il Mozambico era una colonia lusitana). Qualche tempo dopo, uscito dal carcere, l’assassino vince molti soldi a una lotteria o comunque diventa ricco (pare in America del Sud dove si era nel frattempo trasferito) e torna a Porto Recanati. Santì Longo non ha dimenticato. Va in un’osteria e si fa dare due bicchieri da mezzo litro, belli grossi e pesanti. Poi si reca nell’osteria dove sa di trovare M e lo centra con una bicchierata che gli spacca la bocca. Gli scagnozzi di M, che poteva evidentemente permettersi delle guardie del corpo, fanno per dare addosso a Santì; questi mostra il suo coltello e loro, spaventati, si dileguano portandosi via M. Dopo qualche mese, conseguenza della grave ferita infertagli, M muore.

Non è finita, perché la voce popolare riporterebbe anche la scomparsa di un terzo sciabbegotto, probabilmente in altro tempo e circostanza rispetto alla sfortunata ‘impresa’ del 1905, ma per quest’ultimo caso gli elementi a disposizione, salvo l’indicazione che lo scomparso doveva essere ‘uno della Cocchina’, sono davvero scarsi.

La sciabbega sbarcò in Argentina alla fine del XIX secolo grazie a un portorecanatese, così almeno raccontano i vecchi e pure i nostri che vivono laggiù, nella grande Repubblica sorella.

Si tratta di Giovanni Bronzini, emigrato intorno al 1880, che nel 1891 da Buenos Aires si trasferì a Mar del Plata. Quando si accorse che gli argentini praticavano la pesca usando i cavalli come forza trainante, costruì una barca, la chiamò Marchegiana e insegnò a tutti come impiegarla per la pesca a sciabica. Giovanni ebbe quattro figli, tra cui Teodoro, divenuto un grande personaggio della politica argentina e a lungo sindaco di Mar del Plata.

Sarà certo assai istruttivo poter fare, un giorno, un’analisi comparata tra la pesca a sciabica sulla costa occidentale e su quella orientale dell’Adriatico. E’ un compito per il quale chiamo in soccorso gli amici della rivista sambenedettese Cimbas, egregiamente condotta da Ugo Marinangeli e Gabriele Cavezzi. Sono certo che raccoglieranno l’appello; per ora riporto una osservazione di Pietro Brattanich, Regio Agente Consolare a Zara, inserita in un suo studio Sulle condizioni della colonia italiana di Zara pubblicato nel Bollettino Consolare, volume VII, parte II, pp. 382/391, dicembre 1871. Poche righe, che però mi sembrano aprire a una storia che sospetto straordinaria: Ultima finalmente, ma non di minore entità, tra le industrie esercitate qui dagli italiani, è la pesca. Ogni anno per nove mesi scorrono sul mare che lambe questo distretto varie barche peschereccie di Chioggia, che, col metodo delle tratte, forniscono il pesce al mercato di Zara. Con ardui travagli e privazioni, questi valenti marinai, il cui istinto generoso li consiglia a volte ad atti di coraggio ammirabile, giungono a trarre dalla loro professione guadagni, se non larghi, almeno sufficienti alla loro sussistenza. Convennero qui nel 1870 sette compagnie, formate da 21 navigli, con 149 persone d’equipaggio.

Una ricerca di grande interesse è stata condotta per il mondo anglosassone e persino per la Tasmania e il Giappone, da Alberto Giattini. Eccone, in una sintesi, il risultato, con l’avvertenza che questo aspetto sarà sviluppato nei prossimi numeri della nostra Rivista.

Chi pensava che la sciabica fosse una prerogativa della costa marchigiana decisamente si sbagliava. Cercando nei documenti presenti su Internet (ma non solo) pubblicati in lingua inglese, si scopre che tale tipo di pesca, definito ‘beach seine net’ (alla lettera: rete trainata dalla spiaggia), ha dei corrispettivi molto simili, se non identici, in varie parti del mondo, alcune anche molto lontane da noi. Verosimilmente l’ingegno umano, a parità di condizioni, ha determinato soluzioni tra loro simili.

Quello che spesso rimane difficile da capire, in molti documenti in lingua inglese, è se il tipo di rete da pesca manovrata da terra corrisponda alla sciabica (con due cime legate ai bracci ed un  sacco, tanto per intenderci) o è costituita da una semplice rete rettangolare, calata partendo da terra con andamento a ferro di cavallo, e poi tirata in secca da due gruppi di pescatori (anche questo sistema, effettuato spesso con reti da posta e soprattutto da pescatori non professionisti viene a volte utilizzato). Pertanto, per rimanere nel certo, possiamo elencare alcuni documenti che si riferiscono sicuramente al tipo di pesca in questione.

Rimane difficile stabilire quando effettivamente tale tipo di pesca ha iniziato a esistere. Quello che possiamo ipotizzare è che sia molto antico, soprattutto per la estrema semplicità del sistema. Se si considera inoltre che ancora oggi gli indiani della tribù dei Swinomish, presenti nello stato di Washington (USA) e nel confinante nord-ovest del Canada, usano questo tipo di rete e considerando con quale precisione tali popolazioni hanno tramandato per secoli le loro tradizioni, viene da pensare che la stiano usando veramente da molti anni.

Comunque, una prima definizione fu data da tale Thomas Pennant nel 1769, che ne definiva le modalità per i pescatori che operavano alla foce del fiume Towy, nel Galles del sud (Inghilterra). Purtroppo non siamo riusciti a reperire tale documento, ma sembra che in quella zona la ‘beach seine net’ serva tutt’ora a catturare salmoni e trote di mare e costituisca un elemento trainante dell’economia locale.

Per tornare nel continente americano, dove notoriamente non si lascia niente al caso, la sciabica è stata argomento di studio, commissionato in questo caso dalla Società dei Pescatori del fiume Fraser, situato nel Labrador (Canada). In una ricerca sui vari metodi di pesca, di cui ben sei dedicati alla ‘beach seine net’, questa si rivela un’ottima metodica nella cattura dei salmoni, con una quantità praticamente inesistente di ‘decessi’ (il pesce non muore nella cattura, potendosi mantenere più a lungo), caratterizzata dalla presenza di pochi avannotti e con il pesce scarsamente deteriorato esteticamente (aspetto importante per un pesce prelibato). Tra gli aspetti negativi viene segnalata la difficoltà di utilizzo derivante dalle asperità del fondo marino (la nostra ‘presura’) e la morte rapida dopo la cattura per quella qualità di pesce, definita da ‘stress’.

Sempre in ambito di ricerca sono state definite delle formule per calcolare l’area delimitata dalla rete che potrebbe tornare utile, sapendo la densità media di popolazione ittica di una data zona,  e quello che ci si può aspettare dalla calata se effettuata a caso.

Dai documenti ritrovati su Internet risulta che la sciabica costituisce anche materia di insegnamento presso il Marine Science Centre di Pulso, nello Stato di Washington, dove i ragazzi della scuola superiore possono effettuare dei corsi di biologia marina; il pescato viene rigorosamente rilasciato o mantenuto in vita e costituisce oggetto di osservazioni per gli studenti presso il locale acquario.

Relativamente al continente australiano sono invece reperibili documenti provenienti dalla Tasmania dove la sciabica, dotata di sacco o di una parte rigonfia, può essere consentita purché non superi i 50 metri di lunghezza, abbia le maglie non inferiori a 30 mm. e per essere utilizzata richiede una particolare licenza. Sempre dietro il rilascio di licenza può essere utilizzata anche da pescatori non professionali.

Per finire, la rete della sciabica viene prodotta, pensate un po’, persino in Giappone dove una ditta in attività sin dal 1817, che produce reti da pesca di qualsiasi genere e le invia in tutto il mondo, è ancora attiva nella produzione di reti per la ‘beach seine net’. Vengono spiegati i nodi usati, il tipo di filo e i metodi di misurazione della lunghezza e della profondità della rete. Questo metodo viene consigliato dalla ditta per catturare sardine, sgombri ed altre qualità di pesce atlantico.

Questa è solo una breve carrellata di curiosità reperite spulciando un po’ qua e un po’ là, non ha sicuramente la pretesa di essere una ricerca esauriente. Può comunque costituire lo stimolo per approfondire ulteriormente l’argomento.

In Francia, la pesca con la sciabica (senne) era parecchio praticata nell’isola d’Oléron (costa atlantica, poco a nord del grande estuario della Gironda). La particolarità era che qui non si usava nessuna barca. I pescatori utilizzavano una rete con dei sugheri nella parte alta e dei piombi in quella bassa; da ogni lato della rete erano fissati due bastoni. Queste notizie le traggo da un lavoro pubblicato su Internet (www.cabuzel.com/oléron/phsenne.html), e procuratomi dagli amici Franck e Nathalie Endrivet, dove si legge anche che la lunghezza della rete dipendeva dal numero dei pescatori impegnati nella pesca. Meglio se si era in parecchi, perché uno dei segreti di una buona pesca stava nella velocità dell’operazione di ritiro a terra della rete; più veloci si era meno pesce riusciva a sfuggire alla cattura.

Si pescava spesso di notte, poiché in quelle ore il pesce si avvicina alla costa. I pescatori collegati a uno dei due bastoni entravano in acqua mantenendosi in posizione perpendicolare alla riva. Gli altri li seguivano mentre i primi, giunti a una certa distanza, compievano un movimento rotatorio per portare la rete parallela alla riva. Fin qui si poteva procedere con relativa lentezza; il pesce non si rendeva ancora conto del pericolo. Ma occorreva non fare troppo rumore. Quando invece si trattava di ricondurre a riva la rete, allora bisognava lavorare in fretta. In questa fase le due squadre si avvicinavano, arretrando, e così si formava una sorta di tasca con la rete. Era qui che il pesce rimaneva intrappolato.
Si prendevano soprattutto spigole, sogliole e cefali.
Gli abitanti del villaggio, quando la pesca era stata abbondante, venivano con delle carriole a caricare il pesce da portare al mercato e poi alla vendita.

Michel Lopez (siamo sempre in Francia, questa volta sul lago di Grand-Lieu, zona bretone della Loira) ha scritto una storia interessante sulla disputa tra i monaci del convento di Buzay e certi signorotti locali a proposito dei diritti di pesca alla senne nel lago in questione. Non riproponiamo questa storia, non disponiamo dello spazio necessario, ma è opportuno sottolineare che la pesca alla sciabica si svolgeva anche nei laghi e soprattutto che il privilegio di esercitarla era considerato davvero non da poco. Conserviamo tra le nostre carte, nella sede del CSP, il lavoro del signor Lopez, a disposizione di chi vorrà approfondire l’argomento.

Un’ultima nota sugli sciabbegotti girovaghi del Porto, che ci riporta in Mozambico.

Chi non ricorda Nemesio Castellani, più noto con il soprannome di Trentino? Personaggio estroso, rappresentato più volte in maniera inimitabile da Remo Scocco sul palcoscenico della rivista di carnevale, deceduto in Osimo il 28 luglio 1971, resta nel ricordo popolare inscindibile dalla moglie Nannina la Quadrata e dal compagno di merende in osteria Gujè Occhibelli. Bene, Nemesio è nato a Lourenço Marques, come non mancava mai di ricordare (“Mia madre era ballerina e io sono nato a Lourenço Marques”, diceva, con una punta di orgoglio).
Suo padre si chiamava Nemesio anche lui e la madre, la ballerina, era un’inglese, Annie Bromwell.
Il Trentino (come aveva guadagnato questo nomignolo?) aveva visto la luce il 4 maggio 1902.
È una data che dice qualcosa.

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In giro per l’Italia

Lungo la strada nazionale Messina/Palermo, tra le cittadine di Pozzo di Gotto e Patti, c’è Falcone, 2891 abitanti, fiorente centro agricolo.  
Ma non è sempre stato così, ché nel passato, anche non molto lontano, in paese si svolgeva un’intensa attività peschereccia; fino a trenta anni fa i numerosi turisti potevano godere dello spettacolo della tirata della sciabica. Poi, come anche da noi, la pesca è declinata.
Ho richiamato la tradizione della località siciliana per iniziare un veloce giro per l’Italia, compiuto su zone prese a campione, a conferma di come la sciabica fosse un tipo di pesca praticato dappertutto.

Restiamo in Sicilia, a Calatafimi, per la festa dei Ceti. A metà del XVI secolo, nella chiesuola di santa Caterina, vergine martirizzata in Alessandria d’Egitto, un vecchio Crocifisso prese a operare guarigioni miracolose. Gli abitanti del luogo finirono per costruire un grandioso santuario per rendere possibili e agevoli i sempre più numerosi pellegrinaggi e chiesero al vescovo di portare in processione il simbolo della Passione. Così sono nate le celebrazioni del SS.mo Crocifisso, che si svolgono nei primi quattro giorni del mese di maggio. Il quarto giorno c’è la festa dei Ceti ( i ceti sociali) in cui è divisa la popolazione: borghesi, commercianti, cavallari, ortolani etc…. Tra questi c’è pure il Ceto della sciabica il cui stendardo è in velluto rosso con rappresentati da una parte il Crocifisso e dall’altra la Madonna di Gubino. I membri del Ceto, durante la processione, accompagnano il patrono (lo stesso Crocifisso) camminando a piedi scalzi.

A Brindisi, lo sappiamo già, esiste addirittura un quartiere che un tempo era chiamato  Le sciabbiche, con vie come Via Sciabiche, Via Forno Sciabiche, Vico I, II, III Sciabiche. Era abitato, manco a dirlo, soprattutto da sciabbicoti. Ce lo ricorda una ricerca della classe III A della scuola elementare La Rosa di Brindisi, circolo didattico Perasso. Da questo pregevole lavoro rubo alcune malinconiche righe: Il ricordo delle sciabiche è affidato oggi esclusivamente ad uno spiazzo di poche decine di metri quadrati, che fino a qualche anno fa si denominava Largo Sfrigoli. Costituito da stradette e vicoli, lungo i quali si aprivano casupole modeste, ma linde, sui piani di varia altezza degradanti da piazza S. Paolo e largo S. Teresa al mare, ‘Le Sciabbiche’ è certamente il quartiere più antico della città ed è il più caratteristico, il tipico quartiere della gente abituata alla vita del mare, per natura e atavica vocazione.

A Gaeta la sciabica, intesa come rete, prende il nome di rezze (cfr. il napoletano rezza). Di essa si occuparono anche i capitoli dal 125° al 157° del libro De piscibus vendendis degli Statuti dell’Università di Gaeta (1533).
Ci informa il sito Internet curato da B. Guizzi che la rete era composta da un sacco detto la màneche della lunghezza di circa 10 metri e da due vanne di 250/300 metri ciascuna. Segue una dettagliata descrizione delle variazioni della larghezza delle maglie della rete.
Il numero dei pescatori poteva variare da 10 a 20 e la ciurma non era fissa: il padrone della barca procedeva alle assunzioni giorno per giorno e se nessuno si presentava non si pescava.
Da notare una differenza non da poco rispetto al nostro modo di praticare la pesca con la sciabica: la posa in mare della rete avveniva con l’ausilio di due imbarcazioni, i gozzi: uno, il grande, di circa 6 metri e mezzo e l’altro di 5 metri, che si incrociavano alla distanza scelta.
Che la vita fosse grama e il mestiere non arricchisse chi lo faceva viene esplicitato da alcuni modi di dire riportati da Guizzi: Se glie vuò fa’ murì de fame, fa’ gliu figlie rezzaiuoglie (se vuoi farlo morire di fame, fai il figlio rezzaiuolo). Tra i destini peggiori era considerato quello contenuto nell’imprecazione Puozze ‘i alle rezze (che tu possa andare a tirare la rete).
Circa la spartizione del guadagno, una volta tolto quanto di spettanza del padrone, tutti coloro che avevano partecipato al lavoro prendevano parti uguali.

Un gran salto fino a Noli, in provincia di Savona (citata da Montesquieu nel suo Viaggio in Italia del 1728/’29: Vicinissimo (a Spotorno), sempre verso ovest, c’è la piccola città di Noli, una rada abbastanza sicura). Da qui parte, sempre su Internet (benedetto!) un allarmato intervento de L’Arca – Quaderni dei Presìdi sui cicciarelli di Noli, che ci riporta ancora alla sciabica. Leggiamo: Si guarda il mare con l’oblò (lo spegiu) finché si scorge una macchia nera. Sono i cicciarelli: pesciolini affusolati, color argento e senza squame. Lunghi pressappoco quanto le dita di una mano, vivono in banchi numerosi e si nascondono sotto la sabbia con movimenti rapidissimi. Risalgono soltanto quando l’acqua è limpida e il sole è alto. Cicciarelli è il nome, in italiano: a Noli, da sempre, li conoscono come lussi o lussotti e, da sempre, li pescano con la rete a sciabica. La sciabica è antichissima: pare l’abbiano portata gli Arabi, in Liguria esiste sicuramente dal 1200 e, fin da quell’epoca, è utilizzata per lo più nel Ponente. I dieci pescatori di cicciarello rimasti sono  gli eredi di una grande tradizione; fino agli anni ’60, infatti, Noli era un centro importante per la pesca e il commercio e la lavorazione del pesce. Si pescavano i cicciarelli, ma anche gli zerri, i connetti, le orate, le aragoste e soprattutto le acciughe, che un tempo rappresentavano l’entrata principale. Ogni giorno, all’arrivo delle barche, in spiaggia c’era l’asta del pesce; subito dopo le pescelle, le donne di Noli, partivano a piedi (o in treno) con le ceste di castagno in testa e portavano il pesce sui mercati liguri e piemontesi. Ancora oggi tutti i pescatori hanno un carrettino di legno e la mattina vendono il pesce fresco sulla spiaggia. Ma i clienti sono pochi: soprattutto anziani, spesso vecchi pescatori. Basta spostarsi di qualche chilometro e nessuno ha mai sentito nominare i cicciarelli. E’ un peccato, perché in carpione sono favolosi e nella fritturina di pesce acquistano un sapore indimenticabile.
Un peccato davvero.

Dalla Sardegna, e precisamente da La Maddalena, mi è giunto un contributo che devo all’amico e collega Bruno Rabuini, esiliato (volontario) in quel lontano quanto splendido lembo d’Italia.
Bruno ha inviato alcune notizie sulla sciabica apparse in un pubblicazione Maddalenina di cui non viene precisato altro.
Vi si legge una descrizione delle parti della rete da sciabica, secondo la tradizione marinara di quei luoghi: “Le parti che la compongono, diverse fra loro per la maggiore quantità di maglie man mano che si procede verso il centro sono: ‘a stazza’, i ‘riali’, ‘a gola’, che formano i bracci laterali e ‘i mappi’ e ‘i curoni’ che formano il sacco (‘a manica’), lungo 6-7 metri. Due lunghe funi (200-300 metri), ‘i restoni’, consentono di allontanarla da terra a piacere e di collocarla in modo di chiudere una cala. La si adopera per ‘sciarmi’ di pesci quali connari, zerri o sardine, regolandone la profondità attraverso il numero dei sugheri disposti a corona che tengono aperto il sacco. Si cala nel pomeriggio con un capo a terra e una lunga curva, in modo da lasciare un vasto spazio al pesce che prima di sera tende a ‘ingolfare’, andare cioè nelle cale, vicino alla costa. Quando il mare è calmo, l’avvicinarsi del banco è denunciato dalle increspature sulla superficie dell’acqua, in caso contrario un pescatore si porta in una posizione dominante spiando l’arrivo del pesce. Appena questo è entrato nel raggio d’azione della sciabica si tira anche la corda che la teneva aperta in modo che il pesce, fuggendo, si sposti verso la spiaggia dove viene catturato nel sacco. I più vecchi ‘sciabiguttari’ che si ricordano sono: D’Oriano Gennaro ‘Jennarò’, proveniente da Pozzuoli, Caucci Nicolino ‘Pappellu meu’, Caucci Biagio e Oriani Francesco ‘Ciccillu’: quest’ultimo si dedicava in gioventù alle reti classiche fino a che una forte tramontana a Cala Canniccia di Caprera non capovolse la barca uccidendo tre suoi colleghi; da quel momento preferì abbandonare quel mestiere che poteva diventare così pericoloso e dedicarsi alla sciabica che, dovendo essere manovrata dalla costa o in prossimità di questa, risultava più sicura.  

Ecco, potremmo continuare a lungo nell’esposizione di altri modi di pescare a sciabica in altre parti d’Italia, ma non è un’enciclopedia della sciabica che dobbiamo realizzare.
Così, siamo lieti di lasciare al lettore, se lo vorrà, di continuare lui la ricerca. Il campo è vasto, largamente inesplorato perché ingiustamente tacciato di scarsa importanza. Come se il lavoro di generazioni e generazioni di persone, con le mani strette su una corda di rete fin da tempi remotissimi,  non conti nulla, non sia degno di rientrare in un’ottica di ricerca culturale.
In un tempo in cui a molti sembra solo decoroso occuparsi dei massimi sistemi, farebbe bene sforzarsi di ricordare, ogni tanto e non solo per pro forma, che tutto ciò che ci circonda, sciabica compresa, è degno di curiosità intellettuale. 
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Numeri

Per alcune epoche dispongo di dati certi sulla quantità di barche impiegate nella sciabica a Porto Recanati, sugli sciabbegotti in attività, persino sulla quantità di pesce pescato.
Per altre, invece, non sono così fortunato; e la fortuna diminuisce mano a mano che si procede indietro nel tempo.
Come che sia, il C.S.P. ha potuto raccogliere una discreta documentazione al riguardo ed ora la mette volentieri a disposizione.

I primi documenti sulla sciabica sono in alcuni atti amministrativi del Comune di Recanati dei primi decenni del XIX secolo. Purtroppo, a suo tempo, non presi nota dell’esatto sito dei succitati atti nell’archivio comunale recanatese, ma ricordo bene che in una relazione firmata dal Gonfaloniere Monaldo Leopardi, si legge che da noi c’erano una ventina di paranze e qualche sciabica. Si dovrebbe essere intorno al 1825. Nel 1829/’30, invece, le sciabiche portorecanatesi che risultano dal prospetto del Numero dei legni nazionali che hanno esercitato la pesca erano otto.

Di chi fossero le paranze è noto: diverse appartenevano certo a Crispino Valentini, ras del Porto; le altre erano degli Jorini (Francesco Antonio e poi il figlio Primo), di Antonio Giorgetti e di pochi altri che erano riusciti a mettere la testa fuori dai confini della generale miseria dei marinai dell’epoca.

Ma le sciabiche? Nessun documento, almeno tra quelli conosciuti, ci attesta i nomi dei proprietari, ma non credo sia sbagliato immaginare che i portolotti citati sopra ne possedessero qualcuna e che, certo a prezzo di grandi sacrifici, anche gente di nome Feliciotti, Giri, Matassini, Velluti e via percorrendo i cognomi più frequenti nella comunità, disponessero di un legno per rimediare il sostentamento delle rispettive famiglie.

Una cifra sicura non la leggiamo nemmeno nella relazione del segretario comunale Luigi Petrocchi sul censimento generale della popolazione del 1901. Nel capitolo riservato alla classificazione per condizione e professione il funzionario ha annotato la voce pescatori con accanto il numero 375. Non ha fatto la distinzione tra i pescatori d’altura, o della grande pesca, e quelli di costa o col piede a terra come si definiscono sciabicotti, nassaroli e simili.

E allora ci viene in soccorso don Francesco Jorini, parroco del Porto dal 1892 al 1907, un personaggio di grande spessore, che, tra le sue molte iniziative, faceva pure da corrispondente del mensile La pesca , pubblicato a San Benedetto del Tronto, organo della Federazione Marchigiana delle Società per la Pesca, giornale di chiara impronta cattolica: per le inserzioni occorreva rivolgersi all’amministrazione della Libreria San Giuseppe, di S. Benedetto, e appena sotto il titolo si leggeva , come richiamo inequivocabile all’orientamento religioso del foglio, In verbo tuo laxabo rete. Ave Maris Stella.

Nel primo numero del giornale (1902), il corrispondente da Porto Recanati (firma in sigla: I = Iorini) scrive: Il numero dei pescatori di Porto Recanati è di 375 e dei pescivendoli di 114: fra i legni da pesca si annoverano N. 10 barchetti, N. 40 lance, N. 7 sciabiche ed il pesce sbarcato nel mese di Novembre senza tener conto delle sciabiche perché il pesce di queste si vende a ‘occhio’, è stato dai barchetti in media Cg. 3.550, dalla lance Cg. 32.562 e dalle paranze di S. Benedetto Cg. 4692.

Dunque, il pesce delle sciabiche si vendeva a occhio. Intanto è evidente che anche a quei tempi molta parte del prodotto non passava per i controlli del mercato. E poi, la vendita a occhio, era forse un sistema per ricavare il massimo possibile dal pescato. Non indaghiamo.

Il segretario comunale Petrocchi si riscatta in occasione del censimento successivo, il quinto, svoltosi nel 1911. Dopo aver annunciato che tra di noi ci sono 296 tra marinai e pescatori, meno che dieci anni prima quindi, scrive che la nostra marineria dispone di 8 sciabiche con 80 pescatori. C’è stato un calo anche in questo settore rispetto al 1901, quando le sciabiche erano 10 e gli sciabicotti 100 ( La precisazione viene fatta nella relazione del 1911 e se don Francesco non si era sbagliato, nel giro di un anno, dal 1901 al 1902, il numero delle sciabiche era dunque diminuito di tre unità per poi recuperarne una nel 1911.

Petrocchi è certo che l’industria della pesca è cominciata al Porto tra il 1000 e il 1200, epoche in cui sembrava sorgesse presso la nostra spiaggia un discreto numero di case e capanne, quasi tutte abitate da gente di mare e da pochi commercianti. Da chi ha preso queste notizie, il segretario non lo rivela, come resta nel vago la sua affermazione circa la presenza di una struttura portuale presso la foce del Potenza (sull’argomento è comunque tornato di recente lo storico Vincenzo Galiè e la discussione è aperta tra gli specialisti). Quasi certamente agli inizi dovette essere prevalente la pesca a sciabica, la più immediata, di più facile realizzazione, ma anche la più precaria.

Torniamo a tempi più vicini. Dopo il censimento del 1911 sembra che il numero delle sciabiche sia di nuovo salito, e non di poco. Lo deduco dal contenuto di una delibera di giunta del 10 maggio 1917.

Com’è noto, l’Italia combatte da due anni contro gli Imperi Centrali e il Paese vive le ristrettezze tipiche di un’economia di guerra. Quel giorno, la giunta comunale presieduta dal sindaco Giovanni Lucangeli emana un provvedimento di requisizione di seppie e polpi per i bisogni locali in base al quale ogni sciabica dovrà cedere quattro chilogrammi di quel tipo di pesce. E si legge nella circostanza che le sciabiche sono diciotto.

Su questa storia delle requisizioni per cause belliche torneremo ancora; per ora constatiamo che la flottiglia sciabicotta è cresciuta dal 1911 di più della metà.

Nessuno si è mai preoccupato gran che di monitorare l’andamento del settore, di controllare quante sciabiche o quanti sciabicotti fossero in attività nel prosieguo del tempo. Le cifre che andiamo scrivendo su questi fogli, come si capisce subito, sono colte, a parte quelle dei censimenti del 1901 e del 1911, qua e là in documenti di varia natura e appaiono un po’ smagliate, nel senso che l’episodicità dei documenti non permette di avere ragguagli statistici precisi.

Tuttavia, questo è quel che abbiamo e con il quale dobbiamo arrangiarci.

Per gli anni più recenti si può far riferimento a un progetto di ricerca del CNR di Ancona, probabilmente dell’inizio degli anni Ottanta, nel quale si afferma che nella marineria di Portorecanati (sic!), esistono in attività almeno 20 sciabiche, particolarmente interessate alla pesca del Bianchetto di Acciuga, nel periodo autunnale. Stante il livello artigianale dell’attività, è attualmente impossibile quantificarla, anche perché gran parte del pescato sfugge a qualsiasi rilevazione statistica (il vizio non si è perso per strada dai tempi di don Francesco Jorini e chissà da quanto prima).

Ritengo che quando il CNR scriveva di 20 sciabiche considerasse nel numero soprattutto le imbarcazioni di quattro/cinque metri, a motore, che ormai già da tempo avevano preso il posto della sciabica classica, a remi, sulla quale ci soffermeremo ampiamente più avanti.

Segnalo infine che in un documento a cura dell’Associazione Produttori, della Cooperativa Piccola Pesca e dell’Associazione Mogli Pescatori, datato 31 ottobre 1987, le sciabiche date per esistenti e operanti sono 10.

Oggi, in pratica, non è più possibile parlare di sciabiche: la pesca con l’omonima rete è consentita entro limiti assai ristretti e l’attività relativa si è quasi spenta perché ovviamente gli operatori si sono dati a tipi di pesca più remunerativi. Al momento in cui firmo questo numero della Rivista ho notizia di una sola sciabica in attività.

Riporto con piacere una pagina inviatami da Alessandro Mordini, adesso residente in Ancona, che mi fornisce un elenco delle sciabiche in attività al Porto  negli anni tra il 1946 e il ’48. Eccolo, procedendo da sud a nord:

-   Saè del Cucinièru, Saverio Panetti; aveva una sciabica piccola in confronto alle altre e lo scalo era nei pressi del Cantiere Navale;
Magnaró detto anche Zampettu, Giuseppe Giri; scalo vicino allo chalet di Beniamino Gigli e alla casa Lanari;
Nazzarè de Tumà (zi’ Nenè), Nazzareno Giri; scalo all’altezza di via Micca, più o meno; 
--  
Gerì de Sudu (Geremia Piangerelli); scalo al centro del Porto, tra gli sbocchi sul lungomare delle vie Manin e Masaniello; 
-   
Pumì (Mordini non ricorda il nome, ma vedi poco più sotto); scalo di fronte all’allora trattoria di Vincenzo Bianchi; 
Lisà de Buffarì, Alessandro Bufarini; scalo accanto al Faro; 
-  
Cì Pacchió, Pasquale Scalabroni; scalo all’altezza di via Bixio; 
Francé de Grespì, Giri Francesco; scalo davanti al mercato ittico.

Concludiamo questo capitolo, ripetendo qualcuno dei dati appena citati (i periodi di riferimento non coincidono del tutto), con un altro intervento (non sarà l’ultimo) del nostro amico V., il quale si distingue anche, anticipando lo scrittore siciliano Camilleri, il creatore del personaggio del commissario Montalbano, per l’altalena della sua prosa tra l’italiano e il dialetto: Una volta ggió la marina c’era la sciabbega de ‘Incè de ‘Ndrè de Carlo (Giri Vincenzo), la Mirabella de Magnaró (Giri Giuseppe), quella de Gerì de Sudo (Piangerelli Geremia), le uniche a portare sul pizzetto de prua una piccola croce in legno, alta sui quaranta centimetri con sopra una coroncina di palme benedette, prese in chiesa la domenica delle Palme. E poi ‘rtiravano la Bianchina de Francé de Grespì del Moro (Giri Michele), la Vincenzina de ccì Pacchió (Scalabroni Pasquale), de Cellerì (Stefanelli), de Pumì (Monachesi Giuseppe), tutti sciabbegotti di antica tradizione familiare.

Ai giorni nostri (metà degli anni Ottanta) lavorano un po’ saltuariamente, non solo per mancanza di braccia, sempre più difficili da reperire, ma anche per le varie leggine che ne limitano l’attività, a protezione della fauna ittica, le sciabiche de zì Gerì, del Cuciniero (Panetti Mario), de Pippetto (Valentini), de Nito de Cittadì (Annito Cittadini), de Natello de Castellà (Castellani Fortunato). Da ricordare anche le sciabiche di Giggiu Sciai, di ‘Tilio de Badiale o Zaccarani (Attilio Sabbatini), di Sciampagnó  e ‘Ngiulì Bruni.

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Scote e cala

Scuoti e cala, vale a dire, fai le cose con ordine e anche con celerità perché qui, sulla sciabica, non c’è tempo da perdere.

Il destino dello sciabicotto è racchiuso nell’amara sintesi dei due verbi: per lui il lavoro ha poche soste, e più soste ci sono meno soldi gli vengono in tasca. Una vita passata tra gli avvistamenti da terra, i vari alle prime ore del giorno (meglio dire le ultime della notte), il lancio in mare della rete e la sua lenta ‘rtirata camminando all’indietro sotto il sole che lo cuoce.

Simbolo del suo stato, il cullaru, la tracolla di tela con due anelli di corda (sacche) alle estremità; qui è infilata una cordicella, la risa, che termina con un nodo detto croccu. Con questa tracolla si riusciva a fare più forza nel momento del massimo impegno.

Avviciniamoci dunque con rispetto agli attrezzi e agli strumenti di questo mondo, tra i quali, primo, è certo la barca.

Per  farlo utilizzerò un lavoro che il CSP ha redatto nel luglio 1999, parzialmente utilizzato da altri, e insieme farò ancora ricorso alle ricerche dell’amico V.

 La barca

A differenza di quanto accade altrove, dove in genere il termine sciabica indica la rete, qui da noi esso indica soprattutto la barca. La sciabica, quella classica, era un natante strutturato per la pesca sottocosta. Agile di forma per consentire velocità e manovrabilità, aveva la prua sottile e profilata per meglio tagliare l’onda. La barca era sui sette metri, il fondo nero incatramato col black (pegola) e la parte restante attorno grigia.

Di poppa la struttura era più tozza, con ampio pianale (gràttena o gràtta) sul quale era sistemata la grande rete da pesca. Lì si piazzava, dietro a tutti, in piedi, il paró per avvistare le rusciùre, cioè i branchi di pesce in transito. In genere il paró era anche il proprietario. Soltanto Vincenzo Giri (‘Incè de ‘Ndrè de Carlo, che vuol dire Vincenzo figlio di Andrea a sua volta figlio di Carlo) si limitava ad essere il padrone che non navigava lasciando il compito di paró a Lisà Bufarini detto Pelài.

A prua si trovavano l’ancora e il cordame per l’ancoraggio nonché un vano dove si collocavano cibarie e cose varie ad uso dell’equipaggio. Sotto la gràttena c’era un altro spazio per attrezzature secondarie.

Il natante disponeva di quattro remi ognuno dei quali aveva un nome.

C’era il remu de prua, che era il primo verso prua, meglio noto come prueru: era un remo piccolo e si trovava alla sinistra del paró; sulla banda opposta si trovava il remo grosso di dritta, al centro della barca, chiamato bocca de gola; il gaezzu stava a sinistra ed era il remo più grosso, tanto che a volte occorrevano due o tre persone per manovrarlo, stando attenti a non farlo girare; infine, il remu da preme, più piccolo rispetto agli altri, che fungeva da guida, alla destra del paró. L’ultimo remo spesso era usato dal capobarca o dallo sciabicotto più anziano perché aveva la funzione di timone.

I vogatori remavano stando seduti sui bangarelli, tavole assai resistenti poste di traverso, con la funzione di meglio legare tra loro le strutture laterali della barca. Per la spinta i rematori si servivano del puntapia (puntapiedi), un asse posto in basso del bangarellu, circa mezzo metro in avanti.

Sempre a poppa c’era la barbetta, una cima di pochi metri che serviva per trattenere la sciabica in prossimità della costa senza ricorrere all’ancora.

A volte ci si serviva dell’alzana, corda per il traino della sciabica quando si tornava a casa venendo contro corrente.

La cuertina de prua era il sito che serviva per il ferricciolo e per depositare la resta (vedi di seguito) e dove si sedevano i bambinetti di 9/10 anni alle loro prime avventure in mare.

Qualche particolare sul remo della sciabica. La cordicella posta attorno al centro dell’attrezzo, chiamato girò, costituiva la ‘mbarunatura, che aveva la funzione di impedirne il lento consumo; stròppolo era chiamata anche la cordicella che si avvolgeva attorno al remo per vogare e che serviva a tenerlo appoggiato allo schelmo, fatto di un cavicchio di ferro o di legno.

Lo strumento che sempre accompagnava la fatica dello sciabicotto, e che ha finito per assumere il valore di simbolo del mestiere, era el cullaru, una fascia a tracolla con un’appendice di 40/50 centimetri, di corda, che si avviluppava attorno alla resta e alla rete. Su di esso si faceva forza con tutto il peso del corpo.


Gli uomini

Lo sciabbegottu è una figura che conserva ancora freschezza e colore nell’immaginario popolare; basta ripercorrere i versi riportati nel capitolo ‘letterario’ di questo lavoro per percepire l’emozione che si prova di fronte allo spettacolo, sempre solenne, di cui sono protagonisti l’uomo e il mare.

Come si è già scritto più volte, l’equipaggio, di solito 10/12 sciabbegotti, era al comando di un paró. Uno sciabicotto faceva da barcaru ed era quello che restava a bordo durante la cala; era quasi sempre il più vecchio, addetto a raccogliere le reste tirandole da terra, a pulire la barca, a cernire il pesce nella cuffetta (cesta piccola).

C’erano infine i murè, i più giovani, addetti ai servizi (portare la colazione, per esempio).

Allo sciabicotto non si richiedevano doti particolari, solo buone braccia e buone gambe per sopportare la fatica di un lavoro davvero duro.

Per tradizione le ciurme venivano formate ogni anno il 19 marzo, giorno di san Giuseppe, e sciolte il 30 novembre in concomitanza con la festa di Sant’Andrea (discepolo di Giovanni Battista e fratello di San Pietro, pescatore a Cafarnao). Nella chiesetta del Suffragio c’è una pala d’altare attribuita al Maratta e trasferitavi nel 1829 dalla chiesa interna al castello svevo, in quell’anno demolita; rappresenta la Madonna Addolorata confortata da San Francesco di Paola e da Sant’Andrea che, proprio perché pescatore, tiene in mano una mugèlla (cefalo) e per questo è stato battezzato qui da noi come Sant’Andrè de la mugèlla. E’ lui il patrono degli sciabbegotti ed è nella chiesetta del Suffragio che si conclude, con la messa, la stagione della sciabica.

Un tempo alcuni sciabicotti, liberi da impegni fino al marzo successivo, si imbarcavano per l’Argentina dove andavano a lavorare alla cossecha, vale a dire alla raccolta del formentone; in marzo tornavano per riprendere il cullaru. Gli Argentini li chiamavano golondrinas, perché arrivavano e ripartivano come le rondini.

Successe pure che diversi non tornarono più stabilendosi nella Repubblica sudamericana per sempre. Ma questa è una storia che racconteremo un’altra volta.

Negli ultimi tempi dell’epopea della sciabica le ciurme erano composte anche da giovani coinvolti per periodi limitati nell’attività marinara; si trattava soprattutto di studenti che lo facevano per disporre di qualche soldo da non domandare ai genitori. Non mancavano nemmeno operai e artigiani, che così arrotondavano i loro guadagni.


 
La rete

La lunghezza della rete si aggirava in media sui 100 metri, qualcuna arrivava anche a 120 metri, vale a dire 50/60 metri per braccio; a mano a mano che si procedeva verso il sacco le maglie diventavano sempre più fitte. L’imboccatura del sacco era munita superiormente di sugheri (scòrzi) e inferiormente di piombi per far sì che la rete sul fondo del mare si aprisse per ingoiare i pesci. Il sacco si prolungava ai lati con due lunghissime ali che per l’azione opposta dei piombi e dei sugheri, sistemati in opportune lime, si aprivano in verticale e bloccavano la via d’uscita del pesce.

Una rete da sciabica si compone di molte parti, che qui si elencano in ordine di avvicinamento al sacco:

-   el gaezzu, da non confondere con il remo, è la cimetta che si scaglia dalla barca a chi sta a terra; era sempre attaccato alla mazza la quale era chiamata croce quando si tirava in terra la rete e la si scuoteva.

-   la resta, la cui lunghezza varia dai 30 metri in su (ma su questa misura non c’è unanimità): a seconda della distanza da riva che si vuol raggiungere si mettono più reste ed ecco perché gli sciabicotti dicono ‘emu calatu a dó reste, a quattru reste…’;

 -   la mazza, una robusta striscia di legno, lunga 60/70 centimetri, con le estremità a forma di V sulla quale fanno forza le reste e le lime; divarica la linea dei sugheri da quella dei piombi e ad essa sono collegati il gaezzu , il tarozzu (corda di canapa di una ventina di metri) e la resta; essa indica l’inizio vero e proprio della rete, il braccio; le cuciture che uniscono mazze e parè si chiamano fiezze;

-     el bracciu (parè), ha maglie da 70 mm. e qui iniziano i galleggianti (lima da scorzu) e i piombi (lima da piombu);

-     i spessi, maglie da 35 mm., pezzo di rete attaccato ai bracci, pure con galleggianti e piombi;

-     ell’ala, maglie da 10/12 mm., faceva parte degli spessi;

-     bocca de gola (anche qui non confondere con l’omonimo remo) maglie da 8 mm.; siamo all’entrata del sacco, detta anche carió (da scorzu e da piombu) nella parte superiore;

-     la manica oppure saccu, con maglie sempre più fitte (i fitti), fino a che negli ultimi 20 cm, cioè nel fonnu, c’è la camera della morte.

A pesca

Una magliaccia e un giubbetto per coprirsi dal freddo, a volte un’incerata per riparo dalla pioggia, pantaloni mal ridotti (le salparelle) e un paio di zoccoli: si partiva così per la sciabica, alle due o alle tre di notte o in qualsiasi altro momento della giornata fosse necessario.

Il lavoro era legato in modo diretto alle migrazioni del pesce nei periodi più caldi dell’anno (ma nell’immediato secondo dopoguerra si varava anche d’inverno). In genere si pescava scalzi; solo a partire dagli anni Trenta hanno fatto il loro ingresso gli stivali (per i più fortunati), che sembra venissero da Zara.

Quando arrivava novembre veniva cacciata l’anguilla.

Il territorio di pesca era soprattutto costituito dai nove chilometri di costa portorecanatese, dal Musone fino al Potenza (quest’ultimo sito di cala era detto màsculu, con la distinzione ‘de sora’ o ‘de sotta’ a seconda che si fosse sull’uno o l’altro lato della sbocca del fiume).

Spesso accadeva che si restasse fuori tutta la giornata, lavorando in continuazione e interrompendosi soltanto per mangiare el pà, la colazione preparata dalle donne e che i più giovani (i murè) venivano mandati a prendere in paese.

I principali tipi di voga erano tre. La ‘oga lesta serviva quando si andava a pescare lontano e allora ci si dava il cambio a metà percorso; per avanzare più veloci ci si alzava dal bangarèllu puntando i piedi su una stanga situata in basso, detta ‘ppòggia pia o puntapia (dove si appoggiano i piedi).

La ‘oga longa consisteva, restando seduti, in una remata lunga e possente per lunghe distanze; con la ‘oga battuta i rematori si alzavano e si sedevano dai e sui bancarelli, di solito per velocizzare la calata.

Tra gli sciabbegotti c’era una sorta di codice da rispettare, regole a volte assai precise la più importante delle quali era che chi lanciava per primo il capu della corda aveva diritto di precedenza nel calare la rete.

A questo proposito va detto che la parte spettacolare era nella gara a scegliere il posto migliore dove effettuare la cala, come nel modo di controllarsi a vicenda spiando ognuno le mosse dell’altro.

Quando si calava la rete il paró prendeva la cima della resta, ne raccoglieva una quindicina di metri avvolgendola in piccoli cerchi e poi la lanciava urlando al murè di venire a prendere il capo. Il lancio doveva essere tale da far raggiungere terra al capo e nel frattempo il paró diceva ai rematori: ‘scìa’, comandava cioè di tenere fermo il remo per far prendere alla barca la direzione voluta.

C’era competizione anche per toccare terra per primi: se capitava che due imbarcazioni calassero poco distanti l’una dall’altra, da quella che arrivava prima a toccare la spiaggia si alzavano i remi in aria in segno di vittoria.

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Non di corsa, ma a passo veloce

Dopo la cernita sulla spiaggia, il pesce veniva sistemato dentro delle còffe o dei pagnèri (i secondi di dimensioni più piccole) fatti di vengo e di canna; se non ce ne erano a sufficienza si chiedevano ai contadini delle ceste di grosse dimensioni e anche i cariuletti per portare il pesce al mercato (i rapporti con la campagna erano più stretti di quanto si creda). Dentro i manici di questi contenitori veniva infilato un bastone di legno che andava a poggiare sulle spalle dei due sciabbegotti incaricati di portare il pesce in paese; non di corsa, come erroneamente si fa credere, ma a passo svelto e stando bene attenti a non perdere nulla per strada, anche per evitare di subire il rimprovero del paró. Per pesi sopportabili, il lavoro poteva essere svolto da un solo sciabicotto, che trasportava sempre due coffe.

Anche questa era un’arte; indovinare cioè la cadenza giusta per non essere superati dalla concorrenza e, al tempo stesso,  giungere alla meta con la coffa piena come alla partenza.

Arrivare per primi significava vendere il prodotto a prezzi più convenienti. E magari spargere tra la gente la voce che si comprasse subito il pesce già sul posto, ché gli altri non avevano pescato nulla!

A volte si percorrevano distanze molto lunghe, soprattutto per chi doveva farlo a piedi gravato del peso delle coffe: non era raro marciare per diversi chilometri su strade non asfaltate né imbrecciate. Solo verso la fine degli anni Cinquanta sono cominciati ad apparire carrozzini e biciclette, seguiti poi dai più comodi Apetti.

I portatori delle còffe potevano viaggiare da soli o in coppia, come rilevato poco sopra, a seconda della quantità di pesce da trasportare; di norma erano scalzi e proteggevano la spalla dove poggiava il bastone guarnendola con il cullàru o con la camigiòla (o camigiàcciu) oppure con il berettu o anche, infine, con uno straccio rimediato in qualche modo.

C’era da darsi da fare per riuscire a tornare in tempo a caricare nelle còffe il risultato di un’altra calata. Il paró sapeva quanto era giusto aspettare, ciò dipendeva dalla distanza da percorrere. Ma se per caso l’incaricato del trasporto impiegava più tempo del previsto, succedeva spesso che quando giungeva, stanco morto, a trenta/quaranta metri di distanza venisse preso a sassate dallo stesso, impietoso paró e dagli altri colleghi.

 

Le parti

La divisione del guadagno veniva effettuata nel rispetto di modalità antiche, ma assai efficaci, basate su un criterio di sostanziale equità: una quartarola, vale a dire il 25% di una parte, andava al ragazzino di 9, 10, 11 anni; mezza parte era per i ragazzi più grandi, ammesso che facessero bene il loro lavoro; tre quartarole sempre ai ragazzi più grandi se erano ancora più bravi di quelli di prima; una parte allo sciabicotto.

C’erano poi quelli che, oltre alla parte, prendevano una quartarola in più, ed erano lo sciabicotto che sapeva calare la rete e quello che sapeva vogare con tutti e quattro i remi.

Quando si rientrava a casa, nella mattinata, si metteva a spandere la rete sulla spiaggia. I più giovani erano incaricati di raccoglierla, una volta asciutta, in genere prima di mezzogiorno. Chi non era puntuale buttaa ggió, cioè pagava una penale.

Per un certo periodo, negli anni Cinquanta, gli sciabicotti avevano diritto, quando non si pescava (in inverno) a una sorta di moderna cassa integrazione consistente in poche lire.

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Come parla uno sciabbegottu

Sostiene l’amico V., da cui pesco il piccolo glossario che segue, che i portorecanatesi abbiano un’origine levantina e che ciò si rispecchi inevitabilmente in un linguaggio fatto di immagini grottesche create da una vivida fantasia.

Ancor di più queste caratteristiche sarebbero evidenti nei modi di dire degli sciabicotti, che nel tempo hanno saputo inventare detti e combinazioni di immagini assai saldamente agganciati a quanto si voleva rappresentare.

Eccone un campionario, senza alcuna pretesa di ritenerlo esaustivo.

Fa’ la croce: raccogliere la rete.

Magnà el cappó: ammucchiare la rete appena tratta dall’acqua, secondo alcuni, ma per altri sarebbe frase incitante ad essere svelti e bravi perché così ci si potrà aspettare un buon guadagno.

‘Gnà murì pe’ campà: per vivere bisogna morire, detto per mettere in risalto la durezza del lavoro.

E’ bianghi cume i buffi de neve: sono i lattarì (novellame), detti anche la magnana.

Daje, ché quessi nun è finanzieri: si diceva quando la rete emergeva carica di lattarì, che sono assai più buoni dei sarduncì, immagine dei finanzieri, ‘cattivi’ con gli sciabicotti a causa delle multe che essi contestano loro abbastanza spesso.

Scòte e càla: scuoti e cala la rete, prima che puoi; invito alla rapidità nel lavoro.

Fàtte da’ la chiae de la mazza: è una burla per far correre un murè da un  braccio all’altro.

E tantu sai nonnu Fiore el brigante!: non sei davvero come Fiore il brigante, che doveva essere uno sciabicotto assai sveglio nel lavoro; la frase veniva infatti rivolta a qualcuno un po’ ‘incantato’.

Nun tirate a scossi: invito a tirare la rete con continuità evitando scossoni.

Fate ala: allargate la rete dalla parte degli spessi (dopo averla scossa una volta  che è stata tirata in terra la parte contenente gli scorzi e i piombi), il che permetteva di spujà la manica, cioè constatare la qualità e quantità del pescato;

Rete grossa ‘mbraga maru, ‘mbraga pesciu: bisogna fare una calata ad ampio raggio per avere maggiori possibilità di prendere una più grande quantità di pesce.

El pesciu smaja: quando il pesce rischia di scappare dalle maglie della rete;

Dréntu cul passu: stringere i bracci della rete per farla venire diritta a terra..

Maneggià: mettere da parte il cullaru e tirare con le mani.

Nun la fa’ scagarellà ‘sa croce: non far cadere la rete quando la porti a bordo.

Dàje ch’edè la cala de la ‘endegna: coraggio, ché questa è l’ultima cala e può darsi che sia quella buona.

Spòja el pizzàle (spizzàla): togliere il pesce dal pizzo, cioè dall’angolo della manica, quello in fondo.

Calàmu a la sversa: caliamo la rete alla rovescia rispetto alla posizione di partenza. Invece di buttare fuori il sacco, come era normale fare, lo si buttava dentro, cioè verso terra. Bisognava fare particolare attenzione in questa operazione per evitare che, finita la calata, la manica (il sacco) si aggrovigliasse.

Sunà la resta: raccogliere le corde.

Scioje el duppì: districare la corda sciogliendo per prima la cima doppia.

Va’ ‘n teretta, el pesciu è mestuuuuu: vai verso terra ché il sacco è stato gettato in mare. Lo grida il paró ordinando di virare gradualmente, ma con velocità verso terra per mettere in mezzo il pesce. Raccomanda anche: Rema a bocca de gola. Altra espressione similare: calamu a tera ‘ia (caliamo vicino terra)

L’agura fa becchettu: quando si vede il becco, cioè il muso dell’aguglia, che è stanca perché cacciata da pesci più grossi. Si dice anche che l’agura se ‘nciambella.

E tantu le rusciure ce ‘ffoga: per dire che l’agora non c’è affatto.

La lattarina va a la messa: si dice quando nella rete è finita troppa lattarina, che poi non si riesce a vendere. Il richiamo alla messa, forse, significa che questa volta si tornerà a mani vuote. Come quando si torna dalla messa (ma non sono sicuro che sia così).

Fàjela sentì de dietru la rete: mettere più forza rispetto a quello che sta davanti.

Scòte, scòte: esclamazione degli sciabicotti quando fanno cerchio intorno al sacco per vedere il risultato della pescata.

Nun è notte a Cinguli: vecchio proverbio marinaro per dire che c’è tempo per fare ancora qualche calata. Il richiamo a Cingoli è forse dovuto al fatto che dalla nostra costa si vede assai bene il monte di Cingoli, il San Vicino.

La manica ride: quando mancano pochi metri per tirare a riva un sacco che appare già pieno perché il pesce guizza da tutte le parti e l’acqua sembra bollire.

Il movimento dell’acqua del mare era oggetto di studio e si diceva l’acqua cure su, l’acqua cure ggió quando si notava uno spostamento più veloce del solito. In tale circostanza si diceva pure L’acqua cure cum’un fiumu.

Al contrario, se non c’era movimento di corrente: l’acqua è stanga/ mette fora/ ‘iene in tera.

La presenza della luna non era certo dimenticata, anche perché la posizione del satellite della terra determinava il corso dell’acqua e quindi il modo di calare la rete. Si prenda ad esempio il detto gobba a leante luna calante, gobba a punente luna crescente. Oppure: luna colca, marinai in pia (se il quarto di luna è disposto orizzontalmente il marinaio deve stare all’erta); luna in pia, marinaio colco ( se il quarto di luna è disposto in verticale, il marinaio può dormire).

Anche il sole aveva la sua parte. Si diceva ‘emu calatu ch’el sole era altu ‘na ccànna ( o due o tre)  intendendosi il termine ‘canna’ come unità di misura rapportata alla dimensione media di una canna.  Vai al SOMMARIO

 

 


Un segno della nostra civiltà marinara
 

Riproponiamo un vecchio articolo di Marino Scalabroni, apparso nella prima pubblicazione del Centro Studi Portorecanatesi (“La Rigòla”) risalente al giugno 1983 e centrato proprio sulla sciabica.

La recente polemica sorta tra una delle più antiche categorie di lavoratori del mare e le autorità regionali, ci spinge a spezzare una lancia –anche se solamente sul piano sentimentale- a favore degli sciabbegotti, delle loro tradizioni e della loro storia.

Per questo non entriamo nel merito delle ragioni assunte dal legislatore: non è la sede giusta e ci mancano dati seri, reali e concreti per fare veramente collimare gli interessi di questi nobili lavoratori del mare con quelli enunciati dagli esperti di pesca d’altura e da sensibili sentinelle ecologiste.

Ci spinge a parlare di SCIABBEGHE e di SCIABBEGOTTI il bisogno di restituire a questo modo di vivere la vita del mare tutto il valore che merita dinnanzi alla storia della fatica umana e dinnanzi al valore dell’uomo che si realizza nel suo lavoro. Affrontare l’argomento sotto l’aspetto socio-economico, politico e tecnologico ci porterebbe lontano, ben oltre i limiti imposti dalla natura della nostra pubblicazione, ma sostenere il valore di questa attività, la cui origine si perde nella notte dei tempi e che senz’altro rappresenta la forma più antica del rapporto uomo-mare, è giusto e doveroso. E ciò anche presupponendo la supremazia del marinaro, che affrontava il mare aperto affidando la propria vita alla fragilità della lancetta, al capriccio degli elementi e alla sua capacità di intuirli e di presentirli, supremazia che quasi sanzionava la subordinazione sociale persino nelle rituali e lapidarie sentenze dei proverbi strettamente e tipicamente purtannari: “ ‘Ete dattu la carta de la musega ‘nte le ma’ d’un sciabbegottu” – “U’ sciabbegottu n’è bonu mancu a fa’ el testemoniu”.

Il tempo, tuttavia, con la sua inflessibile logica ha reso giustizia: parlare dei barchetti o delle lancette ormai è rivivere momenti di vita profondamente radicati nella nostra memoria collettiva. Oggi le moderne tecniche meccaniche ed elettroniche, la biologia marina, la stessa meteorologia hanno rivoluzionato i modi e i mezzi per vivere e lavorare sul mare. La potenza dei motori, le tecniche di pesca di concezione avanzata, la strumentazione elettronica di ricerca e di prevenzione fanno del motopeschereccio il natante principe per lo sfruttamento del mare aperto, relegando a mero valore di mito l’antica epopea della vela.

Ma la SCIABBEGA resiste ancora. Continua ad essere presente nell’economia e nell’attività quotidiana. La SCIABBEGA, un natante privo di alberatura, di agile forma e specifico per il tipo di pesca cui è usato. Nei tempi andati tali imbarcazioni erano più numerose e gli equipaggi costituivano un settore ben preciso nell’economia e nel costume locali. Quella degli sciabbegotti è sempre stata una categoria particolare, spesso snobbata dai veri uomini di mare che ne usavano l’epiteto in senso denigratorio. Gli equipaggi si raggruppavano in clan, perché tale pesca si tramandava di generazione nella stessa famiglia, ed erano completati con personale anziano sbarcato dalle lancette e talvolta con sottoccupati che limitavano il loro lavoro alle attività della ciurma di terra.

L’avvento del motore ha sollevato anche questo settore della fatica umana, senza tuttavia aprire nuove prospettive. Infatti l’industrializzazione della pesca ha portato una maggiore autonomia dell’uomo nei confronti della capricciosa solidarietà della natura: oggi il pescatore chiede un mare relativamente calmo per poter procedere nel suo lavoro. Ma questo sussidio, d’altro canto prezioso, ha favorito la rapida riduzione della fauna ittica ed il depauperamento dei bassi fondali sotto costa. Oggi come ieri l’attività dello sciabbegotto resta essenzialmente stagionale, legata al passaggio migratorio di branchi di pesci. La sciabbega tuttavia merita un ricordo proprio perché nella vita e nel costume locali ha rappresentato un valore culturale veramente valido. E’ giusto ricordarla. E ricordarla come era quando riempiva di sé i pomeriggi di pesca avanti agli occhi ammirati e curiosi di tanti turisti.

Originariamente la sciabbega era mossa a forza di remi –ognuno dei quali aveva un nome ben preciso- ed era pilotata dal primo remo poppiero di destra, il ‘remu da preme’ che fungeva da timone.

Preliminare alla pesca è l’avvistamento: basta che l’occhio esperto veda lo sbalzo a fior d’acqua di un cefalo, la mugella, o il leggero incresparsi di un’area di mare per il passaggio di un branco di pesci turchini, per vedere scattare le sciabbeghe che prendono il largo dopo aver lasciato alla ciurma di terra la resta per la traina. Con rapide remate, ritmate dagli incitamenti del capopesca, l’agile scafo punta verso il largo, mentre da poppa con sapienti e agili gesti, viene calata in mare la prima ampia e lunghissima ala della rete, che sotto il pelo dell’acqua si distende verticalmente e crea una vera parete capace di trattenere e deviare la corsa del pesce. Poi la sciabbega compie una grande curva al centro della quale si trova il punto d’immersione del sacco della rete.

Il lancio deve essere eseguito con mossa esperta onde farlo affondare in modo da distendersi e d’aprirsi. Quindi, sempre a velocità sostenuta, si conclude la circoscrizione di una cospicua parte di mare distendendo la seconda ala. Quando finalmente il natante tocca terra e gli uomini abbandonano le manovre per formare la seconda ciurma di traino, tutto il fervore, tutti gli incitamenti svaniscono.

Mentre la sciabbega governata da un mozzo (per altri, invece, è il ‘barcaru’ a farlo, un marinaio anziano) resta sul bagnasciuga, le due ciurme, con passi misurati, lenti, iniziano a salpare la grande e pesante rete. Sul mare la corona di galleggiamento sembra tanto lontana e per questo più imponente. I sugheri sembrano ancorati a un mare denso, resistente. E gli uomini arrancando a ritroso, piegati dal ‘cullaru’, raccorciano la distanza tra le due squadre e, progressivamente, dalla rete. Il tempo lento, i gesti sempre uguali. Ogni uomo, l’ultimo della catena, ogni tanto lascia la presa e si porta sulla battigia per riallacciare il suo ‘cullaru’ alla resta. E dietro qualcuno provvede a riordinare il cordame ancora fradicio d’acqua.

La rete intanto si restringe e la sacca vorace, spalancata, nera, incomincia a riempirsi di alghe, granchi, zanchette e, se Dio vuole, buon pesce turchino da riempirci le ceste. Ormai gli uomini stringono tra le mani la rete e si confondono tutti in un solo gruppo: due file strette di schiene che tirano e altri che si inframezzano per tutte le operazioni di recupero del sacco. Già qualche previsione si azzarda se negli ultimi metri quadrati di mare ancora chiuso dai galleggianti ferve un brulichio o si corrusca l’acqua. Allora la fatica non si sente più, le esclamazioni di speranza eccitano all’ultimo sforzo, la trazione si fa più calzante finché appare il sacco che il moto ondoso gonfia e riduce come il ventre mostruoso di un essere abissale.

Ormai è l’ora della verità per questi uomini pazienti. Quando è andata bene, la sacca è colma, il pesce s’ammucchia esausto tra una fantasmagoria di squame lucenti lanciate ovunque dall’agitarsi frenetico del pesce ancor vivo. Le ceste si riempiono nella massa ancora acquosa, mentre mani esperte, rapidamente, cerniscono tra il pescato. Se la giornata è buona, si riparte ancora per ritentare. Ma non è sempre così. Talvolta il premio alla fatica è esiguo: dentro la sacca poche manciate di frittura che non converrà nemmeno portare al mercato.

Uomini di mare anche loro con i sensi sempre tesi a percepire il tempo, a presentire i ritmi che governano la vita che ferve negli abissi. Fermi sulla riva, appoggiati alle agili prue falcate delle loro sciabbeghe, questi uomini dalle decisioni rapide e dai movimenti lenti, chiamano le ciurme addormentate leggendo l’ora dal quadrante del cielo, dai moti delle stelle.

È giusto, perciò, ricordarla alle generazioni che ne vedono, oggi, il simulacro dissacrato dal ruggente motore. Lunga, agile, slanciata, la sciabica (ma chi la chiama così?) costituiva un elemento a sé stante nell’economia, nella coreografia e nella storia di Porto Recanati. Per la particolare natura di questo genere di pesca, caratterizzato dalla costante osservazione del mare e dalla rapidità dell’intervento, la sciabica era costantemente armata e pronta all’impiego.

La lunga enorme rete, opportunamente raccolta in magistrali piegature e facilmente e rapidamente defilabile in caso di varo, troneggiava apparentemente inerte e pesante sul pianale di poppa dal quale, una volta in mare, il capobarca calava con movimenti calcolati e solenni.

Di traverso i lunghi remi, così simili a quelli delle galere e, come quelli, fatti per essere manovrati da rematori in coppia. E quando tutti insieme toccavano l’acqua spinti dalla vigoria degli uomini eccitati dal comando del ‘paró’, la sciabica volava sulle onde, aprendole con quella prua alta e sottile che, per la presenza esorcizzante della Croce, completa dei simboli della passione, assumeva un significato emblematico. I vecchi sciabbegotti sentivano il significato di quel segno, orgogliosi di essere gli eredi e i continuatori del lavoro di Simon Pietro, sciabbegottu anche lui!

In effetti, anche ai tempi di Gesù la rete a strascico era tra i mezzi più usati per la pesca. Ciò accadeva, naturalmente, pure nel mare di Galilea dove il Messia incontra Pietro e Andrea. Qui la rete veniva trascinata tra due barche oppure una barca restava a una certa distanza dalla riva mentre i pescatori, sulla spiaggia, camminavano lungo la battigia. Ben poca differenza rispetto al modo di praticare la sciabica a Porto Recanati.  

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Agura e sgombri

Adesso facciamo parlare direttamente l’amico V. senza più limitarci ad arrangiare quanto da lui scritto ormai parecchi anni fa. Ci piace questa prosa che non indulge a sentimentalismi e che lascia trasparire un velo di bonaria ironia, misto a una profonda partecipazione  e a sincera simpatia per gli uomini della ‘sciabbega’. Lo abbiamo già rilevato, ma torniamo a far notare lo stile caratteristicamente altalenante tra lingua e dialetto. Il testo risale alla metà degli anni Ottanta.

“Ohooooo, ‘aràmo!”: era il richiamo del paró della sciabbega che alle due, alle tre di notte correva di porta in porta a svegliare i suoi uomini.

“Dàje cùgiu, dàje, el pesciu è mésto!”, ripeteva per sollecitarli, a voce bassa, quasi temendo che quelli di altre sciabbeghe lo sentissero. E mentr’egli correva giù la marina a sistemare lo scalo e a ogne le palanghe, i sciabbegotti si buttavano via dal letto, afferravano ancora mezzo addormentati le salparelle e il collaro e, senza una goccia di latte caldo, s’avviavano scalzi verso il mare, tra un colpo di tosse ed uno di catarro, maledicendo in cuor loro la propria miseria.

Mi pare ancor d’udire il rumore della vecchia bicicletta de ccì Pacchió, che veniva a chiamare vicino a casa mia el defunto Buttó, il quale, immancabilmente, lo spediva con due tre moccoli; e quando questi si presentava giù la sciabbega, con ritardo, i corni lu ‘ffugava.

“E tantu l’agurìa de nonnu Fiore el brigante ci hai!”, gli gridava el Zampetto; “ ‘a là ché ‘n’antra ‘olta a te spettàmu, da culu!”, incalzava sotto Saeretto de Nanà.

Quindi a forza di remi e con l’alzana si dirigevano verso la zona di pesca prescelta: la ‘alla (valle) del Potenza o del Musció, ggió da Pacchianè o su da Scainì. El paró si metteva in piedi sulla cuertina a pùpa, per avvistare le rosciure de pesciu; la sua vista era simile a quella di un falco. Gli uomini sui remi stavano a bocca de gola e ‘l poro Sudo, affaticato dal prueru che maneggiava da più d’un’ora senza respiro, mormorava tra sé con malinconica rassegnazione: “E’ propiu ‘eru, gnà murì pe’ campà”.

Intanto lassù nel cielo e’ stelló assieme alla altre sue compagne di solitudine si faceva sempre più pallido, mentre negli uomini cresceva l’ansia dell’avvistamento. Finalmente il paró gridava: “O ragazzi, mettete a prua fitta, i riffuli d’agura ce ccèga!”. In fretta gettavano el gaezzu a terra e calavano con mosse veloci: “rete grossa ‘mbraga maru, ‘mbraga pesciu” urlava Francé de Grespì incitando i suoi a daje sotta: “’oga cun ‘si remi ché dopu magnamu tutti el cappó!”.

A terra gli davano dentro col passo, poggiandosi con tutto il peso sul cullare. “O ragazzi, l’agura fa becchettu”, esclamava contento el Cuciniero, indicando con i suoi occhi aguzzi il centro della rete che pareva in ardore e, invitandoli a metterci la forza, gridava: “Fate ala, nun tirate a scossi”.

Così, tra fatica e speranza si andava avanti per qualche cala, mentre el barcaru, il più vecchio di solito, restava a bordo a sonà le reste, a pulì la sciabbega, a capà el pesciu dalla cuffetta.

Intanto, verso le nove, si vedeva qualche ragazzino con più fagottelli in mano correre a piedi nudi su per marina a portare la culazió al padre e ai zisi. Gli uomini sudavano, avevano la gola arsa; il sole faceva pesare la calura. Negli animi affiorava sempre di più la stanchezza: era ora di tornare a casa.

Ma el paró brontolava a voce alta: “Nun è notte a Cinguli; dàje che famu la cala de la ‘endegna”. Proprio l’ultima, chissà che non sia quella buona.

Finalmente si prendeva la via del ritorno, ma ancora quanta fatica per il povero sciabbegotto: fassela tutta a remi e con l’alzana dal Musció con sciroccale era bava!

A seconda della pesca i visi erano lieti o tristi, ma c’era un anziano sciabbegotto che, comunque fosse andata, non perdeva mai il buon umore: era Cassino, che quando s’avvicinava alle prime case del paese cominciava a cantare certe arie napoletane! La sua voce robusta si perdeva lontano: “O Telèèèè, o Telèèèèè, quante notte m’aggio perse pe’ teeeee…”, intonava ogni volta che intravedeva il povero Telespero Pasqualini ggió per marina.

Se incontravano lungo la spiaggia qualche personaggio noto per la sua stranezza, allora Dio te ne liberi: cominciavano a fischiare, a urlare, a tirar fuori i fazzoletti che agitavano in aria in segno di dileggio, e giù risate a non finire. “Agura e sgombri, agura e sgombriiiii”, gridavano felici gli uomini dalla barca, prolungando all’infinito la “i” e alzando le coffe colme di pesce.

Tant’è che a Porto Recanati, quando si vuol indicare il desiderio di una brigata felice per passare qualche ora spensierata, è divenuta proverbiale l’espressione “’Ndamu a sciabbega ché ridemu”.

Una volta allo scalo, spandevano la rete e i collari al sole; el paró faceva le parti della rimanenza e ognuno tornava a casa sua, in mano la sparettina de pesciu, per ritrovarsi poi tutti al pomeriggio in cantina a fa’ ‘mbrenna. Qui, tra un quartino e l’altro passavano spensierati la serata; il loro companatico era una chieppa o un morgano secchi, che presi d’estate venivano messi al sole a seccare perché servissero per l’invernata, in quei lontani anni di miseria.

Oggi come allora, se c’è una parola che offenda in maniera fastidiosa uno di Porto Recanati è sentirsi dire “sciabbegottu”. Un tempo i sciabbegotti costituivano l’ultima delle categorie, “boni nemmeno a fa’ da testimoni”, tanto scarsa era la considerazione sociale nella quale venivano tenuti!

Nel tessuto cittadino si distinguevano i commercianti, in particolare quelli di stoffe, i telaroli, che con il loro brecche o cacciatora (carro trainato da cavalli) si spingevano a Macerata, Ancona, San Benedetto del Tronto…

Ad essi guardavano con invidia i pescatori, l’anima di Porto Recanati, le cui origini storiche s’identificano con il nucleo marinaro di profughi albanesi giunti alla metà del XV secolo; però, da quando la vela è stata sostituita dalla meccanica, questi sono diventati, e di gran lunga, il popolo grasso del paese.

All’ultimo posto v’era uno strato composito formato di artieri, sciabbegotti appunto, e scalanti. Per artiero s’intendeva colui che esercitava un mestiere in proprio: el cordaro, el canepì, el calafato, il fabbro, il falegname, il sarto, il barbiere e qualchedun altro.

I scalanti erano per lo più vecchi marinai in pensione, e gli stessi sciabbegotti, come Lisà de Bufarini, Peppe de Pumì, Cellerì, Jacumì de Bruduló, Sudo.

Ultimo epigono di un mondo ormai scomparso è rimasto zi’ Neno Menelicche, il volto di cartapecora, gli occhi dô gocce de maru, sempre ggió per marina a spettà la cunculara.

Era loro compito quello di tenere sempre in ordine lo scalo, de ogne bè le palanghe, de sta’ pronti a ‘ultà sull’arghenu.

Ad essi spettava la muccìa, lo scarto del pescato dei barchetti; comunque, sempre bono pe’ fasse un brudettì o dô pescetti fritti! Guai se la figlia d’un marinaro avesse sposato uno sciabbegotto, oppure preteso un artiero: e per tant’è ‘ea persu l’unore lia cun tutta la generazió!!!

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Concorrenza sleale

Non poteva mancare il contributo di Alessandro Mordini, Lisà per tutti noi, il quale scrive per diretta esperienza. La sua memoria gli ha dettato nomi e volti ben conosciuti al Porto nonché un episodio che rivela ampiamente la mentalità degli sciabicotti.

Non mi ricordo bene se era l’anno 1947 oppure il ’48, avevo sedici/diciassette anni e andavo a pescare con la sciabica di Giuseppe Giri, detto Magnaró e detto anche El Zampettu.

Erano soprannomi che venivano certamente da lontano e dei quali non conoscevo le origini. A Porto Recanati tutte le persone anziane venivano chiamate “zi’”, cioè zio e zia a seconda del sesso, e tutti coloro di una o più generazioni inferiori venivano chiamati, dagli anziani, “nipote”. Questa precisazione era doverosa.

Zi’ Peppe de Magnaró aveva, credo, sei figli, di cui quattro maschi: Giggiu, Nenu, Peppì, Pasqualì (Luigi, Nazzareno, Giuseppe, Pasquale), tutti e quattro impegnati nella sciabica del padre. Giggiu, il più grande di età, era il capobarca (paró).

A quell’epoca eravamo una bella ciurma. Oltre ai quattro figli di zi’ Peppe, già nominati, c’erano tre persone anziane: zi’ Incè de Nasó (Vincenzo Gaetini), zi’ Nicò del Tentore (Nicola Mordini, mio nonno), zì Incè de Gabetì (Vincenzo Grilli). I ragazzi della ciurma, dai quattordici ai diciotto anni: Gaetano Ferraccioni, Pietro Cavallari (Pietru de Ciambelló) andato poi in Argentina a raggiungere suo padre, Alessandro Mordini (Lisà ovvero me medesimo), Luciano Grilli (Lucianu Panzetta), Antonio Galieni (‘Ntò), Antonio Ferraccioni (‘Ntuni’), Nicola Pandolfi (Niculì), Giri Giuseppe (Peppe Rita) che credo sia stato il più piccolo, quattordici anni, figlio di Nenu, nipote del padrone della sciabica.Di tanto in tanto si aggregava qualche altro, ma erano soltanto provvisori, la vera ciurma eravamo noi.

Spero di non avere dimenticato nessuno, ma se fosse non me ne voglia. E’ passato tanto tempo.

Veniamo alla scia.

A fine settembre e soprattutto in ottobre, ci alzavamo presto, alle due di notte eravamo già pronti per il varo della sciabica.

Facevamo la prima pescata (cala) all’altezza della pineta Volpini. Calavamo la rete molto al largo, quattro o cinque ‘reste’, dai tre ai quattrocento metri dalla riva e anche oltre.

La rete arrivava a terra verso l’alba, carica di ‘sciugheri, bobbe, zanghette e baracculette’. Ma dietro la manica si formava una scia nella quale c’erano tanti piccoli pesciolini (‘lattarì’) che uscivano dalle maglie della rete, attirando presso di loro banchi di sgombri, ma soprattutto di aguglie (‘àgura’).

Facevamo quella cala al largo non soltanto per il pescato della stessa, ma proprio per calare la rete dietro la scia che sarebbe risultata la pescata più proficua e meno faticosa, perché effettuata vicino alla riva. Puntualmente, tutte le mattine, la cala dietro la nostra ‘scia’ ce la fregava un’altra sciabica, che appostandosi dietro la foce del fiume Potenza, attendeva il momento propizio per calare la rete.

Noi eravamo in piedi già dalle due di notte, questi signori freschi freschi, da poco alzati dal letto, tutte le mattine ci facevano questo scherzetto.

Quello che loro facevano era legalmente inappuntabile, il mare era libero e tutti potevano pescare. Non potevamo farci niente.

Ma non era del tutto corretto nel codice morale dei pescatori.

Che fare? A un certo punto ci siamo decisi.

Una mattina abbiamo fatto finta di calare la rete, invece li abbiamo aspettati al varco. Non appena il loro capobarca ha lanciato la cima della corda a terra (‘buttà el capu’) per poi procedere alla calata della rete, abbiamo aggredito la metà della ciurma rimasta sulla spiaggia e a furia di ‘scullarate’, cioè botte con le tracolle (i ‘cullàri’), li abbiamo messi in fuga. Per quando l’altra metà della ciurma è arrivata in loro soccorso, gli altri si erano già dileguati, e giù, botte da orbi anche a questi.

Non ci sono state né ferite né fratture e nemmeno querele. Soltanto qualche contusione e qualche bernoccolo (‘bòzza’), e, credo, anche tanta paura.

Soprattutto hanno imparato la lezione: da quel giorno ogni sciabica calava la rete soltanto dietro la propria scia.

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La cantina

Nel bellissimo passaggio trascritto poche pagine fa, V. fa riferimento alla cantina, cioè all’osteria, abituale rifugio degli sciabbegotti, benché, certo, questi non ne fossero i soli clienti.

Nella relazione di accompagno dei dati ricavati dal quinto censimento del Regno (1911), il segretario comunale Luigi Petrocchi esprime un severo giudizio sugli uomini portorecanatesi, …nella più gran parte marinai, i quali fanno assegnamento sul meschino guadagno di esse (delle mogli, pescivendole o venditrici di aranci, stoffe e altro) per poter frequentare fino a tarda sera il caffè e l’osteria, nel lungo periodo che stanno in terra, dal dicembre, cioè, all’aprile.

Un po’ impietosa l’analisi di Petrocchi, oserei dire ingiusta: la cantina non era certamente il Rotary Club, ma dove altro potevano andare a passare il loro tempo i nostri pescatori?

Nei mesi invernali, la mattina, li si poteva trovare a rammendare le reti, a fare lavori di manutenzione degli attrezzi della professione perché fossero pronti al momento opportuno; qualcuno si arrangiava pure a dare una mano ai calafati. Il pomeriggio, però?

Il pomeriggio erano tante piccole processioni che prendevano la direzione di quei ‘templi del vizio’, ogni fedele tenendo in mano un cartoccetto di pesce essiccato o di tonno e olive, e un tozzo di pane.

La cantina era, di solito, un lungo stanzone debolmente illuminato, ai cui lati si trovavano tavoli di 3/4 metri per un metro circa: gli avventori sedevano su panche prive di schienale, poste ai lati.

La parete di fondo era occupata dal bancone sul quale troneggiavano le botti del vino con i rubinetti in continua attività.

Entrando si rimaneva colpiti dal gioco di ombre cinesi proiettate sull’alto soffitto; profili di facce spigolose, schizzi di mani e braccia alzate per imprecare o ammonire, minacciare o descrivere: il tutto sorretto da un mormorio sommesso interrotto, di tanto in tanto, da un richiamo festoso o da un’invelenita bestemmia.

La buona borghesia, quella che contava e governava, frequentava il più aristocratico caffè e guardava con poco celato disprezzo al lacero groviglio di umanità che, pure, nella cantina si illudeva di affogare la propria quotidiana pena di vivere.

Dalle quattro del pomeriggio alle sette, sette e mezzo di sera, i locali di Alberto Cittadini in via della Stazione, quelli di Cavallari, del Torcoletto in via Larga, di Giri a Castelnuovo e tutti gli altri (circa una ventina), si riempivano di avventori davanti al naso dei quali, tra la nebbia del fumo dei sigari, sparivano e riapparivano con sorprendente rapidità le fogliette da un quarto, da mezzo litro o da un litro, sempre attentamente controllate dai clienti affinché l’oste non facesse el cullarì, vale a dire non arrivasse a versare il vino fino al segno circolare sul collo della foglietta.

Quando l’atmosfera si era abbastanza scaldata cominciavano i cori: vecchie e tristi storie come quella di Giulia, che il fidanzato aveva trovato morta al suo ritorno dal servizio militare; la feroce ballata di Peppino Amato dove si promettevano ai signori pugnali, sangue e vendetta; stornelli del tipo Al Portu de Ricanati c’è un’usanza, le donne maritate fa’ all’amore…

Inevitabili le canzoni del mare, mentre i più ‘raffinati’ si commuovevano (il vino li aiutava) sulle note del Va pensiero e della Vergine degli angeli verdiani o su quelle del Miserere che si intonava anche per la bara de notte.

Gli argomenti preferiti nella conversazione riguardavano il lavoro, i guadagni, i problemi con i colleghi, le piccole meschinità e i tradimenti di ogni giorno.

Molti giocavano al sotta, nome che veniva dato a colui che comandava il gioco: l’ignaro forestiero che si fosse trovato lì per caso avrebbe assistito a strani rituali celebrati intorno al bicchiere colmo di vino, dal sotta, dal paró, dal giocatore che veniva fatto olmo, cioè lasciato all’asciutto.

Nel gioco, a volte, la tensione saliva pericolosamente: tra un 54 ell’omu se despèra e un 55 ‘mmazza la premiera si insinuava con facilità la contestazione seguita dall’insulto e poi dal rapido spuntare del coltello dalla fascia che cingeva i fianchi del marinaro, del pescatore o dell’artiere.

La cantina e le sue immediate adiacenze erano quasi un luogo deputato per le liti; non di rado queste avevano conseguenze gravi come accadde, per esempio, il 23 luglio 1899 davanti all’osteria Cavallari.

Racconto il fatto con le parole della sentenza emessa il 18 gennaio 1900 dalla Corte d’Appello di Macerata, presidente il cav. Gaetano Mazzini (Archivio di Stato di Macerata, Registro delle sentenze dell’anno 1900, n°73): Nel giorno 23 luglio (1899), circa alle ore 14, ebbero ad incontrarsi nella osteria Cavallari in Porto Recanati il V.A. e il F.M. Tra di essi sorse una questione presto domata dai presenti avendo il primo rivolto in tono ironico al F. la parola: ‘bricòcolo.

Nella sera dello stesso giorno, verso le ore 22, ebbero nuovamente ad incontrarsi nella osteria suddetta il V. e il F. e fuori della porta della medesima ove si ballava si riaccese la questione ed in seguito a vivace scambio di ingiurie il V. vibrò un colpo di trincetto nel petto al F. il quale sentendosi ferito afferrò una pietra e la scagliò contro il feritore colpendolo alla schiena.

Il F. riportò una ferita dichiarata guarita in giorni nove ed il V. a sua volta altra lesione guarita in giorni sette.

Nonostante che i due si fossero in seguito accordati, con la conseguente remissione delle rispettive querele, il Tribunale condannò comunque a 28 giorni di arresti il V. perché …è addimostrato dalle risultanze processuali che il V. dopo essere andato freddamente ad armarsi di trincetto assalì improvvisamente il F. il quale invece era stato dal medesimo già precedentemente ingiuriato. I precedenti poi del V. giustificano per sé soli la gravità della pena…

Azioni da condannare, senza dubbio; né si può dimenticare che troppi fatti simili si verificavano nelle cantine.

Tutto ciò non può però cancellare il positivo che c’era in quella ‘istituzione’, se non altro perché essa ha rappresentato l’unica occasione di incontro, di svago, di scambio quasi sempre pacifico di opinioni.

Anche nella vicenda di A.V. e M.F. questo aspetto viene evidenziato: quella sera, fuori dell’osteria Cavallari, la gente ballava come probabilmente accadeva presso altre osterie.

Poi, alla fine, si tornava a casa, ma un po’ col vento in prua perché si rientrava nella dimensione della vita sofferta di ogni giorno, il pensiero di nuovo rivolto alla vasta distesa salata che Dio ci ha dato, a noi del Porto, per eterna compagna:

Pacenza ‘ita mia se pati pena;
  sarà per quann’ hi fattu ‘ita bona:
  se ‘ita bona nun l’hai fatta mai,
  pacenza ‘ita mia se patirai.

Forse sbaglio, ma mi pare che l’ultima cantina a chiudere i battenti sia stata quella di Primo, all’angolo tra le vie Adriatico e san Giovanni Bosco, con ingresso da entrambe.

Quella cantina resta nella memoria di chi aveva da poco passato l’adolescenza agli inizi degli anni Sessanta, come il locale fuori del quale Ovi e Didó, indimenticabili personaggi e sciabbegotti, intrattennero una vasta compagnia di giovinastri discutendo fino a mezzanotte sulla struttura dell’atomo.

Quando non ci furono più cantine, anche zi’ Nemesio el Trentino e Gujè Occhibelli dovettero trasferire il loro spettacolo (il secondo accompagnava all’organetto la danza del primo) negli spiazzi all’aperto.

Insomma, chiuse le porte delle osterie, finito un mondo.

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Nel nome del Padre

La religiosità degli sciabbegotti era un misto di fede sincera e di credenze popolari, anche di superstizioni, il che dava luogo sovente a comportamenti piuttosto contraddittori.

La barca veniva sempre battezzata, anche quando era stata comprata di seconda mano, e nel suo interno trovavano posto santini e immagini sacre di ogni genere e forma.

Quando si calava per la prima volta, in qualsiasi ora della giornata, prima che la rete toccasse l’acqua, lo sciabbegottu de pupa o il paró pronunciavano la formula di rito, che poi era un invito: àneme sante del purgatoriu, alla quale l’equipaggio rispondeva: per Maria Santissima.

Qualcuno toglieva il berettu, altri recitavano il padre nostro, senza preoccuparsi, ben inteso, del fatto che poco prima avessero abbondantemente smoccolato, magari per qualche banale motivo.

Quando all’alba spuntava il sole, l’astro veniva salutato togliendosi il berettu e dicendo: Bungiornu santu sole. Niente di pagano nell’espressione, almeno mi sembra, ma solo il rispetto per il più grande fenomeno della natura creata da Dio. La ‘santità’ del sole era per gli sciabicotti lo specchio della più grande santità dell’Ente Supremo.

È noto che gli sciabbegotti tengono molto, da sempre, a partecipare alla bara de notte, il catafalco dove è poggiato il simulacro del Cristo Morto, che viene portato in processione a forza di braccia nelle vie del Porto il venerdi santo.

A dire il vero questa devozione, da noi, è generale; è la comunità che partecipa con uguale intensità all’evento, indipendentemente dall’appartenenza delle persone a questa o a quella categoria sociale.

Ma sono gli uomini di mare che si sobbarcano la fatica del trasporto, con l’aiuto di uno dei simboli del mestiere di sciabicotto, il cullaru; e sono sempre gli uomini di mare che si mettono sacco e cappuccio per portare sulle spalle la croce immediatamente dietro la bara (i cangiudei).

L’usanza della processione è di certo antica assai. Quanto alla bara, occorre stare attenti a non azzardare ipotesi senza alcun fondamento. Al momento non si hanno certezze in rapporto al tempo del suo apparire nel panorama dei riti religiosi locali.

Per il resto, gli sciabbegotti partecipavano del modo di sentire la religiosità da parte della collettività portorecanatese. Battezzavano i propri figli, li cresimavano e li sposavano in chiesa, dove essi stessi andavano a ricevere la benedizione di Dio prima di andare ad appendere il cullare su da Marino, vale a dire al camposanto (Marino era il nome di una persona che ha fatto lungamente da custode del civico cimitero).

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Le donne

Non sono tra quelli che condividono in pieno l’idea della donna portorecanatese come vero capitano della nave familiare. Mi pare che questo sia il frutto della costruzione di una sorta di mito cresciuto fino a vantare rango di verità storica grazie a strumenti impropri per misurare la suddetta verità, vedi la poesia o il teatro dialettali.

Ciò non significa che alla donna debba essere riservato un posto di secondo piano nella storia cittadina; significa solo che quello in cui è stata collocata fino ad ora mi sembra non propriamente appartenergli davvero.

Come che sia, essa ha svolto un ruolo determinante nell’economia della sciabbega e non di rado partecipava alla fase ultima della pesca, vale a dire quando la rete veniva ritirata a terra, proprio come la donna di sabbia di Grazia Deledda.

Le donne aspettavano ansiose l’arrivo dei portatori delle coffe nei pressi del mercato ittico, con lo sguardo fisso alla strada.

Una volta avuto il pescato, assistevano alle fasi dell’astatura e della vendita, riferendo agli uomini, in tempo reale, le notizie sull’andamento del mercato e sulla qualità del pesce fatto giungere sul posto dalla concorrenza.

A volte riuscivano persino a riferire dove le altre sciabiche avevano calato la rete, così da permettere subito ai loro la scelta di un posto diverso.

Una parte del pescato veniva venduta per le vie del paese con i caratteristici cariòli, che servivano anche per il trasporto del pesce in campagna, al grido di pesciu, pesciuuuuu! Pesciu frescu vivu vivuuuu! Pesciu de sciabbegaaaa!

Quella dei cariòli è stata un’epopea che merita di essere studiata a parte; senza i dilettantismi che, anche qui, hanno fin troppo ‘guastato’ una verità storica fatta soprattutto di fatiche inenarrabili, verità che si può ancora intuire, per esempio, dalla lettura di alcune poesie di Emilio Gardini e percepire con chiarezza, e con qualche brivido nella schiena, ascoltando il racconto di chi ancora è in grado di parlare per diretta esperienza.

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Episodi

Sugli sciabbegotti c’è una letteratura orale sterminata. È fatta soprattutto di aneddoti, ma non mancano racconti di situazioni e di momenti che meritano di non essere dimenticati.

Lo scrivo a beneficio di quanti guardano con snobistica alterigia al mondo piccolo della sciabica e credono che l’unico impegno culturale degno di essere definito tale sia da collocare dalla linea Bergson/Heidegger in su (fatto salvo, è ovvio, che cosa si debba davvero intendere per ‘su’).

A dire la verità, mi fanno un po’ pena perché non sanno proprio quel che perdono. Moriranno monchi di un ‘sapere’ che li avrebbe resi capaci di capire che cultura è pure sinonimo di umiltà.

Ma non di sciatteria, sia chiaro. Perché c’è anche da mettere in guardia nei confronti dei non pochi ‘studiosi’ improvvisati della storia e della tradizione locali.

Questi, infatti, sono terreni ai quali occorre avvicinarsi dopo essersi dotati degli strumenti di conoscenza necessari, i quali non si acquisiscono per grazia ricevuta o per eredità familiare, al modo di un mobile. Bisogna sapere come si conduce una ricerca storica, linguistica, di folclore e di costume. E per saperlo non c’è altra strada che lo studio, con ciò non limitando il termine al solo riferimento scolastico.

Chi crede che trattare della sciabica, come capita in questo numero di Potentia, o di altri argomenti che appartengono al patrimonio di civiltà della comunità del Porto sia ‘facile’ e perciò roba per tutti, lasciatemelo dire, è solo uno sciocco.

Bene, finita la predica (me ne scuso, ma a qualcuno, forse, servirà), diamo spazio agli episodi annunciati, che sono soltanto una piccola scelta tra i tanti che sono stati riferiti.

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Sciabbegotti e testimonianze

Che motivo si ha di affermare che u’ sciabbegottu nun è bonu mancu a fa’ da testemoniu? La spiegazione, come ebbe a dichiarare Mario Panetti, da me intervistato per la realizzazione della  videocassetta del C.S.P. sulla sciabica, ‘è a monte’.

Non ho ben capito il senso di quel riferimento geografico, ma ricordo perfettamente, invece, la storia che Mario raccontò per togliere valore a un modo di dire che non può non suonare offensivo per un’intera categoria. Eccola.

Gli Scarfiotti avevano messo su casa anche da noi costruendo una grande villa a ridosso della spiaggia. Com’è noto, si tratta dell’attuale albergo/ristorante Vincenzo Bianchi. Ciò accadeva, probabilmente, ai primi del XX secolo.

Già da qualche anno l’avvocato Lodovico (primo presidente della Fiat dal luglio 1899 al luglio 1908), veniva a passare le sue vacanze d’estate al Porto e stava maturando l’idea di costruire qui una fabbrica di cemento, cosa che poi fece, a vantaggio e beneficio dell’intera comunità.

La famiglia si stabiliva in villa all’inizio dell’estate e il suo arrivo, come ho scritto nel mio Gli Scarfiotti e Porto Recanati (Porto Recanati 1991, p.62) era un avvenimento che…. segnava l’inizio ufficiale della stagione; nella grande casa sul lungomare pavimenti e mobili risplendevano, la facciata era adorna di fiori e al loro arrivo i padroni erano attesi dalla servitù che faceva ala al passaggio della famiglia, Maman (Luigia Favale) in testa. Qualcuno ricorda che in quel palazzo sostò anche il principe Umberto, in navigazione nell’Adriatico: scese a terra e fu ospite degli Scarfiotti per riprendere il mare il giorno dopo.

Della famiglia faceva parte Francesca Faà di Bruno, moglie dell’ingegner Luigi e madre del Lodovico futuro campione automobilistico. Il cognome, Faà di Bruno, era, ed è, altisonante.

Un giorno successe che la signora Francesca non trovò più un suo anello di grande valore. Pensa e ripensa, giunse alla conclusione di esserselo perduto in spiaggia, con in più il sospetto che il bagnino l’avesse trovato e se lo fosse tenuto.

La faccenda finì davanti al pretore di Recanati, con il bagnino in veste di primo sospetto del ‘furto’. Questi, il bagnino, che era anche sciabbegottu, chiamò a testimoniare a suo favore un gran numero di colleghi nel mestiere del cullaru. Alla domanda del magistrato, “Che cosa sapete dirmi dell’anello?”, gli sciabbegotti rispondevano tutti in maniera assai evasiva. Esempio, portato da Mario Panetti: Ah, sor pretore, iere ‘emu calatu ‘icinu a la sbocca del Putenza e ‘emu presu bè. Oppure, alla stessa domanda: Ah, sci; hu dittu a mi’ moje de mannamme su el pà e de mettece un po’ de furmaggiu.

E via così fino a esaurimento dei testimoni; alla fine il pretore disse che chi aveva avuto e chi aveva dato poteva sentirsi soddisfatto e chiuse lì il caso, con un nulla di fatto. Vecchia storia, tipo quella de La farce de maître Pathelin, capolavoro del teatro francese del Quattrocento.

Dunque, afferma Panetti, è vero che gli sciabbegotti non hanno ‘saputo’ testimoniare, ma solo perché non hanno voluto. Loro sono stati i più intelligenti in tutta quella faccenda.

Del resto, c’è un inoppugnabile documento che attesta, se davvero ce ne fosse bisogno, la capacità testimoniale dei nostri artisti della sciabica. Nella vicenda giudiziaria di Emidio Maggi, avvenuta nel 1831 (vedi il primo numero di questa Rivista), tra i testimoni a carico del ‘rivoluzionario’ figura Nicola Meschini, nato nel 1791, di professione sciabicotto. Dunque…

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Sciabica… in collina
 

Il 5 novembre 1901 il sindaco Enrico Volpini fece affiggere un manifesto tutto dedicato agli sciabbegotti.

Circa un mese prima, il 31 ottobre, il prefetto di Macerata, Borselli, gli aveva inviato un telegramma con la richiesta di inviare soccorsi urgenti nel territorio di Montelupone inondato a causa di piogge torrenziali e dove diversi coloni, circondati dalle acque, aspettavano qualcuno che li tirasse fuori da quel brutto guaio.

Volpini fece appello ai pescatori, i quali, a quanto risulta dal manifesto, risposero pronti e volenterosi, allestendo squadre di soccorso giunte in pochissimo tempo sul posto: lì, navigando per la campagna a bordo delle sciabiche, i nostri si erano distinti per coraggio, salvando molte vite e meritando il ringraziamento pubblico e ufficiale del Prefetto Borselli.

Ecco l’elenco degli eroi:

Giri Alessandro
Giri Saverio
Giri Biagio
Giri Luigi
Giri Giuseppe
Giri Fortunato
Giri Pasquale
Cavalieri Federico
Cavalieri Francesco
Maradonna Luigi
Rombini Pasquale
Rombini Giuseppe
Gaetini Andrea
Bufarini Alessandro
Cionfrini Filippo
Camilletti Placido
Scalabroni Vincenzo
Piangerelli Giacomo
Scartozzi Angelo
Stefanelli Nazzareno
Manzotti Antonio
Cingolani Vincenzo
Zaccari Cesare
Sisti Francesco, guardia.

Il manifesto, stampato nella tipografia recanatese Simboli, fu affisso per le vie cittadine e ci pare più che giusto ricordarlo perché in quell’episodio i nostri sciabbegotti hanno dato una grande dimostrazione di altruismo e di capacità

L’occasione sarebbe buona di affrontare qui un argomento ancora assai poco esplorato, quello dei rapporti tra sciabbegotti e contadini, ma ci ripromettiamo di farlo in futuro, non disponendo ancora di notizie e documenti sufficienti e mancandoci pure lo spazio in questo numero.

Non va dimenticato, infine, che una grossa mano fu data nell’occasione dai nostri carrettieri; furono loro a trasportare a Montelupone, con i cavalli, le sciabiche per il salvataggio delle persone in pericolo.

Un’altra circostanza in cui gli sciabbegotti si resero protagonisti di un atto di valore (un’altra tra le tante, in verità), si verificò il 25 aprile del 1926.

Dal giorno prima infuriava un grosso fortunale, che aveva anche causato la morte di un pescatore, Attilio Antognini. Altri due, Giovanni Volpini di 51 anni e Ciriaco Pandolfi erano restati isolati su una barca ancorata a circa quattro chilometri dalla riva. Si avvicinava la sera del 25 e la barca, appena disancorata, non avrebbe certo retto la furia delle onde. Pandolfi era ferito, un colpo di pennone gli aveva rotto due costole, l’altro, Volpini, era vecchio, come si esprime il segretario comunale, geometra Dante Santucci nel registro delle deliberazioni del commissario  Giuseppe Volpini (21 maggio 1926).

Ad avvisare a terra che i due si trovavano in situazione molto critica era stato il vapore Roma, che non aveva potuto soccorrere la lancia, data la grande pericolosità della manovra di accostamento e rimorchio con condizioni di mare così difficili. Né si era potuto convincere il Volpini a tentare da solo di salire a bordo della nave: non aveva voluto abbandonare il più giovane compagno ferito.

Allora otto pescatori escono in mare con una piccola barca a remi, vale a dire una sciabica. Affrontano un non piccolo pericolo; sanno che stanno mettendo a rischio la propria vita.

Come che sia, riescono ad accostare la barca e prendono a bordo i due. Il ritorno si rivela più pericoloso ancora perché il natante rischia ad ogni momento il capovolgimento, specie al momento di prendere terra.

Ma ce la fanno. Sono tutti salvi.

Ecco i nomi degli otto protagonisti, tra i quali si trova qualcuno che abbiamo appena conosciuto:

Giri Saverio fu Giovanni, 58 anni, proprietario della sciabica
Camilletti Ubaldo fu Luigi di 32 anni
Giri Gaspare di Saverio di 32 anni
Rombini Pasquale fu Tommaso di 50 anni
Damiani Giovanni di Luigi di 25 anni
Cavallari Nazzareno di Pietro di 22 anni
Gaetini Andrea fu Tommaso di 29 anni
Monachesi Crispino di Enrico di 25 anni  

Per tutti loro la qualifica è di pescatore, mentre nell’atto si fa speciale menzione dei primi due che furono ammirevoli e sprezzatori del pericolo.

Lo stesso commissario Volpini, in compagnia del Comandante del Porto di Ancona, era stato testimone del fatto e perciò egli proponeva un’adeguata ricompensa agli otto sciabbegotti e pure a Giovanni Volpini per la sua decisione di restare accanto al compagno ferito.

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La barchetta dove la metto?

L’interrogativo, per i pescatori del Porto, per quanto antico non ha smesso di avere validità anche al giorno d’oggi. Il problema di un posto dove consentire l’alaggio delle piccole imbarcazioni è stato affrontato tante volte e tanti sono stati i tentativi di trovare una soluzione definitiva.

A parziale conforto di chi ancora si trova di fronte il problema, riportiamo un trafiletto apparso nel quindicinale Il Martello, foglio di opposizione all’Amministrazione Volpini/Lucangeli (sosteneva il così detto partito Cittadini, insieme di socialisti, radicali, repubblicani).

Da quanto si legge appare che nei primi anni del XX secolo (il trafiletto è stato pubblicato nel numero 11 del 6 ottobre 1901) la zona di alaggio era a lato della foce del Potenza, verso l’incasato urbano, il che significa che chi ha pensato in tempi più recenti alla stessa soluzione, non ha poi inventato gran che.

Ecco il testo che ci interessa: Giorni sono i lancettari, avendo il fiume occupato la spiaggia ove eseguiscono lo scalo, furono costretti a mettere un tanto a testa e far rimediare alla meglio. Se il fiume si è accostato tanto al caseggiato, con un po’ di piena e mare che non riceva, non potrebbe darsi che Porto Recanati venisse allagato? Questo prevedeva il conte Della Torre (uno della parte di Alberto Cittadini), se non erro, un paio d’anni fa quando c’era una questione di usurpazioni. Vi fu un’inchiesta in proposito e fu interpellato anche il Genio Civile. Il conte Della Torre naturalmente ebbe tutti i torti: ma il fiume, accostandosi sempre più al caseggiato, com’egli previde, ora gli da ragione….

Il fiume va in piena, Amministrazione ladra!

Il problema fu ripreso in esame dall’Amministrazione comunale (commissario prefettizio Giuseppe Volpini) alla fine del mese di maggio del 1926. Le lamentele dei bagnini erano state probabilmente notevoli: le lancette e le sciabiche tirate a riva in ogni sito della spiaggia di fronte all’incasato urbano, rendevano la vita difficile a loro e ai bagnanti. Anche perché i pescatori non si limitavano a occupare il necessario, ma spandevano ovunque argani, palanche, travi e attrezzi vari. Durante la stagione, tra l’altro, veniva ostacolata la regolare collocazione dei capanni. L’inconveniente maggiore era l’alaggio delle barche quando le condizioni del mare non consentivano la pesca. Allora,a ridosso delle lancette e delle sciabiche …vengono lasciati escrementi e rifiuti di ogni specie.

Ben immaginabile il conseguente e frequente esodo dei bagnanti. La Capitaneria di Porto di Ancona, alla fine, intervenne in quell’anno 1926 ordinando che l’alaggio delle imbarcazioni fosse possibile solo in due punti a sud e a nord dell’incasato urbano, salvo …un’acconcia linea di tiro, che potrà essere chiamata linea di salvataggio, nella zona centrale resa libera per ogni fortunosa vicenda in caso di eccezionali mareggiate….

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Per la patria in guerra

Maggio 1917: l’Italia è in guerra e anche gli sciabicotti sono chiamati a fare il loro dovere per contribuire alla vittoria contro gli austro/germanici.

Comincia così, come si è già accennato nel capitolo Numeri, una lunga serie di requisizioni che interessano direttamente le sciabiche.

Il 10 maggio si delibera che le 18 sciabiche in attività cedano quattro chilogrammi di pescato a testa, ogni giorno di lavoro; l’11 giugno si cambia e adesso sarà il Comune che requisirà direttamente e quotidianamente l’intero prodotto di due sciabiche.

Ma l’impresa non si rivela facile perché le sciabiche riescono a sottrarsi alla requisizione, soprattutto perché il prezzo pagato dal Comune è giudicato troppo basso. Ancora a fine luglio l’Amministrazione comunale lamenta scarsa collaborazione da parte dei pescatori: Quasi sempre o con un pretesto o con un altro sono sfuggite all’esatta osservanza dell’obbligo assunto.

Non è giusto, secondo la giunta comunale, escludere dall’approvvigionamento i forestieri; probabilmente qualcuno aveva creduto bene di pensare prima a quelli di casa nostra e poi agli altri.

Si procede, comunque, a un nuovo sistema di requisizione, ma in nessun modo se ne riesce a trovare uno che soddisfi gli sciabbegotti.

 Come si sarebbe potuto, con la miseria dilagante di quei tempi?

E così si va avanti fino alla fine della guerra e oltre: l’ultimo provvedimento in materia, infatti, è del dicembre 1918, quando, finalmente, le requisizioni cominciano a riguardare anche le cinquanta barche a vela che hanno ripreso la loro attività. Le sciabiche, essendo tra l’altro inverno, sono lasciate in pace.

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Qualche personaggio (ma pochi, se no non la finiamo più)

Vincenzo Scalabroni, che troviamo presente anche nell’elenco dei pescatori accorsi a Montelupone per l’inondazione del 1901, pare fosse considerato al suo tempo il punto di riferimento degli sciabbegotti del Porto. Lo chiamavano, come ricordava la figlia Ida, capo barzotto, termine che apprendo per la prima volta.

Era nato il 25 agosto 1873, da Giacomo e Vittoria Braghini. Il 9 agosto 1899 prestò soccorso al pescatore Arturo Pierantoni naufragato con la barca da pesca I due fratelli capovoltasi nelle acque di Porto Recanati. Per questo aveva ricevuto un attestato di benemerenza dal Ministero della Regia Marina.

Il Capitano del Porto di Ancona, a sua volta, gli concesse un encomio per l’azione di merito compiuta il 18 agosto 1903, quando aveva salvato Pasquale Gaetini (di Lorenzo), che stava per annegare.

E poi c’era stato l’encomio solenne dell’Ammiraglio Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Venezia …per lo slancio e l’opera zelante spiegata in occasione della cattura della Torpediniera Austriaca T.Bi/11, avvenuta lì 5 ottobre 1917. Così si legge nel Foglio di Ricognizione della Marina Mercantile Italiana, documento che è in possesso della famiglia Scalabroni.

Racconta il nipote Mauro che tra i vari lavori che Vincenzo aveva svolto, c’era pure quello di aiutare le paranze di San Benedetto del Tronto (vedi il capitolo Numeri) nelle operazioni di sbarco del pesce e di rifornimento di viveri e attrezzi vari.

 

Su zì Saè el Cuciniero lasciamo lo spazio a V., che ne offre un vivace ritratto: Uno dei più vecchi bagnini è stato Saverio Panetti, che tutti han conosciuto col soprannome di Cuciniero. Gli piaceva parlare, parlare: al bar de Storà tenea banco. E tale passione è rimasta anche al figlio Mario, che appunto perché predica sempre lo hanno soprannominato el pastore. Beh, quando d’estate i bagnanti domandavano al vecchio zì Savè che tempo avrebbe fatto l’indomani, perché magari avevano in progetto una gita in barca fino alle due sorelle (le grandi rocce emergenti dal mare accostate al Monte Conero), questi si metteva l’indice della mano destra in bocca, poi portandolo in alto sentenziava: ‘Dumà fa’ maestralettu, partite sciguri’. Qualche volta il giorno dopo veniva ggió la tressa! Oppure, guardandosi attorno, con aria grave esclamava: ‘Orizzonze de qua, orizzonze de là (da notare la ‘z’) el tempu è nubile, minaccia di pioggere’

 

Ancora un quadretto di V. Questa volta si tratta del mitico ccì Pacchió. Va ricordato, come ci ha fatto già notare Alessandro Mordini, che al Porto tutti gli anziani venivano chiamati dai più giovani, senza che ci fosse alcun rapporto di parentela. Era un segno di rispetto per chi aveva più esperienza di vita; questi, di rimando, si rivolgeva all’interlocutore giovane chiamandolo nepote.

Scommetto che pochi a Porto Recanati saprebbero chi è Pasqualì Scalabroni, ma basta dire il suo soprannome, ccì Pacchió, che ‘ncora i piri di banghi lo conoscene! Anzi, si offende (il verbo è al presente perché all’epoca di questo scritto, ccì Pacchió era ancora in vita) se lo chiamate per nome, per tutti è solo ccì Pacchió. Quando incontra qualcuno è sempre il primo  a salutare, mille mija da longo: ‘Bongionno, bongionno ccìo’. E’ evidente che ha poco in simpatia qualche consonante, oppure sono i denti! Ormai ha superato gli ottanta e da giovane è stato un bravo sciabbegotto e un ottimo scalante. Quante volte el defunto babbo, zì Nannì, zì Spartè l’hanno mandato a chiamare pe’ tené le palanghe de prua quando araene cu’ la maretta, perché ccì Pacchió era un maestro per capì quando riàa la valìa (ala?) bona. Perché se ‘ndài in marina cu’ la lancetta, eri lestu dopu!

 

Era anche pesce di sciabica quello sistemato sui cariòli delle pescivendole che andavano a venderlo in paese o lo esportavano nelle località vicine. Il 17 maggio 1901 si celebrò di fronte al regio pretore di Recanati il processo contro …Giri Francesca fu Vincenzo di anni 37, Flamini Vincenza fu Antonio d’anni 66, Bronzini Maria-Caterina di Nazzareno, d’anni 21, tutte pescivendole di Porto Recanati, imputate le prime due d’ingiurie ai sensi dell’art. 395 cap. 1° C.P. per avere in Porto Recanati il giorno 2 aprile 1901, pubblicamente ed in sua presenza offeso la riputazione di Bronzini Caterina con le parole ‘puttana, puzzona e simili’. La terza –a) di minaccie (sic) ai sensi dell’art. 156 C.P. per aver minacciato Flamini Vincenza con un bastone in mano col quale voleva percuoterla, reato commesso il giorno 2 aprile 1901 a Montefano; -b) d’ingiurie ai sensi dell’art. 395 cap. 1° C.P. per avere ingiuriato nelle circostanze di tempo e luogo pubblicamente ed in sua presenza offeso la riputazione di Giri Francesca con le parole di avere fatto la spia al daziere Mattioli Pacifico di Montefano acciocché questi avesse fatto la contravvenzione alla Bronzini Caterina perché diceva che aveva del baccalà senza daziare.

Le tre si risolsero infine a rimettere le rispettive querele, di modo che il pretore sentenziò non esserci più luogo a procedere, condannando però le donne al pagamento delle spese processuali (Il documento è tra le carte del CSP).

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Conclusioni

Consegnamo questa ricerca ai portorecanatesi, che della sciabica hanno fatto l’esperienza diretta o che l’hanno soltanto vista in azione o, e qui ci riferiamo ai più giovani, ne hanno solo sentito parlare (e forse nemmeno quello).

Per noi si tratta comunque di un pezzo non dei meno preziosi della nostra storia: quella barca e quella rete sono stati gli strumenti di un lavoro duro, spesso ingrato, che a volte ha prodotto soddisfazioni ed altre volte ha dato amarezze.

Lo abbiamo già scritto in qualcuna delle pagine precedenti e qui vogliamo ribadirlo: fuori dagli stereotipi che tanto piacciono a certi neofiti della ricerca storica, il cui lavoro è quasi sempre fonte di confusione perché sorretto solo da un dilettantismo ricco di presunzione, resta che la vicenda secolare degli “sciabbegotti” è uno specchio importante della storia della nostra comunità.

È con questa convinzione che abbiamo lavorato per fornire anche su questo tema un punto di riferimento a chi vorrà interessarsene in futuro.

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