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 | 
| La
            parola italiana sciabica (dialetto sciabbega, da cui
            il derivato sciabbegottu per sciabicotto) ha la sua
            origine nella lingua araba nella quale il termine šabaka
            indica la rete a due ali con sacca centrale. Da
            qui (dall’area linguistica araba in generale, in particolare
            quella  relativa
            all’Africa Settentrionale) il vocabolo dovrebbe essere passato
            prima nel siciliano per poi invadere le coste italiane e tutto il
            quadrante marittimo che interessa la Penisola, visto che si tratta
            di un tipo di pesca praticata ovunque nel Mediterraneo. 
             E
            non solo nel Mediterraneo. Per
            quanto riguarda l’Italia, Manlio Cortellazzo e Paolo Zolli (Dizionario
            etimologico italiano, vol. 5/S-Z-, Zanichelli, Bologna 1988),
            che definiscono la sciabica “rete a strascico per piccole
            profondità, costituita da due ali e un sacco a maglie diverse”,
            scrivono che la voce è attestata già da M. Buonarroti il giovane
            nel 1619 e che, in epoca sicuramente assai anteriore essa si trova
            nelle forme sciaveca e  sciabica negli Statuta, privilegia et consuetudinis
            civitatis Cajetae (Gaeta).  Indicazioni
            più ricche si trovano certo nel Grande Dizionario della Lingua
            Italiana di Salvatore Battaglia ( Torino 1996,vol. XVIII,
            pp.2/3) dal quale sono tratte le citazioni sotto trascritte.  Sulla sciabica intesa come rete: Soderini (Avendola la natura provvista di doppia corteccia - la pianta del sughero - …si dirizza a far pianelle contro all’umido, a far girelle che tengono sospese le sciabiche et altre reti nell’acqua dirette); il sopra citato Buonarroti (Ecco reti passar, quai chiuse e quali / adattate ed acconce in braccio altrui, / come se ‘l giacchio qui trar si dovesse, / o le sciabiche tendere o le ragne); Reina (Si pigliano forse i pesci con la medesima maniera tutti? Certo che no! Si prendono con la sciapica, s’ingannano con l’esca, s’incarcerano con le nasse); Daniello Bartoli (Avendo ogni moltitudine ‘bonos et malos’, come disse Cristo dei pesci tratti con la sciapica, in cui figurò la predicazione dell’Evangelio); lo stesso (e si entra un gran tratto entro mare, e dalla barca gettando la sciabica, si pianta nell’acqua un gran ricinto di mura, e vi si fabbrica una prigione. Fondamenta sono i piombi, che radono il fondo; le cime de’ suveri, che stanno a galla, la compiono. Indi dal lito se ne tirano i capi, e si raccoglie la prigione insieme, e i prigionieri); Targioni Tozzetti (Tralla preda che fecero certi pescatori genovesi colla sciabica, osservai delle torpedini assai piccole); Bresciani (In mare gittaron sciabiche, nasse, rezze e tramagli, ma don Sebastiano non fu trovato né vivo né morto); D’Annunzio (I sugheri che pendono dalla sciabica stesa ad asciugare dopo la pesca); Moretti (Una vasta rete che, trattenuta dai pali, chiudeva uno spazio di mare, v’imprigionava il pesce, lo serrava, lo premeva man mano che uno dei pescatori di sciabica, con le gambe nude nell’acqua, stringeva le reti abbondanti). Sulla
            sciabica come imbarcazione:  
 | voce
            la sentì anche Mingo che stava seduto dentro la sciabica in secco a
            tagliare un sughero); Viani (La ciurma della sciabica non ha
            limitazione di numero; quanti rematori possono entrare in una
            imbarcazione sconquassata, tanti sono gli sciabicotti). Si
            va dalla fine del Trecento (Guglielmotti) a noti autori del XX
            secolo. Da sciabica, notiamo anche questo, sono stati tratti
            i diminutivi sciabichèlla e sciabichétto nonché il verbo sciabicare;
            quest’ultimo termine significa, certo, pescare con la
            sciabica, ma è presente anche nel gergo della Marina Militare, come
            viene qui attestato dal Comandante Nando Carotti: Il ‘gergo
            marinaresco’ italiano è un misto di termini e modi di dire che
            risalgono ai tempi di costituzione delle più antiche marinerie: e,
            date la geografia della Penisola e le tradizioni delle popolazioni
            rivierasche, non è difficile immaginare che esso risulti, allo
            stato degli atti, ciò che di comune hanno avuto fin dall’inizio
            della storia della navigazione soprattutto i liguri, toscani,
            campani, veneti, cioè i marinai delle quattro Repubbliche Marinare,
            con  qualche inserimento
            sardo e siciliano (Marina Sarda e Marina Borbonica). Nel caso
            specifico dell’interesse che suscita nel lettore il presente
            argomento, la sciabica, ecco alcuni esempi di come il termine si sia
            per così dire allargato nel gergo marinaresco: un marinaio ‘in
            franchigia’, cioè in libera uscita per qualche ora, può dire ai
            commilitoni che va ‘a sciabicare’ e tutti capiscono che intende
            percorrere su e giù le strade alla ricerca d’una ragazza; quando
            comandavo una squadriglia di dragamine, ricevuto l’ordine di
            operazioni, informavo il mio tenente (il secondo) che andavamo ‘a
            sciabicare’ nella zona tal dei tali; quando, in tempo di guerra,
            si ‘pettinava’ il mare in formazione di varie unità alla
            ricerca di sommergibili nemici si sapeva bene quanto logorasse i
            nervi ‘sciabicare’ anche per parecchi giorni. È corretto
            avanzare l’ipotesi che il termine ‘sciabica’ sia stato
            introdotto nella Marina Militare Italiana dai suoi elementi liguri,
            e specificatamente genovesi, anche se tutti gli uomini di mare sono
            estremamente ‘campanilisti’ e non hanno mai perduto del tutto
            quella sottile rivalità sommersa che ancora oggi fa dire, ad
            esempio, da un genovese, parlando di un veneto, ‘quello lì è
            della Marina Veneta’. Ciò non toglie che si facciano tanto di
            cappello l’un l’altro. Andiamo
            all’estero. In serbo/croato, come succede per l’italiano e il
            nostro dialetto, c’è un solo termine per indicare sia la rete che
            la barca, vale a dire šabaka, in linea con l’arabo.
            Tuttavia, qualche vocabolario da anche neka mreža potegače per
            la prima e neka ribarska barka per la seconda. Doppi esiti linguistici in Francia e in Spagna. Nel Vocabolario Francese/Italiano di A.Sergent e A. Strambio (tomo secondo, p.944) si trova la voce Xabega, così spiegata: “Specie di rete composta da due ali e un sacco nel mezzo, con la quale gli spagnoli prendono le sardine”. Stessa
            spiegazione, questa volta nel Nouveau Larousse Illustré (tomo
            7), per Xabeba. | Il
            francese, però, utilizza anche traîne e lo spagnolo non è
            da meno con traìna o traìña per la rete mentre trainera
            è la barca. Fin qui, siamo nei limiti del Mare Nostrum, ed è
            logico che si trovino termini, come quelli appena citati, che
            provengono diritti dal latino; nel caso che ci riguarda vanno
            scomodati il verbo trahere o il sostantivo trahea, da
            cui anche l’italiano tratta. Tuttavia,
            i temini sopra trattati per il francese e lo spagnolo servono ad
            indicare, di solito, il tipo di pesca a strascico in generale, nel
            quale rientra certo la pesca a sciabica, ma esistono anche vocaboli
            più specifici, che sono segnalati da Mario Ferretti, curatore di un
            Inventario degli attrezzi da pesca usati nelle Marinerie Italiane,
            del quale non conosco l’anno di pubblicazione, edito dal Ministero
            della Marina Mercantile, Direzione Generale della pesca marittima..  Ferretti 
            segnala senne per il francese e red de cerca
            per lo spagnolo (per la rete) e, rispettivamente, senne de plage
            e arte de playa per la così detta sciabica da spiaggia. Il
            fenomeno si è esteso ai mari settentrionali del continente, poiché
            troviamo fischtrawler in tedesco e trawl-net in
            inglese, dove la radice latina si scorge con facilità. Anche qui va
            osservato, come sopra, che i due vocaboli riguardano la pesca a
            strascico in generale e allora, ancora una volta, ci soccorre
            Ferretti, che per l’inglese ha scovato seine net (per la
            rete) e beach seine per sciabica da spiaggia. La
            ricerca, se continuata, darebbe certo risultati interessanti e anche
            sorprendenti, ma non è esattamente ciò che mi sono proposto in
            questa sede, volendo limitarmi ad accennare soltanto alla
            caratteristica di universalità del tipo di pesca reso
            oggetto del nostro lavoro. Perciò torno verso casa, in Adriatico, dove la sciabica era praticata con particolare intensità. Il fatto, però, non ha prodotto una consistente letteratura in proposito. Pochi e insufficienti, per quello che mi è risultato, gli studi effettuati fino ad ora, rare le presenze nella stessa poesia dialettale. A San Benedetto del Tronto, per esempio, il Circolo dei sambenedettesi ha pubblicato nel 1993 un bellissimo studio di Francesco Palestini sul dialetto della città; le numerose foto inserite nel volume sono tutte commentate con brani poetici (lancette, retare etc..) tranne quella degli sciabbecùtte, forse perché i curatori non ne hanno trovate (o non ne hanno trovate di significative). In ciò a Porto Recanati siamo stati più fortunati, come si potrà leggere nel seguito di questa pubblicazione. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 | In
            ogni modo Palestini ha dedicato alla voce sciàbbeche uno dei
            commenti più sostanziosi della parte del libro relativa al gergo
            sambenedettese. Lo ripropongo per intero: Sciàbbeche,
            sciabica: imbarcazione lunga, manovrata a remi e usata per la pesca
            strettamente costiera. La sciabica lasciava a terra parte della
            ciurma e s’allontanava verso il largo ‘filando’ un cavo (reste)
            al quale all’occorrenza veniva aggiunto un secondo, un terzo,
            ecc..; dopo l’ultimo cavo e legata ad esso, veniva calata in mare
            la rete distesa a largo arco, quasi parallela alla spiaggia; poi la
            barca tornava a riva ‘filando’ altrettante reste che
            nell’andata. Quivi, gli sciabbecùtte a forza di braccia ed
            aiutandosi con gli strùppele, tiravano i cavi a terra
            parallelamente da ambo le parti, trainando la rete e restringendo
            mano a mano le distanze fra le due ‘squadre’. Era difficile che
            il pesce sorpreso nello specchio d’acqua potesse sfuggire: la rete
            era tenuta in alto da sugheri e distesa verso il fondo da piombi (le
            mazze) e terminava in un ‘sacco’ (lu sacche). Tale
            pesca era particolarmente praticata nelle stagioni in cui i pesci
            migrano a branchi. Il
            vocabolo strùppele (da noi stròppolo) indica la
            cordella terminale del collare dello sciabicotto, annodata al cavo
            di traino (viene dal greco stróphos > latino stroppus,
            con il significato di ‘corda’). Altri
            termini dialettali rilevati nell’Inventario
            di Mario Ferretti, che elenco senza un ordine preciso di
            riferimento: tratta, bragagna, arte da masse, sciabaccone, sciabacca,
            palandare, trattolina, sciabichello, gorro. Una ricerca sulla loro
            provenienza non è materia di questo lavoro, ma cercherò di
            svolgerla prima possibile. Non posso non terminare questa fin troppo rapida rassegna linguistico/filologica senza trascrivere la definizione di sciabica presente nel vocabolario dialettale purtannaru (Fattu pe’ descure – Porto Recanati 1996) redatto anche dal sottoscritto in collaborazione con Marino Scalabroni, scusandomi per l’autocitazione: Sciàbbega, sciabica: tipo di barca da pesca strettamente costiera. Di forma allungata, agile al tocco dei remi, con fondo ampio ed ampio pianale di poppa per le reti. Sulla prua aveva il tipico ornamento sacro costituito dalla croce ed i simboli della passione (eredità dei pescatori di Galilea). Era sospinta dai remi, il poppiero di destra (remu da preme) fungeva da timone. L’equipaggio era formato da 9/10 uomini, più i mozzi. Il riparto del pescato era suddiviso per un quarto al padrone della barca, mentre i restanti tre quarti all’equipaggio. 
 
 
 
 
 
 
 
 | 
| Prima di accompagnare il lettore tra storie di
      sciabbegotti e nell’esame minuzioso della barca e della rete usate per
      l’esercizio del loro mestiere, nonché nelle tecniche di pesca e via …sciabicando,
      mi avvalgo di nuovo dell’Inventario degli attrezzi da pesca usati nelle
      Marinerie Italiane perché i meno provvisti in materia abbiano almeno
      qualche ragguaglio essenziale sull’argomento di cui qui si scrive.
      Quanto si sta per leggere sarà oggetto di molti richiami nelle pagine che
      seguono. La
      sciabica è un antichissimo tipo di rete da pesca usato in passato in
      tutte le marinerie. Veniva utilizzata in modo completamente manuale da un
      elevato numero di persone (una dozzina). La sciabica è formata da varie
      pezze di rete di forma e dimensioni di maglie diverse. Sulle braccia si
      hanno maglie abbastanza grandi che diminuiscono gradatamente verso il
      centro della rete. Le braccia sono molto lunghe se paragonate al corpo
      della rete e al sacco. Questi ultimi anzi in alcuni casi sono così
      ridotti da essere semplicemente un prolungamento delle braccia. L’apertura
      verticale di bocca è assicurata dai galleggianti sulla lima da sugheri e
      dai piombi sulla lima da piombi: mentre la apertura orizzontale è
      ottenuta col particolare metodo di calo e di tiro. Secondo
      il regolamento di esecuzione della 963 (M.M.M. 1980) la sciabica deve
      avere maglie di apertura non inferiore a mm 40. Ciò perché la sciabica
      è accumunata alle reti a strascico da cui comunque nettamente si
      differenzia per il metodo di calo in mare e per la velocità di tiro che
      è indubbiamente più bassa. La
      selettività della sciabica è quindi nettamente diversa dalla selettività
      della rete a strascico. A velocità bassa infatti le maglie restano più
      aperte e quindi il pesce ha maggiori possibilità di fuga…. 
 | 
| Un nome circolava da sempre nella memoria collettiva degli sciabbegotti
      evocando posti lontani, esotici, ricchi di fascino e di mistero:
      Lagobei. Con una sola indicazione per lo smarrito ricercatore che lo sente
      pronunciare per la prima volta: a sud di Suez. Come dire, quasi
      nell’universo. Si parlava di sciabbegotti  andati a cercar fortuna in terre lontanissime, di viaggi
      compiuti su vecchie carrette del mare, tra grandi sacrifici e pericoli, di
      pesche miracolose e pure di delitti. Materia buona per una serie intera di
      gialli alla Jessica Fletcher, la gentile signora in 
      giallo della televisione americana. Su
      quel nome, a un certo punto, un dubbio: forse bei è da scrivere bay;
      proviamo allora a cercare Lagobay o magari Lago Bay. E giù con il dito a
      scorrere sull’atlante geografico lungo le coste africane da un oceano
      all’altro.  Nascita
      di un sospetto, originato dalla consultazione di un atlante pubblicato
      prima della indipendenza del Mozambico, scovato con tanta fortuna nella
      biblioteca del Liceo Campana di Osimo: vi si legge, poco sotto Lourenço
      Marques, la capitale (oggi Maputo), scritto fino fino: Baia di Delagoa.
      Vuoi vedere che ci siamo? Non può essere che quel sito fosse conosciuto
      come Delagoa Bay, diventato Lagobei nella pronuncia dei
      nostri sciabbegotti, cui non si poteva certo rimproverare la scarsa
      conoscenza dell’inglese o del portoghese? La
      conferma che l’ipotesi non è per niente peregrina arriva subito da due
      fonti: l’ufficio anagrafe del Comune di Porto Recanati e l’Ambasciata
      della Repubblica del Mozambico in Italia. Il
      primo sforna una lista di 24 persone (23 uomini, in maggioranza con la
      qualifica di marinaio, e una donna) che tra il 1899 e il 1900 hanno
      richiesto e ottenuto il passaporto per destinazione Delagao Bay.
      Tra il novembre e il dicembre 1899 sono stati rilasciati passaporti a:
      Camilletti Teodoro, Cionfrini Bartolomeo, Stefanelli Francesco, Stefanelli
      Giuseppe, Stefanelli Nicola, Sorgentini Biagio fornaio, Feliciotti Renato
      pescivendolo, Scalabroni Vincenzo, Consolini Luigi e Monachesi Saverio. Tra
      gennaio e febbraio del 1900 ottennero invece il documento: Scalabroni
      Marone (accompagnato da Scalabroni Angelo di anni 98), Giorgetti Fortunato
      (accompagnato da Gaetini Andrea di anni 16), Casali Giuseppe, Pandolfi
      Nicola, Giri Paolo, Michelini Toto (Antonio Giuseppe) –canepino-,
      Scartozzi Luigi, Rosati Antonio, Flamini Vittorio, Stefanelli Pasquale,
      Giri Filippo e Gaetini Vincenza in Moretti, massaia di anni 90. Fuori
      degli addetti ai lavori (vale a dire alle operazioni di pesca vere e
      proprie), è da notare la presenza di un canepino, cioè dell’artista
      del cordame, elemento giudicato indispensabile per una spedizione così
      complessa, di un fornaio e di un pescivendolo. Ma
      ciò che stupisce sono i due vecchi, la donna novantenne e Angelo
      Scalabroni, che ha quasi un secolo di vita. L’altra
      informazione è giunta, come ho accennato sopra, per via diplomatica. È
      l’Incaricato d’Affari che il 14 giugno ’99 mi scrive
      dall’Ambasciata del Mozambico in Roma: … In riferimento alla Sua
      richiesta ho il piacere di informarLa che nel secolo scorso l’attuale
      Baia di Maputo si chiamava Delagao Bay ed era frequentata da marinai e
      pescatori provenienti dalla varie parti del mondo. Non è quindi da
      escludere la presenza italiana in un luogo di una certa importanza storica
      per il commercio e lo sviluppo economico del sud del Mozambico e del
      Sudafrica. La così chiamata Delagao Bay si trova nella città di Maputo,
      capitale della Repubblica di Mozambico, dove esiste un archivio con
      informazioni documentate sulla vita dell’attuale città di Maputo nei
      secoli passati. Un
      peccato non poter approfittare del suggerimento relativo all’archivio,
      ma ancora oggi andare in Mozambico non è come fare una gita a Loreto. Come
      che sia, i nostri andavano di sicuro a lavorare in un posto dove la loro
      tecnica di pesca e la loro esperienza, coniugate con la ricchezza di pesce
      dei mari tropicali, potevano consentire guadagni piuttosto lauti. In un
      ambiente non ideale, anche questo va pur detto, rispetto alle abitudini
      dei portorecanatesi. Si pensi che a Lourenço Marques - Maputo, 26 gradi
      di latitudine, le temperature medie vanno da 18 a 25 gradi, con 779
      millimetri medio annui di precipitazioni, un coefficiente annuo di umidità
      di 0,66. In
      compenso, non doveva esserci troppa concorrenza; nessuna, credo, dagli
      indigeni, se è vero che ancora negli anni Cinquanta del XX secolo, la
      pesca era praticata con mezzi rudimentali e dava assai scarsi risultati.
      Così ci assicura, per esempio, Luigi Visintin, autore di un documentato Continenti
      e Paesi del 1953, edito dall’Istituto Geografico De Agostini di 
      Novara. Di
      queste avventurose spedizioni si occupò pure V., il nostro collaboratore
      amante dell’anonimato (vedi Potentia n°4), desiderio che
      continuiamo a rispettare. Riporto quanto egli scriveva sull’argomento,
      primo tra tutti, intorno alla metà degli anni ’80: Ma ci fu un tempo
      che sciabbegotti di Porto Recanati andavano a far la stagione nientemeno
      che in Africa, a sud di Suez, in una località chiamata Lagobej. Un fatto
      che ormai ricordano solo in pochi, i più vecchi, che accadeva intorno
      alla fine del secolo scorso e al principio del nuovo: durante i lunghi
      mesi invernali, quando maggiormente si fa sentire il peso della noia e il
      desiderio di far qualcosa per la famiglia, un gruppo di sciabbegotti
      decide di tentare l’avventura africana, recandosi nei ‘mari rosci’,
      colà richiamati dai discorsi di altri portorecanatesi che hanno
      attraversato il canale egiziano a bordo di velieri, descrivendolo ricco di
      pesce azzurro. S’imbarcano ad Ancona e le prime volte portano con loro
      soltanto la rete. Poi, un anno pensano di portarsi laggiù anche una
      sciabbega: si era intorno al 1905. Sono Santì Longo (il nonno di Mario el
      Cuciniero), el vecchio de Pumì (Monachesi Giuseppe), Fortunato Giri (il
      padre de ‘Ntò Longo), Pacì (Bufarini Pacifico), Saeretto de Nanà (Monachesi
      Saverio), Cellerì (Fortunato Stefanelli). Quella, però, fu l’ultima
      campagna perché il povero Cellerì, che era il cuoco della compagnia e
      s’era recato al villaggio a far la spesa, venne ucciso dai negri e il
      corpo fatto sparire. Che
      storia. Chiarito che Longo sta per ‘alto’ (a beneficio del
      lettore non portolotto), c’è però da aggiungere che forse i morti
      furono due, anche se non ho alcuna certezza che il fatto raccontato da V.
      e quello che segue siano avvenuti nel corso della stessa spedizione. Dunque,
      pare che un certo giorno ci sia stata una grossa discussione tra Fortunato
      Giri e un altro sciabbegotto di cui scriverò solo l’iniziale del
      soprannome, ‘M’. Interviene Mariano, il fratello di Santì Longo, che
      si becca una coltellata mortale da M, il quale, per questo, viene
      imprigionato dalle autorità portoghesi (il Mozambico era una colonia
      lusitana). Qualche tempo dopo, uscito dal carcere, l’assassino vince
      molti soldi a una lotteria o comunque diventa ricco (pare in America del
      Sud dove si era nel frattempo trasferito) e torna a Porto Recanati. Santì
      Longo non ha dimenticato. Va in un’osteria e si fa dare due bicchieri da
      mezzo litro, belli grossi e pesanti. Poi si reca nell’osteria dove sa di
      trovare M e lo centra con una bicchierata che gli spacca la bocca. Gli
      scagnozzi di M, che poteva evidentemente permettersi delle guardie del
      corpo, fanno per dare addosso a Santì; questi mostra il suo coltello e
      loro, spaventati, si dileguano portandosi via M. Dopo qualche mese,
      conseguenza della grave ferita infertagli, M muore. Non
      è finita, perché la voce popolare riporterebbe anche la scomparsa di un
      terzo sciabbegotto, probabilmente in altro tempo e circostanza rispetto
      alla sfortunata ‘impresa’ del 1905, ma per quest’ultimo caso gli
      elementi a disposizione, salvo l’indicazione che lo scomparso doveva
      essere ‘uno della Cocchina’, sono davvero scarsi. La
      sciabbega sbarcò in Argentina alla fine del XIX secolo grazie a un
      portorecanatese, così almeno raccontano i vecchi e pure i nostri che
      vivono laggiù, nella grande Repubblica sorella. Si
      tratta di Giovanni Bronzini, emigrato intorno al 1880, che nel 1891 da
      Buenos Aires si trasferì a Mar del Plata. Quando si accorse che gli
      argentini praticavano la pesca usando i cavalli come forza trainante,
      costruì una barca, la chiamò Marchegiana e insegnò a tutti come
      impiegarla per la pesca a sciabica. Giovanni ebbe quattro figli, tra cui
      Teodoro, divenuto un grande personaggio della politica argentina e a lungo
      sindaco di Mar del Plata. Sarà
      certo assai istruttivo poter fare, un giorno, un’analisi comparata tra
      la pesca a sciabica sulla costa occidentale e su quella orientale
      dell’Adriatico. E’ un compito per il quale chiamo in soccorso gli
      amici della rivista sambenedettese Cimbas, egregiamente condotta da
      Ugo Marinangeli e Gabriele Cavezzi. Sono certo che raccoglieranno
      l’appello; per ora riporto una osservazione di Pietro Brattanich, Regio
      Agente Consolare a Zara, inserita in un suo studio Sulle condizioni
      della colonia italiana di Zara pubblicato nel Bollettino Consolare,
      volume VII, parte II, pp. 382/391, dicembre 1871. Poche righe, che però
      mi sembrano aprire a una storia che sospetto straordinaria: Ultima
      finalmente, ma non di minore entità, tra le industrie esercitate qui
      dagli italiani, è la pesca. Ogni anno per nove mesi scorrono sul mare che
      lambe questo distretto varie barche peschereccie di Chioggia, che, col
      metodo delle tratte, forniscono il pesce al mercato di Zara. Con ardui
      travagli e privazioni, questi valenti marinai, il cui istinto generoso li
      consiglia a volte ad atti di coraggio ammirabile, giungono a trarre dalla
      loro professione guadagni, se non larghi, almeno sufficienti alla loro
      sussistenza. Convennero qui nel 1870 sette compagnie, formate da 21
      navigli, con 149 persone d’equipaggio. Una
      ricerca di grande interesse è stata condotta per il mondo anglosassone e
      persino per la Tasmania e il Giappone, da Alberto Giattini. Eccone, in una
      sintesi, il risultato, con l’avvertenza che questo aspetto sarà
      sviluppato nei prossimi numeri della nostra Rivista. Chi
      pensava che la sciabica fosse una prerogativa della costa marchigiana
      decisamente si sbagliava. Cercando nei documenti presenti su Internet (ma
      non solo) pubblicati in lingua inglese, si scopre che tale tipo di pesca,
      definito ‘beach seine net’ (alla lettera: rete trainata dalla
      spiaggia), ha dei corrispettivi molto simili, se non identici, in varie
      parti del mondo, alcune anche molto lontane da noi. Verosimilmente
      l’ingegno umano, a parità di condizioni, ha determinato soluzioni tra
      loro simili. Quello
      che spesso rimane difficile da capire, in molti documenti in lingua
      inglese, è se il tipo di rete da pesca manovrata da terra corrisponda
      alla sciabica (con due cime legate ai bracci ed un 
      sacco, tanto per intenderci) o è costituita da una semplice rete
      rettangolare, calata partendo da terra con andamento a ferro di cavallo, e
      poi tirata in secca da due gruppi di pescatori (anche questo sistema,
      effettuato spesso con reti da posta e soprattutto da pescatori non
      professionisti viene a volte utilizzato). Pertanto, per rimanere nel
      certo, possiamo elencare alcuni documenti che si riferiscono sicuramente
      al tipo di pesca in questione. Rimane
      difficile stabilire quando effettivamente tale tipo di pesca ha iniziato a
      esistere. Quello che possiamo ipotizzare è che sia molto antico,
      soprattutto per la estrema semplicità del sistema. Se si considera
      inoltre che ancora oggi gli indiani della tribù dei Swinomish, presenti
      nello stato di Washington (USA) e nel confinante nord-ovest del Canada,
      usano questo tipo di rete e considerando con quale precisione tali
      popolazioni hanno tramandato per secoli le loro tradizioni, viene da
      pensare che la stiano usando veramente da molti anni. Comunque,
      una prima definizione fu data da tale Thomas Pennant nel 1769, che ne
      definiva le modalità per i pescatori che operavano alla foce del fiume
      Towy, nel Galles del sud (Inghilterra). Purtroppo non siamo riusciti a
      reperire tale documento, ma sembra che in quella zona la ‘beach seine
      net’ serva tutt’ora a catturare salmoni e trote di mare e costituisca
      un elemento trainante dell’economia locale. Per
      tornare nel continente americano, dove notoriamente non si lascia niente
      al caso, la sciabica è stata argomento di studio, commissionato in questo
      caso dalla Società dei Pescatori del fiume Fraser, situato nel Labrador
      (Canada). In una ricerca sui vari metodi di pesca, di cui ben sei dedicati
      alla ‘beach seine net’, questa si rivela un’ottima metodica nella
      cattura dei salmoni, con una quantità praticamente inesistente di
      ‘decessi’ (il pesce non muore nella cattura, potendosi mantenere più
      a lungo), caratterizzata dalla presenza di pochi avannotti e con il pesce
      scarsamente deteriorato esteticamente (aspetto importante per un pesce
      prelibato). Tra gli aspetti negativi viene segnalata la difficoltà di
      utilizzo derivante dalle asperità del fondo marino (la nostra ‘presura’)
      e la morte rapida dopo la cattura per quella qualità di pesce, definita
      da ‘stress’. Sempre
      in ambito di ricerca sono state definite delle formule per calcolare
      l’area delimitata dalla rete che potrebbe tornare utile, sapendo la
      densità media di popolazione ittica di una data zona, 
      e quello che ci si può aspettare dalla calata se effettuata a
      caso. Dai documenti ritrovati su Internet risulta che la
      sciabica costituisce anche materia di insegnamento presso il Marine
      Science Centre di Pulso, nello Stato di Washington, dove i ragazzi della
      scuola superiore possono effettuare dei corsi di biologia marina; il
      pescato viene rigorosamente rilasciato o mantenuto in vita e costituisce
      oggetto di osservazioni per gli studenti presso il locale acquario. Relativamente
      al continente australiano sono invece reperibili documenti provenienti
      dalla Tasmania dove la sciabica, dotata di sacco o di una parte rigonfia,
      può essere consentita purché non superi i 50 metri di lunghezza, abbia
      le maglie non inferiori a 30 mm. e per essere utilizzata richiede una
      particolare licenza. Sempre dietro il rilascio di licenza può essere
      utilizzata anche da pescatori non professionali. Per
      finire, la rete della sciabica viene prodotta, pensate un po’, persino
      in Giappone dove una ditta in attività sin dal 1817, che produce reti da
      pesca di qualsiasi genere e le invia in tutto il mondo, è ancora attiva
      nella produzione di reti per la ‘beach seine net’. Vengono spiegati i
      nodi usati, il tipo di filo e i metodi di misurazione della lunghezza e
      della profondità della rete. Questo metodo viene consigliato dalla ditta
      per catturare sardine, sgombri ed altre qualità di pesce atlantico. Questa
      è solo una breve carrellata di curiosità reperite spulciando un po’
      qua e un po’ là, non ha sicuramente la pretesa di essere una ricerca
      esauriente. Può comunque costituire lo stimolo per approfondire
      ulteriormente l’argomento. In
      Francia, la pesca con la sciabica (senne) era parecchio praticata
      nell’isola d’Oléron (costa atlantica, poco a nord del grande estuario
      della Gironda). La particolarità era che qui non si usava nessuna barca.
      I pescatori utilizzavano una rete con dei sugheri nella parte alta e dei
      piombi in quella bassa; da ogni lato della rete erano fissati due bastoni.
      Queste notizie le traggo da un lavoro pubblicato su Internet (www.cabuzel.com/oléron/phsenne.html),
      e procuratomi dagli amici Franck e Nathalie Endrivet, dove si legge anche
      che la lunghezza della rete dipendeva dal numero dei pescatori impegnati
      nella pesca. Meglio se si era in parecchi, perché uno dei segreti di una
      buona pesca stava nella velocità dell’operazione di ritiro a terra
      della rete; più veloci si era meno pesce riusciva a sfuggire alla
      cattura. Si
      pescava spesso di notte, poiché
      in quelle ore il pesce si avvicina alla costa. I pescatori collegati a uno
      dei due bastoni entravano in acqua mantenendosi in posizione
      perpendicolare alla riva. Gli altri li seguivano mentre i primi, giunti a
      una certa distanza, compievano un movimento rotatorio per portare la rete
      parallela alla riva. Fin qui si poteva procedere con relativa lentezza; il
      pesce non si rendeva ancora conto del pericolo. Ma occorreva non fare
      troppo rumore. Quando invece si trattava di ricondurre a riva la rete,
      allora bisognava lavorare in fretta. In questa fase le due squadre si
      avvicinavano, arretrando, e così si formava una sorta di tasca con la
      rete. Era qui che il pesce rimaneva intrappolato.  Michel
      Lopez (siamo sempre in Francia, questa volta sul lago di Grand-Lieu, zona
      bretone della Loira) ha scritto una storia interessante sulla disputa tra
      i monaci del convento di Buzay e certi signorotti locali a proposito dei
      diritti di pesca alla senne nel lago in questione. Non riproponiamo
      questa storia, non disponiamo dello spazio necessario, ma è opportuno
      sottolineare che la pesca alla sciabica si svolgeva anche nei laghi e
      soprattutto che il privilegio di esercitarla era considerato davvero non
      da poco. Conserviamo tra le nostre carte, nella sede del CSP, il lavoro
      del signor Lopez, a disposizione di chi vorrà approfondire l’argomento. Un’ultima
      nota sugli sciabbegotti girovaghi del Porto, che ci riporta in Mozambico.  Chi
      non ricorda Nemesio Castellani, più noto con il soprannome di Trentino?
      Personaggio estroso, rappresentato più volte in maniera inimitabile da
      Remo Scocco sul palcoscenico della rivista di carnevale, deceduto in Osimo
      il 28 luglio 1971, resta nel ricordo popolare inscindibile dalla moglie
      Nannina la Quadrata e dal compagno di merende in osteria Gujè Occhibelli.
      Bene, Nemesio è nato a Lourenço Marques, come non mancava mai di
      ricordare (“Mia madre era ballerina e io sono nato a Lourenço Marques”,
      diceva, con una punta di orgoglio). | 
| Per
      alcune epoche dispongo di dati certi sulla quantità di barche impiegate
      nella sciabica a Porto Recanati, sugli sciabbegotti in attività,
      persino sulla quantità di pesce pescato. I
      primi documenti sulla sciabica sono in alcuni atti amministrativi del
      Comune di Recanati dei primi decenni del XIX secolo. Purtroppo, a suo
      tempo, non presi nota dell’esatto sito dei succitati atti
      nell’archivio comunale recanatese, ma ricordo bene che in una relazione
      firmata dal Gonfaloniere Monaldo Leopardi, si legge che da noi c’erano
      una ventina di paranze e qualche sciabica. Si dovrebbe essere
      intorno al 1825. Nel 1829/’30, invece, le sciabiche portorecanatesi che
      risultano dal prospetto del Numero dei legni nazionali che hanno
      esercitato la pesca erano otto. Di
      chi fossero le paranze è noto: diverse appartenevano certo a Crispino
      Valentini, ras del Porto; le altre erano degli Jorini (Francesco Antonio e
      poi il figlio Primo), di Antonio Giorgetti e di pochi altri che erano
      riusciti a mettere la testa fuori dai confini della generale miseria dei
      marinai dell’epoca. Ma
      le sciabiche? Nessun documento, almeno tra quelli conosciuti, ci attesta i
      nomi dei proprietari, ma non credo sia sbagliato immaginare che i
      portolotti citati sopra ne possedessero qualcuna e che, certo a prezzo di
      grandi sacrifici, anche gente di nome Feliciotti, Giri, Matassini, Velluti
      e via percorrendo i cognomi più frequenti nella comunità, disponessero
      di un legno per rimediare il sostentamento delle rispettive famiglie. Una
      cifra sicura non la leggiamo nemmeno nella relazione del segretario
      comunale Luigi Petrocchi sul censimento generale della popolazione del
      1901. Nel capitolo riservato alla classificazione per condizione e
      professione il funzionario ha annotato la voce pescatori con
      accanto il numero 375. Non ha fatto la distinzione tra i pescatori
      d’altura, o della grande pesca, e quelli di costa o col piede a terra
      come si definiscono sciabicotti, nassaroli e simili. E
      allora ci viene in soccorso don Francesco Jorini, parroco del Porto dal
      1892 al 1907, un personaggio di grande spessore, che, tra le sue molte
      iniziative, faceva pure da corrispondente del mensile La pesca ,
      pubblicato a San Benedetto del Tronto, organo della Federazione
      Marchigiana delle Società per la Pesca, giornale di chiara impronta
      cattolica: per le inserzioni occorreva rivolgersi all’amministrazione
      della Libreria San Giuseppe, di S. Benedetto, e appena sotto il titolo si
      leggeva , come richiamo inequivocabile all’orientamento religioso del
      foglio, In verbo tuo laxabo rete. Ave Maris Stella. Nel
      primo numero del giornale (1902), il corrispondente da Porto Recanati
      (firma in sigla: I = Iorini) scrive: Il numero dei pescatori di Porto
      Recanati è di 375 e dei pescivendoli di 114: fra i legni da pesca si
      annoverano N. 10 barchetti, N. 40 lance, N. 7 sciabiche ed il pesce
      sbarcato nel mese di Novembre senza tener conto delle sciabiche perché il
      pesce di queste si vende a ‘occhio’, è stato dai barchetti in media
      Cg. 3.550, dalla lance Cg. 32.562 e dalle paranze di S. Benedetto Cg.
      4692. Dunque,
      il pesce delle sciabiche si vendeva a occhio. Intanto è evidente
      che anche a quei tempi molta parte del prodotto non passava per i
      controlli del mercato. E poi, la vendita a occhio, era forse un
      sistema per ricavare il massimo possibile dal pescato. Non indaghiamo. Il
      segretario comunale Petrocchi si riscatta in occasione del censimento
      successivo, il quinto, svoltosi nel 1911. Dopo aver annunciato che tra di
      noi ci sono 296 tra marinai e pescatori, meno che dieci anni prima quindi,
      scrive che la nostra marineria dispone di 8 sciabiche con 80 pescatori.
      C’è stato un calo anche in questo settore rispetto al 1901, quando le
      sciabiche erano 10 e gli sciabicotti 100 ( La precisazione viene fatta
      nella relazione del 1911 e se don Francesco non si era sbagliato, nel giro
      di un anno, dal 1901 al 1902, il numero delle sciabiche era dunque
      diminuito di tre unità per poi recuperarne una nel 1911. Petrocchi
      è certo che l’industria della pesca è cominciata al Porto tra il 1000
      e il 1200, epoche in cui sembrava sorgesse presso la nostra spiaggia un
      discreto numero di case e capanne, quasi tutte abitate da gente di mare e
      da pochi commercianti. Da chi ha preso queste notizie, il segretario
      non lo rivela, come resta nel vago la sua affermazione circa la presenza
      di una struttura portuale presso la foce del Potenza (sull’argomento è
      comunque tornato di recente lo storico Vincenzo Galiè e la discussione è
      aperta tra gli specialisti). Quasi certamente agli inizi dovette essere
      prevalente la pesca a sciabica, la più immediata, di più facile
      realizzazione, ma anche la più precaria. Torniamo
      a tempi più vicini. Dopo il censimento del 1911 sembra che il numero
      delle sciabiche sia di nuovo salito, e non di poco. Lo deduco dal
      contenuto di una delibera di giunta del 10 maggio 1917. Com’è
      noto, l’Italia combatte da due anni contro gli Imperi Centrali e il
      Paese vive le ristrettezze tipiche di un’economia di guerra. Quel
      giorno, la giunta comunale presieduta dal sindaco Giovanni Lucangeli emana
      un provvedimento di requisizione di seppie e polpi per i bisogni locali in
      base al quale ogni sciabica dovrà cedere quattro chilogrammi di quel tipo
      di pesce. E si legge nella circostanza che le sciabiche sono diciotto. Su
      questa storia delle requisizioni per cause belliche torneremo ancora; per
      ora constatiamo che la flottiglia sciabicotta è cresciuta dal 1911 di più
      della metà. Nessuno
      si è mai preoccupato gran che di monitorare l’andamento del settore, di
      controllare quante sciabiche o quanti sciabicotti fossero in attività nel
      prosieguo del tempo. Le cifre che andiamo scrivendo su questi fogli, come
      si capisce subito, sono colte, a parte quelle dei censimenti del 1901 e
      del 1911, qua e là in documenti di varia natura e appaiono un po’
      smagliate, nel senso che l’episodicità dei documenti non permette di
      avere ragguagli statistici precisi. Tuttavia,
      questo è quel che abbiamo e con il quale dobbiamo arrangiarci. Per
      gli anni più recenti si può far riferimento a un progetto di ricerca del
      CNR di Ancona, probabilmente dell’inizio degli anni Ottanta, nel quale
      si afferma che nella marineria di Portorecanati (sic!), esistono
      in attività almeno 20 sciabiche, particolarmente interessate alla pesca
      del Bianchetto di Acciuga, nel periodo autunnale. Stante il livello
      artigianale dell’attività, è attualmente impossibile quantificarla,
      anche perché gran parte del pescato sfugge a qualsiasi rilevazione
      statistica (il vizio non si è perso per strada dai tempi di don
      Francesco Jorini e chissà da quanto prima). Ritengo
      che quando il CNR scriveva di 20 sciabiche considerasse nel numero
      soprattutto le imbarcazioni di quattro/cinque metri, a motore, che ormai
      già da tempo avevano preso il posto della sciabica classica, a remi,
      sulla quale ci soffermeremo ampiamente più avanti. Segnalo
      infine che in un documento a cura dell’Associazione Produttori, della
      Cooperativa Piccola Pesca e dell’Associazione Mogli Pescatori, datato 31
      ottobre 1987, le sciabiche date per esistenti e operanti sono 10. Oggi,
      in pratica, non è più possibile parlare di sciabiche: la pesca con
      l’omonima rete è consentita entro limiti assai ristretti e l’attività
      relativa si è quasi spenta perché ovviamente gli operatori si sono dati
      a tipi di pesca più remunerativi. Al momento in cui firmo questo numero
      della Rivista ho notizia di una sola sciabica in attività. Riporto
      con piacere una pagina inviatami da Alessandro Mordini, adesso residente
      in Ancona, che mi fornisce un elenco delle sciabiche in attività al Porto 
      negli anni tra il 1946 e il ’48. Eccolo, procedendo da sud a
      nord: -  
      Saè del
      Cucinièru, Saverio Panetti; aveva una sciabica piccola in confronto alle
      altre e lo scalo era nei pressi del Cantiere Navale; Concludiamo
      questo capitolo, ripetendo qualcuno dei dati appena citati (i periodi di
      riferimento non coincidono del tutto), con un altro intervento (non sarà
      l’ultimo) del nostro amico V., il quale si distingue anche, anticipando
      lo scrittore siciliano Camilleri, il creatore del personaggio del
      commissario Montalbano, per l’altalena della sua prosa tra l’italiano
      e il dialetto: Una volta ggió la marina c’era la sciabbega de ‘Incè
      de ‘Ndrè de Carlo (Giri Vincenzo), la Mirabella de Magnaró (Giri
      Giuseppe), quella de Gerì de Sudo (Piangerelli Geremia), le uniche a
      portare sul pizzetto de prua una piccola croce in legno, alta sui quaranta
      centimetri con sopra una coroncina di palme benedette, prese in chiesa la
      domenica delle Palme. E poi ‘rtiravano la Bianchina de Francé de Grespì
      del Moro (Giri Michele), la Vincenzina de ccì Pacchió (Scalabroni
      Pasquale), de Cellerì (Stefanelli), de Pumì (Monachesi Giuseppe), tutti
      sciabbegotti di antica tradizione familiare.  Ai giorni nostri (metà degli anni Ottanta) lavorano un po’ saltuariamente, non solo per mancanza di braccia, sempre più difficili da reperire, ma anche per le varie leggine che ne limitano l’attività, a protezione della fauna ittica, le sciabiche de zì Gerì, del Cuciniero (Panetti Mario), de Pippetto (Valentini), de Nito de Cittadì (Annito Cittadini), de Natello de Castellà (Castellani Fortunato). Da ricordare anche le sciabiche di Giggiu Sciai, di ‘Tilio de Badiale o Zaccarani (Attilio Sabbatini), di Sciampagnó e ‘Ngiulì Bruni. | 
| Scuoti
      e cala, vale a dire, fai le cose con ordine e anche con celerità perché
      qui, sulla sciabica, non c’è tempo da perdere. Il
      destino dello sciabicotto è racchiuso nell’amara sintesi dei due verbi:
      per lui il lavoro ha poche soste, e più soste ci sono meno soldi gli
      vengono in tasca. Una vita passata tra gli avvistamenti da terra, i vari
      alle prime ore del giorno (meglio dire le ultime della notte), il lancio
      in mare della rete e la sua lenta ‘rtirata camminando
      all’indietro sotto il sole che lo cuoce. Simbolo
      del suo stato, il cullaru, la tracolla di tela con due anelli di
      corda (sacche) alle estremità; qui è infilata una cordicella, la risa,
      che termina con un nodo detto croccu. Con questa tracolla si
      riusciva a fare più forza nel momento del massimo impegno. Avviciniamoci
      dunque con rispetto agli attrezzi e agli strumenti di questo mondo, tra i
      quali, primo, è certo la barca. Per 
      farlo utilizzerò un lavoro che il CSP ha redatto nel luglio 1999,
      parzialmente utilizzato da altri, e insieme farò ancora ricorso alle
      ricerche dell’amico V. A
      differenza di quanto accade altrove, dove in genere il termine sciabica
      indica la rete, qui da noi esso indica soprattutto la barca. La
      sciabica, quella classica, era un natante strutturato per la pesca
      sottocosta. Agile di forma per consentire velocità e manovrabilità,
      aveva la prua sottile e profilata per meglio tagliare l’onda. La barca
      era sui sette metri, il fondo nero incatramato col black (pegola) e
      la parte restante attorno grigia. Di
      poppa la struttura era più tozza, con ampio pianale (gràttena o
      gràtta) sul quale era sistemata la grande rete da pesca. Lì si
      piazzava, dietro a tutti, in piedi, il paró per avvistare le rusciùre,
      cioè i branchi di pesce in transito. In genere il paró era anche
      il proprietario. Soltanto Vincenzo Giri (‘Incè de ‘Ndrè de Carlo,
      che vuol dire Vincenzo figlio di Andrea a sua volta figlio di Carlo) si
      limitava ad essere il padrone che non navigava lasciando il compito di paró
      a Lisà Bufarini detto Pelài. A
      prua si trovavano l’ancora e il cordame per l’ancoraggio nonché un
      vano dove si collocavano cibarie e cose varie ad uso dell’equipaggio.
      Sotto la gràttena c’era un altro spazio per attrezzature
      secondarie. Il
      natante disponeva di quattro remi ognuno dei quali aveva un nome. C’era
      il remu de prua, che era il primo verso prua, meglio noto come prueru:
      era un remo piccolo e si trovava alla sinistra del paró; sulla
      banda opposta si trovava il remo grosso di dritta, al centro della barca,
      chiamato bocca de gola; il gaezzu stava a sinistra ed era il
      remo più grosso, tanto che a volte occorrevano due o tre persone per
      manovrarlo, stando attenti a non farlo girare; infine, il remu da preme,
      più piccolo rispetto agli altri, che fungeva da guida, alla destra del paró.
      L’ultimo remo spesso era usato dal capobarca o dallo sciabicotto più
      anziano perché aveva la funzione di timone. I
      vogatori remavano stando seduti sui bangarelli, tavole assai
      resistenti poste di traverso, con la funzione di meglio legare tra loro le
      strutture laterali della barca. Per la spinta i rematori si servivano del puntapia
      (puntapiedi), un asse posto in basso del bangarellu, circa mezzo
      metro in avanti. Sempre
      a poppa c’era la barbetta, una cima di pochi metri che serviva
      per trattenere la sciabica in prossimità della costa senza ricorrere
      all’ancora. A
      volte ci si serviva dell’alzana, corda per il traino della
      sciabica quando si tornava a casa venendo contro corrente. La
      cuertina de prua era il sito che serviva per il ferricciolo e per
      depositare la resta (vedi di seguito) e dove si sedevano i
      bambinetti di 9/10 anni alle loro prime avventure in mare. Qualche
      particolare sul remo della sciabica. La cordicella posta attorno al centro
      dell’attrezzo, chiamato girò, costituiva la ‘mbarunatura,
      che aveva la funzione di impedirne il lento consumo; stròppolo era
      chiamata anche la cordicella che si avvolgeva attorno al remo per vogare e
      che serviva a tenerlo appoggiato allo schelmo, fatto di un
      cavicchio di ferro o di legno. Lo
      strumento che sempre accompagnava la fatica dello sciabicotto, e che ha
      finito per assumere il valore di simbolo del mestiere, era el cullaru,
      una fascia a tracolla con un’appendice di 40/50 centimetri, di corda,
      che si avviluppava attorno alla resta e alla rete. Su di esso si faceva
      forza con tutto il peso del corpo. Lo
      sciabbegottu è una figura che conserva ancora freschezza e colore
      nell’immaginario popolare; basta ripercorrere i versi riportati nel
      capitolo ‘letterario’ di questo lavoro per percepire l’emozione che
      si prova di fronte allo spettacolo, sempre solenne, di cui sono
      protagonisti l’uomo e il mare. Come
      si è già scritto più volte, l’equipaggio, di solito 10/12 sciabbegotti,
      era al comando di un paró. Uno sciabicotto faceva da barcaru
      ed era quello che restava a bordo durante la cala; era quasi sempre il più
      vecchio, addetto a raccogliere le reste tirandole da terra, a pulire la
      barca, a cernire il pesce nella cuffetta (cesta piccola). C’erano
      infine i murè, i più giovani, addetti ai servizi (portare la
      colazione, per esempio). Allo
      sciabicotto non si richiedevano doti particolari, solo buone braccia e
      buone gambe per sopportare la fatica di un lavoro davvero duro. Per
      tradizione le ciurme venivano formate ogni anno il 19 marzo, giorno di san
      Giuseppe, e sciolte il 30 novembre in concomitanza con la festa di
      Sant’Andrea (discepolo di Giovanni Battista e fratello di San Pietro,
      pescatore a Cafarnao). Nella chiesetta del Suffragio c’è una pala
      d’altare attribuita al Maratta e trasferitavi nel 1829 dalla chiesa
      interna al castello svevo, in quell’anno demolita; rappresenta la
      Madonna Addolorata confortata da San Francesco di Paola e da Sant’Andrea
      che, proprio perché pescatore, tiene in mano una mugèlla (cefalo)
      e per questo è stato battezzato qui da noi come Sant’Andrè de la
      mugèlla. E’ lui il patrono degli sciabbegotti ed è nella
      chiesetta del Suffragio che si conclude, con la messa, la stagione della
      sciabica.  Un
      tempo alcuni sciabicotti, liberi da impegni fino al marzo successivo, si
      imbarcavano per l’Argentina dove andavano a lavorare alla cossecha,
      vale a dire alla raccolta del formentone; in marzo tornavano per
      riprendere il cullaru. Gli Argentini li chiamavano golondrinas,
      perché arrivavano e ripartivano come le rondini.  Successe
      pure che diversi non tornarono più stabilendosi nella Repubblica
      sudamericana per sempre. Ma questa è una storia che racconteremo
      un’altra volta. Negli
      ultimi tempi dell’epopea della sciabica le ciurme erano composte anche
      da giovani coinvolti per periodi limitati nell’attività marinara; si
      trattava soprattutto di studenti che lo facevano per disporre di qualche
      soldo da non domandare ai genitori. Non mancavano nemmeno operai e
      artigiani, che così arrotondavano i loro guadagni. La
      lunghezza della rete si aggirava in media sui 100 metri, qualcuna arrivava
      anche a 120 metri, vale a dire 50/60 metri per braccio; a mano a mano che
      si procedeva verso il sacco le maglie diventavano sempre più fitte.
      L’imboccatura del sacco era munita superiormente di sugheri (scòrzi)
      e inferiormente di piombi per far sì che la rete sul fondo del mare si
      aprisse per ingoiare i pesci. Il sacco si prolungava ai lati con due
      lunghissime ali che per l’azione opposta dei piombi e dei sugheri,
      sistemati in opportune lime, si aprivano in verticale e bloccavano
      la via d’uscita del pesce. Una
      rete da sciabica si compone di molte parti, che qui si elencano in ordine
      di avvicinamento al sacco: -  
      el gaezzu,
      da non confondere con il remo, è la cimetta che si scaglia dalla barca a
      chi sta a terra; era sempre attaccato alla mazza la quale era chiamata
      croce quando si tirava in terra la rete e la si scuoteva. -  
      la resta, la cui lunghezza varia dai 30 metri in su (ma su
      questa misura non c’è unanimità): a seconda della distanza da riva che
      si vuol raggiungere si mettono più reste ed ecco perché gli sciabicotti
      dicono ‘emu calatu a dó reste, a quattru reste…’;  -  
      la mazza,
      una robusta striscia di legno, lunga 60/70 centimetri, con le estremità a
      forma di V sulla quale fanno forza le reste e le lime;
      divarica la linea dei sugheri da quella dei piombi e ad essa sono
      collegati il gaezzu , il tarozzu (corda di canapa di una
      ventina di metri) e la resta; essa indica l’inizio vero e
      proprio della rete, il braccio; le cuciture che uniscono mazze e parè
      si chiamano fiezze; -    
      el
      bracciu (parè),
      ha maglie da 70 mm. e qui iniziano i galleggianti (lima da scorzu)
      e i piombi (lima da piombu); -    
      i
      spessi,
      maglie da 35 mm., pezzo di rete attaccato ai bracci, pure con galleggianti
      e piombi; -    
      ell’ala,
      maglie da 10/12 mm., faceva parte degli spessi; -    
      bocca
      de gola
      (anche qui non confondere con l’omonimo remo) maglie da 8 mm.; siamo
      all’entrata del sacco, detta anche carió (da scorzu e da piombu)
      nella parte superiore; - la manica oppure saccu, con maglie sempre più fitte (i fitti), fino a che negli ultimi 20 cm, cioè nel fonnu, c’è la camera della morte. Una
      magliaccia e un giubbetto per coprirsi dal freddo, a volte un’incerata
      per riparo dalla pioggia, pantaloni mal ridotti (le salparelle) e
      un paio di zoccoli: si partiva così per la sciabica, alle due o alle tre
      di notte o in qualsiasi altro momento della giornata fosse necessario. Il
      lavoro era legato in modo diretto alle migrazioni del pesce nei periodi più
      caldi dell’anno (ma nell’immediato secondo dopoguerra si varava anche
      d’inverno). In genere si pescava scalzi; solo a partire dagli anni
      Trenta hanno fatto il loro ingresso gli stivali (per i più fortunati),
      che sembra venissero da Zara. Quando
      arrivava novembre veniva cacciata l’anguilla. Il
      territorio di pesca era soprattutto costituito dai nove chilometri di
      costa portorecanatese, dal Musone fino al Potenza (quest’ultimo sito di
      cala era detto màsculu, con la distinzione ‘de sora’ o ‘de
      sotta’ a seconda che si fosse sull’uno o l’altro lato della sbocca
      del fiume). Spesso
      accadeva che si restasse fuori tutta la giornata, lavorando in
      continuazione e interrompendosi soltanto per mangiare el pà, la
      colazione preparata dalle donne e che i più giovani (i murè)
      venivano mandati a prendere in paese. I
      principali tipi di voga erano tre. La ‘oga lesta serviva quando
      si andava a pescare lontano e allora ci si dava il cambio a metà
      percorso; per avanzare più veloci ci si alzava dal bangarèllu
      puntando i piedi su una stanga situata in basso, detta ‘ppòggia pia
      o puntapia (dove si appoggiano i piedi). La
      ‘oga longa consisteva, restando seduti, in una remata lunga e
      possente per lunghe distanze; con la ‘oga battuta i rematori si
      alzavano e si sedevano dai e sui bancarelli, di solito per velocizzare la
      calata. Tra
      gli sciabbegotti c’era una sorta di codice da rispettare, regole
      a volte assai precise la più importante delle quali era che chi lanciava
      per primo il capu della corda aveva diritto di precedenza nel
      calare la rete. A
      questo proposito va detto che la parte spettacolare era nella gara a
      scegliere il posto migliore dove effettuare la cala, come nel modo
      di controllarsi a vicenda spiando ognuno le mosse dell’altro. Quando
      si calava la rete il paró prendeva la cima della resta,
      ne raccoglieva una quindicina di metri avvolgendola in piccoli cerchi e
      poi la lanciava urlando al murè di venire a prendere il capo. Il
      lancio doveva essere tale da far raggiungere terra al capo e nel frattempo
      il paró diceva ai rematori: ‘scìa’, comandava cioè di
      tenere fermo il remo per far prendere alla barca la direzione voluta. C’era
      competizione anche per toccare terra per primi: se capitava che due
      imbarcazioni calassero poco distanti l’una dall’altra, da quella che
      arrivava prima a toccare la spiaggia si alzavano i remi in aria in segno
      di vittoria. Non
      di corsa, ma a passo veloce Dopo
      la cernita sulla spiaggia, il pesce veniva sistemato dentro delle còffe
      o dei pagnèri (i secondi di dimensioni più piccole) fatti di
      vengo e di canna; se non ce ne erano a sufficienza si chiedevano ai
      contadini delle ceste di grosse dimensioni e anche i cariuletti per
      portare il pesce al mercato (i rapporti con la campagna erano più stretti
      di quanto si creda). Dentro i manici di questi contenitori veniva infilato
      un bastone di legno che andava a poggiare sulle spalle dei due sciabbegotti
      incaricati di portare il pesce in paese; non di corsa, come erroneamente
      si fa credere, ma a passo svelto e stando bene attenti a non perdere nulla
      per strada, anche per evitare di subire il rimprovero del paró.
      Per pesi sopportabili, il lavoro poteva essere svolto da un solo
      sciabicotto, che trasportava sempre due coffe. Anche
      questa era un’arte; indovinare cioè la cadenza giusta per non essere
      superati dalla concorrenza e, al tempo stesso, 
      giungere alla meta con la coffa piena come alla partenza. Arrivare
      per primi significava vendere il prodotto a prezzi più convenienti. E
      magari spargere tra la gente la voce che si comprasse subito il pesce già
      sul posto, ché gli altri non avevano pescato nulla! A
      volte si percorrevano distanze molto lunghe, soprattutto per chi doveva
      farlo a piedi gravato del peso delle coffe: non era raro marciare
      per diversi chilometri su strade non asfaltate né imbrecciate. Solo verso
      la fine degli anni Cinquanta sono cominciati ad apparire carrozzini e
      biciclette, seguiti poi dai più comodi Apetti. I
      portatori delle còffe potevano viaggiare da soli o in coppia, come
      rilevato poco sopra, a seconda della quantità di pesce da trasportare; di
      norma erano scalzi e proteggevano la spalla dove poggiava il bastone
      guarnendola con il cullàru o con la camigiòla (o camigiàcciu)
      oppure con il berettu o anche, infine, con uno straccio rimediato
      in qualche modo. C’era
      da darsi da fare per riuscire a tornare in tempo a caricare nelle còffe
      il risultato di un’altra calata. Il paró sapeva quanto era
      giusto aspettare, ciò dipendeva dalla distanza da percorrere. Ma se per
      caso l’incaricato del trasporto impiegava più tempo del previsto,
      succedeva spesso che quando giungeva, stanco morto, a trenta/quaranta
      metri di distanza venisse preso a sassate dallo stesso, impietoso paró
      e dagli altri colleghi.   La
      divisione del guadagno veniva effettuata nel rispetto di modalità
      antiche, ma assai efficaci, basate su un criterio di sostanziale equità: una
      quartarola, vale a dire il 25% di una parte, andava al ragazzino di 9,
      10, 11 anni; mezza parte era per i ragazzi più grandi, ammesso che
      facessero bene il loro lavoro; tre quartarole sempre ai ragazzi più
      grandi se erano ancora più bravi di quelli di prima; una parte
      allo sciabicotto. C’erano
      poi quelli che, oltre alla parte, prendevano una quartarola in più,
      ed erano lo sciabicotto che sapeva calare la rete e quello che sapeva
      vogare con tutti e quattro i remi. Quando
      si rientrava a casa, nella mattinata, si metteva a spandere la rete sulla
      spiaggia. I più giovani erano incaricati di raccoglierla, una volta
      asciutta, in genere prima di mezzogiorno. Chi non era puntuale buttaa
      ggió, cioè pagava una penale. Per un certo periodo, negli anni Cinquanta, gli sciabicotti avevano diritto, quando non si pescava (in inverno) a una sorta di moderna cassa integrazione consistente in poche lire. Sostiene
      l’amico V., da cui pesco il piccolo glossario che segue, che i
      portorecanatesi abbiano un’origine levantina e che ciò si rispecchi
      inevitabilmente in un linguaggio fatto di immagini grottesche create da
      una vivida fantasia. Ancor
      di più queste caratteristiche sarebbero evidenti nei modi di dire degli
      sciabicotti, che nel tempo hanno saputo inventare detti e combinazioni di
      immagini assai saldamente agganciati a quanto si voleva rappresentare. Eccone
      un campionario, senza alcuna pretesa di ritenerlo esaustivo. Fa’
      la croce: raccogliere
      la rete. Magnà
      el cappó:
      ammucchiare la rete appena tratta dall’acqua, secondo alcuni, ma per
      altri sarebbe frase incitante ad essere svelti e bravi perché così ci si
      potrà aspettare un buon guadagno. ‘Gnà
      murì pe’ campà:
      per vivere bisogna morire, detto per mettere in risalto la durezza del
      lavoro. E’
      bianghi cume i buffi de neve:
      sono i lattarì (novellame), detti anche la magnana. Daje,
      ché quessi nun è finanzieri:
      si diceva quando la rete emergeva carica di lattarì, che sono
      assai più buoni dei sarduncì, immagine dei finanzieri,
      ‘cattivi’ con gli sciabicotti a causa delle multe che essi contestano
      loro abbastanza spesso. Scòte
      e càla:
      scuoti e cala la rete, prima che puoi; invito alla rapidità nel lavoro. Fàtte
      da’ la chiae de la mazza:
      è una burla per far correre un murè da un 
      braccio all’altro. E
      tantu sai nonnu Fiore el brigante!:
      non sei davvero come Fiore il brigante, che doveva essere uno sciabicotto
      assai sveglio nel lavoro; la frase veniva infatti rivolta a qualcuno un
      po’ ‘incantato’. Nun
      tirate a scossi:
      invito a tirare la rete con continuità evitando scossoni. Fate
      ala:
      allargate la rete dalla parte degli spessi (dopo averla scossa una
      volta  che è stata tirata in terra la parte contenente gli scorzi
      e i piombi), il che permetteva di spujà la manica,
      cioè constatare la qualità e quantità del pescato; Rete
      grossa ‘mbraga maru, ‘mbraga pesciu:
      bisogna fare una calata ad ampio raggio per avere maggiori possibilità di
      prendere una più grande quantità di pesce. El
      pesciu smaja:
      quando il pesce rischia di scappare dalle maglie della rete; Dréntu
      cul passu:
      stringere i bracci della rete per farla venire diritta a terra.. Maneggià:
      mettere da parte il cullaru e tirare con le mani. Nun
      la fa’ scagarellà ‘sa croce:
      non far cadere la rete quando la porti a bordo. Dàje
      ch’edè la cala de la ‘endegna:
      coraggio, ché questa è l’ultima cala e può darsi che sia quella
      buona. Spòja
      el pizzàle (spizzàla):
      togliere il pesce dal pizzo, cioè dall’angolo della manica, quello in
      fondo. Calàmu
      a la sversa:
      caliamo la rete alla rovescia rispetto alla posizione di partenza. Invece
      di buttare fuori il sacco, come era normale fare, lo si buttava dentro,
      cioè verso terra. Bisognava fare particolare attenzione in questa
      operazione per evitare che, finita la calata, la manica (il sacco) si
      aggrovigliasse. Sunà
      la resta:
      raccogliere le corde. Scioje
      el duppì:
      districare la corda sciogliendo per prima la cima doppia. Va’
      ‘n teretta, el pesciu è mestuuuuu:
      vai verso terra ché il sacco è stato gettato in mare. Lo grida il paró
      ordinando di virare gradualmente, ma con velocità verso terra per mettere
      in mezzo il pesce. Raccomanda anche: Rema a bocca de gola. Altra
      espressione similare: calamu a tera ‘ia (caliamo vicino terra) L’agura
      fa becchettu:
      quando si vede il becco, cioè il muso dell’aguglia, che è stanca
      perché cacciata da pesci più grossi. Si dice anche che l’agura se
      ‘nciambella. E
      tantu le rusciure ce ‘ffoga:
      per dire che l’agora non c’è affatto. La
      lattarina va a la messa:
      si dice quando nella rete è finita troppa lattarina, che poi non si
      riesce a vendere. Il richiamo alla messa, forse, significa che questa
      volta si tornerà a mani vuote. Come quando si torna dalla messa (ma non
      sono sicuro che sia così). Fàjela
      sentì de dietru la rete:
      mettere più forza rispetto a quello che sta davanti. Scòte,
      scòte:
      esclamazione degli sciabicotti quando fanno cerchio intorno al sacco per
      vedere il risultato della pescata. Nun
      è notte a Cinguli:
      vecchio proverbio marinaro per dire che c’è tempo per fare ancora
      qualche calata. Il richiamo a Cingoli è forse dovuto al fatto che dalla
      nostra costa si vede assai bene il monte di Cingoli, il San Vicino. La
      manica ride:
      quando mancano pochi metri per tirare a riva un sacco che appare già
      pieno perché il pesce guizza da tutte le parti e l’acqua sembra
      bollire. 
 Al
      contrario, se non c’era movimento di corrente: l’acqua è stanga/
      mette fora/ ‘iene in tera. La
      presenza della luna non era certo dimenticata, anche perché la posizione
      del satellite della terra determinava il corso dell’acqua e quindi il
      modo di calare la rete. Si prenda ad esempio il detto gobba a leante
      luna calante, gobba a punente luna crescente. Oppure: luna colca,
      marinai in pia (se il quarto di luna è disposto orizzontalmente il
      marinaio deve stare all’erta); luna in pia, marinaio colco ( se
      il quarto di luna è disposto in verticale, il marinaio può dormire). Anche
      il sole aveva la sua parte. Si diceva ‘emu calatu ch’el sole era
      altu ‘na ccànna ( o due o tre)  intendendosi
      il termine ‘canna’ come unità di misura rapportata alla dimensione
      media di una canna. 
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 Riproponiamo un vecchio articolo di Marino Scalabroni,
      apparso nella prima pubblicazione del Centro Studi Portorecanatesi (“La
      Rigòla”) risalente al giugno 1983 e centrato proprio sulla sciabica. La
      recente polemica sorta tra una delle più antiche categorie di lavoratori
      del mare e le autorità regionali, ci spinge a spezzare una lancia
      –anche se solamente sul piano sentimentale- a favore degli sciabbegotti,
      delle loro tradizioni e della loro storia. Per
      questo non entriamo nel merito delle ragioni assunte dal legislatore: non
      è la sede giusta e ci mancano dati seri, reali e concreti per fare
      veramente collimare gli interessi di questi nobili lavoratori del mare con
      quelli enunciati dagli esperti di pesca d’altura e da sensibili
      sentinelle ecologiste. Ci
      spinge a parlare di SCIABBEGHE e di SCIABBEGOTTI il bisogno di restituire
      a questo modo di vivere la vita del mare tutto il valore che merita
      dinnanzi alla storia della fatica umana e dinnanzi al valore dell’uomo
      che si realizza nel suo lavoro. Affrontare l’argomento sotto l’aspetto
      socio-economico, politico e tecnologico ci porterebbe lontano, ben oltre i
      limiti imposti dalla natura della nostra pubblicazione, ma sostenere il
      valore di questa attività, la cui origine si perde nella notte dei tempi
      e che senz’altro rappresenta la forma più antica del rapporto
      uomo-mare, è giusto e doveroso. E ciò anche presupponendo la supremazia
      del marinaro, che affrontava il mare aperto affidando la propria vita alla
      fragilità della lancetta, al capriccio degli elementi e alla sua capacità
      di intuirli e di presentirli, supremazia che quasi sanzionava la
      subordinazione sociale persino nelle rituali e lapidarie sentenze dei
      proverbi strettamente e tipicamente purtannari: “ ‘Ete dattu la carta
      de la musega ‘nte le ma’ d’un sciabbegottu” – “U’
      sciabbegottu n’è bonu mancu a fa’ el testemoniu”. Il
      tempo, tuttavia, con la sua inflessibile logica ha reso giustizia: parlare
      dei barchetti o delle lancette ormai è rivivere momenti di vita
      profondamente radicati nella nostra memoria collettiva. Oggi le moderne
      tecniche meccaniche ed elettroniche, la biologia marina, la stessa
      meteorologia hanno rivoluzionato i modi e i mezzi per vivere e lavorare
      sul mare. La potenza dei motori, le tecniche di pesca di concezione
      avanzata, la strumentazione elettronica di ricerca e di prevenzione fanno
      del motopeschereccio il natante principe per lo sfruttamento del mare
      aperto, relegando a mero valore di mito l’antica epopea della vela. Ma
      la SCIABBEGA resiste ancora. Continua ad essere presente nell’economia e
      nell’attività quotidiana. La SCIABBEGA, un natante privo di alberatura,
      di agile forma e specifico per il tipo di pesca cui è usato. Nei tempi
      andati tali imbarcazioni erano più numerose e gli equipaggi costituivano
      un settore ben preciso nell’economia e nel costume locali. Quella degli
      sciabbegotti è sempre stata una categoria particolare, spesso snobbata
      dai veri uomini di mare che ne usavano l’epiteto in senso denigratorio.
      Gli equipaggi si raggruppavano in clan, perché tale pesca si tramandava
      di generazione nella stessa famiglia, ed erano completati con personale
      anziano sbarcato dalle lancette e talvolta con sottoccupati che limitavano
      il loro lavoro alle attività della ciurma di terra. L’avvento
      del motore ha sollevato anche questo settore della fatica umana, senza
      tuttavia aprire nuove prospettive. Infatti l’industrializzazione della
      pesca ha portato una maggiore autonomia dell’uomo nei confronti della
      capricciosa solidarietà della natura: oggi il pescatore chiede un mare
      relativamente calmo per poter procedere nel suo lavoro. Ma questo
      sussidio, d’altro canto prezioso, ha favorito la rapida riduzione della
      fauna ittica ed il depauperamento dei bassi fondali sotto costa. Oggi come
      ieri l’attività dello sciabbegotto resta essenzialmente stagionale,
      legata al passaggio migratorio di branchi di pesci. La sciabbega tuttavia
      merita un ricordo proprio perché nella vita e nel costume locali ha
      rappresentato un valore culturale veramente valido. E’ giusto
      ricordarla. E ricordarla come era quando riempiva di sé i pomeriggi di
      pesca avanti agli occhi ammirati e curiosi di tanti turisti.  Originariamente
      la sciabbega era mossa a forza di remi –ognuno dei quali aveva un nome
      ben preciso- ed era pilotata dal primo remo poppiero di destra, il ‘remu
      da preme’ che fungeva da timone. Preliminare
      alla pesca è l’avvistamento: basta che l’occhio esperto veda lo
      sbalzo a fior d’acqua di un cefalo, la mugella, o il leggero incresparsi
      di un’area di mare per il passaggio di un branco di pesci turchini, per
      vedere scattare le sciabbeghe che prendono il largo dopo aver lasciato
      alla ciurma di terra la resta per la traina. Con rapide remate, ritmate
      dagli incitamenti del capopesca, l’agile scafo punta verso il largo,
      mentre da poppa con sapienti e agili gesti, viene calata in mare la prima
      ampia e lunghissima ala della rete, che sotto il pelo dell’acqua si
      distende verticalmente e crea una vera parete capace di trattenere e
      deviare la corsa del pesce. Poi la sciabbega compie una grande curva al
      centro della quale si trova il punto d’immersione del sacco della rete. Il
      lancio deve essere eseguito con mossa esperta onde farlo affondare in modo
      da distendersi e d’aprirsi. Quindi, sempre a velocità sostenuta, si
      conclude la circoscrizione di una cospicua parte di mare distendendo la
      seconda ala. Quando finalmente il natante tocca terra e gli uomini
      abbandonano le manovre per formare la seconda ciurma di traino, tutto il
      fervore, tutti gli incitamenti svaniscono. Mentre
      la sciabbega governata da un mozzo (per altri, invece, è il ‘barcaru’
      a farlo, un marinaio anziano) resta sul bagnasciuga, le due ciurme, con
      passi misurati, lenti, iniziano a salpare la grande e pesante rete. Sul
      mare la corona di galleggiamento sembra tanto lontana e per questo più
      imponente. I sugheri sembrano ancorati a un mare denso, resistente. E gli
      uomini arrancando a ritroso, piegati dal ‘cullaru’, raccorciano la
      distanza tra le due squadre e, progressivamente, dalla rete. Il tempo
      lento, i gesti sempre uguali. Ogni uomo, l’ultimo della catena, ogni
      tanto lascia la presa e si porta sulla battigia per riallacciare il suo
      ‘cullaru’ alla resta. E dietro qualcuno provvede a riordinare il
      cordame ancora fradicio d’acqua. La
      rete intanto si restringe e la sacca vorace, spalancata, nera, incomincia
      a riempirsi di alghe, granchi, zanchette e, se Dio vuole, buon pesce
      turchino da riempirci le ceste. Ormai gli uomini stringono tra le mani la
      rete e si confondono tutti in un solo gruppo: due file strette di schiene
      che tirano e altri che si inframezzano per tutte le operazioni di recupero
      del sacco. Già qualche previsione si azzarda se negli ultimi metri
      quadrati di mare ancora chiuso dai galleggianti ferve un brulichio o si
      corrusca l’acqua. Allora la fatica non si sente più, le esclamazioni di
      speranza eccitano all’ultimo sforzo, la trazione si fa più calzante
      finché appare il sacco che il moto ondoso gonfia e riduce come il ventre
      mostruoso di un essere abissale. Ormai
      è l’ora della verità per questi uomini pazienti. Quando è andata
      bene, la sacca è colma, il pesce s’ammucchia esausto tra una
      fantasmagoria di squame lucenti lanciate ovunque dall’agitarsi frenetico
      del pesce ancor vivo. Le ceste si riempiono nella massa ancora acquosa,
      mentre mani esperte, rapidamente, cerniscono tra il pescato. Se la
      giornata è buona, si riparte ancora per ritentare. Ma non è sempre così.
      Talvolta il premio alla fatica è esiguo: dentro la sacca poche manciate
      di frittura che non converrà nemmeno portare al mercato. Uomini
      di mare anche loro con i sensi sempre tesi a percepire il tempo, a
      presentire i ritmi che governano la vita che ferve negli abissi. Fermi
      sulla riva, appoggiati alle agili prue falcate delle loro sciabbeghe,
      questi uomini dalle decisioni rapide e dai movimenti lenti, chiamano le
      ciurme addormentate leggendo l’ora dal quadrante del cielo, dai moti
      delle stelle. È giusto, perciò, ricordarla alle generazioni che
      ne vedono, oggi, il simulacro dissacrato dal ruggente motore. Lunga,
      agile, slanciata, la sciabica (ma chi la chiama così?) costituiva un
      elemento a sé stante nell’economia, nella coreografia e nella storia di
      Porto Recanati. Per la particolare natura di questo genere di pesca,
      caratterizzato dalla costante osservazione del mare e dalla rapidità
      dell’intervento, la sciabica era costantemente armata e pronta
      all’impiego. La
      lunga enorme rete, opportunamente raccolta in magistrali piegature e
      facilmente e rapidamente defilabile in caso di varo, troneggiava
      apparentemente inerte e pesante sul pianale di poppa dal quale, una volta
      in mare, il capobarca calava con movimenti calcolati e solenni. 
 In
      effetti, anche ai tempi di Gesù la rete a strascico era tra i mezzi più
      usati per la pesca. Ciò accadeva, naturalmente, pure nel mare di Galilea
      dove il Messia incontra Pietro e Andrea. Qui la rete veniva trascinata tra
      due barche oppure una barca restava a una certa distanza dalla riva mentre
      i pescatori, sulla spiaggia, camminavano lungo la battigia. Ben poca
      differenza rispetto al modo di praticare la sciabica a Porto Recanati. | 
| Adesso facciamo parlare direttamente l’amico V. senza più
      limitarci ad arrangiare quanto da lui scritto ormai parecchi anni fa. Ci
      piace questa prosa che non indulge a sentimentalismi e che lascia
      trasparire un velo di bonaria ironia, misto a una profonda partecipazione 
      e a sincera simpatia per gli uomini della ‘sciabbega’. Lo
      abbiamo già rilevato, ma torniamo a far notare lo stile
      caratteristicamente altalenante tra lingua e dialetto. Il testo risale
      alla metà degli anni Ottanta. “Ohooooo,
      ‘aràmo!”: era il richiamo del paró della sciabbega che alle due,
      alle tre di notte correva di porta in porta a svegliare i suoi uomini. “Dàje
      cùgiu, dàje, el pesciu è mésto!”, ripeteva per sollecitarli, a voce
      bassa, quasi temendo che quelli di altre sciabbeghe lo sentissero. E
      mentr’egli correva giù la marina a sistemare lo scalo e a ogne le
      palanghe, i sciabbegotti si buttavano via dal letto, afferravano ancora
      mezzo addormentati le salparelle e il collaro e, senza una goccia di latte
      caldo, s’avviavano scalzi verso il mare, tra un colpo di tosse ed uno di
      catarro, maledicendo in cuor loro la propria miseria. Mi
      pare ancor d’udire il rumore della vecchia bicicletta de ccì Pacchió,
      che veniva a chiamare vicino a casa mia el defunto Buttó, il quale,
      immancabilmente, lo spediva con due tre moccoli; e quando questi si
      presentava giù la sciabbega, con ritardo, i corni lu ‘ffugava. “E
      tantu l’agurìa de nonnu Fiore el brigante ci hai!”, gli gridava el
      Zampetto; “ ‘a là ché ‘n’antra ‘olta a te spettàmu, da culu!”,
      incalzava sotto Saeretto de Nanà. Quindi
      a forza di remi e con l’alzana si dirigevano verso la zona di pesca
      prescelta: la ‘alla
      (valle) del Potenza o del Musció, ggió da Pacchianè o su da Scainì.
      El paró si metteva in piedi sulla cuertina a pùpa, per avvistare le
      rosciure de pesciu; la sua vista era simile a quella di un falco. Gli
      uomini sui remi stavano a bocca de gola e ‘l poro Sudo, affaticato dal
      prueru che maneggiava da più d’un’ora senza respiro, mormorava tra sé
      con malinconica rassegnazione: “E’ propiu ‘eru, gnà murì pe’
      campà”. Intanto
      lassù nel cielo e’ stelló assieme alla altre sue compagne di
      solitudine si faceva sempre più pallido, mentre negli uomini cresceva
      l’ansia dell’avvistamento. Finalmente il paró gridava: “O ragazzi,
      mettete a prua fitta, i riffuli d’agura ce ccèga!”. In fretta
      gettavano el gaezzu a terra e calavano con mosse veloci: “rete grossa
      ‘mbraga maru, ‘mbraga pesciu” urlava Francé de Grespì incitando i
      suoi a daje sotta: “’oga cun ‘si remi ché dopu magnamu tutti el
      cappó!”. A
      terra gli davano dentro col passo, poggiandosi con tutto il peso sul
      cullare. “O ragazzi, l’agura fa becchettu”, esclamava contento el
      Cuciniero, indicando con i suoi occhi aguzzi il centro della rete che
      pareva in ardore e, invitandoli a metterci la forza, gridava: “Fate ala,
      nun tirate a scossi”. Così,
      tra fatica e speranza si andava avanti per qualche cala, mentre el barcaru,
      il più vecchio di solito, restava a bordo a sonà le reste, a pulì la
      sciabbega, a capà el pesciu dalla cuffetta. Intanto,
      verso le nove, si vedeva qualche ragazzino con più fagottelli in mano
      correre a piedi nudi su per marina a portare la culazió al padre e ai
      zisi. Gli uomini sudavano, avevano la gola arsa; il sole faceva pesare la
      calura. Negli animi affiorava sempre di più la stanchezza: era ora di
      tornare a casa. Ma
      el paró brontolava a voce alta: “Nun è notte a Cinguli; dàje che famu
      la cala de la ‘endegna”. Proprio l’ultima, chissà che non sia
      quella buona. Finalmente
      si prendeva la via del ritorno, ma ancora quanta fatica per il povero
      sciabbegotto: fassela tutta a remi e con l’alzana dal Musció con
      sciroccale era bava! A
      seconda della pesca i visi erano lieti o tristi, ma c’era un anziano
      sciabbegotto che, comunque fosse andata, non perdeva mai il buon umore:
      era Cassino, che quando s’avvicinava alle prime case del paese
      cominciava a cantare certe arie napoletane! La sua voce robusta si perdeva
      lontano: “O Telèèèè, o Telèèèèè, quante notte m’aggio perse
      pe’ teeeee…”, intonava ogni volta che intravedeva il povero
      Telespero Pasqualini ggió per marina. Se
      incontravano lungo la spiaggia qualche personaggio noto per la sua
      stranezza, allora Dio te ne liberi: cominciavano a fischiare, a urlare, a
      tirar fuori i fazzoletti che agitavano in aria in segno di dileggio, e giù
      risate a non finire. “Agura e sgombri, agura e sgombriiiii”, gridavano
      felici gli uomini dalla barca, prolungando all’infinito la “i” e
      alzando le coffe colme di pesce. Tant’è
      che a Porto Recanati, quando si vuol indicare il desiderio di una brigata
      felice per passare qualche ora spensierata, è divenuta proverbiale
      l’espressione “’Ndamu a sciabbega ché ridemu”. Una
      volta allo scalo, spandevano la rete e i collari al sole; el paró faceva
      le parti della rimanenza e ognuno tornava a casa sua, in mano la
      sparettina de pesciu, per ritrovarsi poi tutti al pomeriggio in cantina a
      fa’ ‘mbrenna. Qui, tra un quartino e l’altro passavano spensierati
      la serata; il loro companatico era una chieppa o un morgano secchi, che
      presi d’estate venivano messi al sole a seccare perché servissero per
      l’invernata, in quei lontani anni di miseria. Oggi
      come allora, se c’è una parola che offenda in maniera fastidiosa uno di
      Porto Recanati è sentirsi dire “sciabbegottu”. Un tempo i
      sciabbegotti costituivano l’ultima delle categorie, “boni nemmeno a
      fa’ da testimoni”, tanto scarsa era la considerazione sociale nella
      quale venivano tenuti! Nel
      tessuto cittadino si distinguevano i commercianti, in particolare quelli
      di stoffe, i telaroli, che con il loro brecche o cacciatora (carro
      trainato da cavalli) si spingevano a Macerata, Ancona, San Benedetto del
      Tronto… Ad
      essi guardavano con invidia i pescatori, l’anima di Porto Recanati, le
      cui origini storiche s’identificano con il nucleo marinaro di profughi
      albanesi giunti alla metà del XV secolo; però, da quando la vela è
      stata sostituita dalla meccanica, questi sono diventati, e di gran lunga,
      il popolo grasso del paese. All’ultimo
      posto v’era uno strato composito formato di artieri, sciabbegotti
      appunto, e scalanti. Per artiero s’intendeva colui che esercitava un
      mestiere in proprio: el cordaro, el canepì, el calafato, il fabbro, il
      falegname, il sarto, il barbiere e qualchedun altro. I
      scalanti erano per lo più vecchi marinai in pensione, e gli stessi
      sciabbegotti, come Lisà de Bufarini, Peppe de Pumì, Cellerì, Jacumì de
      Bruduló, Sudo. Ultimo
      epigono di un mondo ormai scomparso è rimasto zi’ Neno Menelicche, il
      volto di cartapecora, gli occhi dô gocce de maru, sempre ggió per marina
      a spettà la cunculara. Era
      loro compito quello di tenere sempre in ordine lo scalo, de ogne bè le
      palanghe, de sta’ pronti a ‘ultà sull’arghenu. Ad essi spettava la muccìa, lo scarto del pescato dei barchetti; comunque, sempre bono pe’ fasse un brudettì o dô pescetti fritti! Guai se la figlia d’un marinaro avesse sposato uno sciabbegotto, oppure preteso un artiero: e per tant’è ‘ea persu l’unore lia cun tutta la generazió!!! | 
| Non poteva mancare il contributo di Alessandro Mordini, Lisà
      per tutti noi, il quale scrive per diretta esperienza. La sua memoria gli
      ha dettato nomi e volti ben conosciuti al Porto nonché un episodio che
      rivela ampiamente la mentalità degli sciabicotti. Non
      mi ricordo bene se era l’anno 1947 oppure il ’48, avevo
      sedici/diciassette anni e andavo a pescare con la sciabica di Giuseppe
      Giri, detto Magnaró e detto anche El Zampettu.  Erano
      soprannomi che venivano certamente da lontano e dei quali non conoscevo le
      origini. A Porto Recanati tutte le persone anziane venivano chiamate “zi’”,
      cioè zio e zia a seconda del sesso, e tutti coloro di una o più
      generazioni inferiori venivano chiamati, dagli anziani, “nipote”.
      Questa precisazione era doverosa. Zi’
      Peppe de Magnaró aveva, credo, sei figli, di cui quattro maschi: Giggiu,
      Nenu, Peppì, Pasqualì (Luigi, Nazzareno, Giuseppe, Pasquale), tutti e
      quattro impegnati nella sciabica del padre. Giggiu, il più grande di età,
      era il capobarca (paró). A
      quell’epoca eravamo una bella ciurma. Oltre ai quattro figli di zi’
      Peppe, già nominati, c’erano tre persone anziane: zi’ Incè de Nasó
      (Vincenzo Gaetini), zi’ Nicò del Tentore (Nicola Mordini, mio nonno), zì
      Incè de Gabetì (Vincenzo Grilli). I ragazzi della ciurma, dai
      quattordici ai diciotto anni: Gaetano Ferraccioni, Pietro Cavallari (Pietru
      de Ciambelló) andato poi in Argentina a raggiungere suo padre, Alessandro
      Mordini (Lisà ovvero me medesimo), Luciano Grilli (Lucianu Panzetta),
      Antonio Galieni (‘Ntò), Antonio Ferraccioni (‘Ntuni’), Nicola
      Pandolfi (Niculì), Giri Giuseppe (Peppe Rita) che credo sia stato il più
      piccolo, quattordici anni, figlio di Nenu, nipote del padrone della
      sciabica.Di tanto in tanto si aggregava qualche altro, ma erano soltanto
      provvisori, la vera ciurma eravamo noi. Spero
      di non avere dimenticato nessuno, ma se fosse non me ne voglia. E’
      passato tanto tempo. Veniamo
      alla scia. A
      fine settembre e soprattutto in ottobre, ci alzavamo presto, alle due di
      notte eravamo già pronti per il varo della sciabica. Facevamo
      la prima pescata (cala) all’altezza della pineta Volpini. Calavamo la
      rete molto al largo, quattro o cinque ‘reste’, dai tre ai quattrocento
      metri dalla riva e anche oltre. La
      rete arrivava a terra verso l’alba, carica di ‘sciugheri, bobbe,
      zanghette e baracculette’. Ma dietro la manica si formava una scia nella
      quale c’erano tanti piccoli pesciolini (‘lattarì’) che uscivano
      dalle maglie della rete, attirando presso di loro banchi di sgombri, ma
      soprattutto di aguglie (‘àgura’). Facevamo
      quella cala al largo non soltanto per il pescato della stessa, ma proprio
      per calare la rete dietro la scia che sarebbe risultata la pescata più
      proficua e meno faticosa, perché effettuata vicino alla riva.
      Puntualmente, tutte le mattine, la cala dietro la nostra ‘scia’ ce la
      fregava un’altra sciabica, che appostandosi dietro la foce del fiume
      Potenza, attendeva il momento propizio per calare la rete. Noi
      eravamo in piedi già dalle due di notte, questi signori freschi freschi,
      da poco alzati dal letto, tutte le mattine ci facevano questo scherzetto. Quello
      che loro facevano era legalmente inappuntabile, il mare era libero e tutti
      potevano pescare. Non potevamo farci niente. Ma
      non era del tutto corretto nel codice morale dei pescatori. Che
      fare? A un certo punto ci siamo decisi. Una
      mattina abbiamo fatto finta di calare la rete, invece li abbiamo aspettati
      al varco. Non appena il loro capobarca ha lanciato la cima della corda a
      terra (‘buttà el capu’) per poi procedere alla calata della rete,
      abbiamo aggredito la metà della ciurma rimasta sulla spiaggia e a furia
      di ‘scullarate’, cioè botte con le tracolle (i ‘cullàri’), li
      abbiamo messi in fuga. Per quando l’altra metà della ciurma è arrivata
      in loro soccorso, gli altri si erano già dileguati, e giù, botte da orbi
      anche a questi. Non
      ci sono state né ferite né fratture e nemmeno querele. Soltanto qualche
      contusione e qualche bernoccolo (‘bòzza’), e, credo, anche tanta
      paura. Soprattutto
      hanno imparato la lezione: da quel giorno ogni sciabica calava la rete
      soltanto dietro la propria scia. | 
| Nel
      bellissimo passaggio trascritto poche pagine fa, V. fa riferimento alla
      cantina, cioè all’osteria, abituale rifugio degli sciabbegotti, benché,
      certo, questi non ne fossero i soli clienti. Nella
      relazione di accompagno dei dati ricavati dal quinto censimento del Regno
      (1911), il segretario comunale Luigi Petrocchi esprime un severo giudizio
      sugli uomini portorecanatesi, …nella più gran parte marinai, i quali
      fanno assegnamento sul meschino guadagno di esse (delle mogli,
      pescivendole o venditrici di aranci, stoffe e altro) per poter
      frequentare fino a tarda sera il caffè e l’osteria, nel lungo periodo
      che stanno in terra, dal dicembre, cioè, all’aprile. Un
      po’ impietosa l’analisi di Petrocchi, oserei dire ingiusta: la cantina
      non era certamente il Rotary Club, ma dove altro potevano andare a passare
      il loro tempo i nostri pescatori? Nei
      mesi invernali, la mattina, li si poteva trovare a rammendare le reti, a
      fare lavori di manutenzione degli attrezzi della professione perché
      fossero pronti al momento opportuno; qualcuno si arrangiava pure a dare
      una mano ai calafati. Il pomeriggio, però? Il
      pomeriggio erano tante piccole processioni che prendevano la direzione di
      quei ‘templi del vizio’, ogni fedele tenendo in mano un cartoccetto di
      pesce essiccato o di tonno e olive, e un tozzo di pane. La
      cantina era, di solito, un lungo stanzone debolmente illuminato, ai cui
      lati si trovavano tavoli di 3/4 metri per un metro circa: gli avventori
      sedevano su panche prive di schienale, poste ai lati. La
      parete di fondo era occupata dal bancone sul quale troneggiavano le botti
      del vino con i rubinetti in continua attività. Entrando
      si rimaneva colpiti dal gioco di ombre cinesi proiettate sull’alto
      soffitto; profili di facce spigolose, schizzi di mani e braccia alzate per
      imprecare o ammonire, minacciare o descrivere: il tutto sorretto da un
      mormorio sommesso interrotto, di tanto in tanto, da un richiamo festoso o
      da un’invelenita bestemmia. La
      buona borghesia, quella che contava e governava, frequentava il più
      aristocratico caffè e guardava con poco celato disprezzo al lacero
      groviglio di umanità che, pure, nella cantina si illudeva di affogare la
      propria quotidiana pena di vivere. Dalle
      quattro del pomeriggio alle sette, sette e mezzo di sera, i locali di
      Alberto Cittadini in via della Stazione, quelli di Cavallari, del
      Torcoletto in via Larga, di Giri a Castelnuovo e tutti gli altri (circa
      una ventina), si riempivano di avventori davanti al naso dei quali, tra la
      nebbia del fumo dei sigari, sparivano e riapparivano con sorprendente
      rapidità le fogliette da un quarto, da mezzo litro o da un litro,
      sempre attentamente controllate dai clienti affinché l’oste non facesse
      el cullarì, vale a dire non arrivasse a versare il vino fino al
      segno circolare sul collo della foglietta. Quando
      l’atmosfera si era abbastanza scaldata cominciavano i cori: vecchie e
      tristi storie come quella di Giulia, che il fidanzato aveva trovato morta
      al suo ritorno dal servizio militare; la feroce ballata di Peppino Amato
      dove si promettevano ai signori pugnali, sangue e vendetta;
      stornelli del tipo Al Portu de Ricanati c’è un’usanza, le donne
      maritate fa’ all’amore… Inevitabili
      le canzoni del mare, mentre i più ‘raffinati’ si commuovevano (il
      vino li aiutava) sulle note del Va pensiero e della Vergine
      degli angeli verdiani o su quelle del Miserere che si intonava
      anche per la bara de notte. Gli
      argomenti preferiti nella conversazione riguardavano il lavoro, i
      guadagni, i problemi con i colleghi, le piccole meschinità e i tradimenti
      di ogni giorno. Molti
      giocavano al sotta, nome che veniva dato a colui che comandava il
      gioco: l’ignaro forestiero che si fosse trovato lì per caso avrebbe
      assistito a strani rituali celebrati intorno al bicchiere colmo di vino,
      dal sotta, dal paró, dal giocatore che veniva fatto olmo,
      cioè lasciato all’asciutto. Nel
      gioco, a volte, la tensione saliva pericolosamente: tra un 54 ell’omu
      se despèra e un 55 ‘mmazza la premiera si insinuava con
      facilità la contestazione seguita dall’insulto e poi dal rapido
      spuntare del coltello dalla fascia che cingeva i fianchi del marinaro,
      del pescatore o dell’artiere. La
      cantina e le sue immediate adiacenze erano quasi un luogo deputato per le
      liti; non di rado queste avevano conseguenze gravi come accadde, per
      esempio, il 23 luglio 1899 davanti all’osteria Cavallari. Racconto
      il fatto con le parole della sentenza emessa il 18 gennaio 1900 dalla
      Corte d’Appello di Macerata, presidente il cav. Gaetano Mazzini
      (Archivio di Stato di Macerata, Registro delle sentenze dell’anno 1900,
      n°73): Nel giorno 23 luglio (1899), circa alle ore 14, ebbero
      ad incontrarsi nella osteria Cavallari in Porto Recanati il V.A. e il F.M.
      Tra di essi sorse una questione presto domata dai presenti avendo il primo
      rivolto in tono ironico al F. la parola: ‘bricòcolo. Nella
      sera dello stesso giorno, verso le ore 22, ebbero nuovamente ad
      incontrarsi nella osteria suddetta il V. e il F. e fuori della porta della
      medesima ove si ballava si riaccese la questione ed in seguito a vivace
      scambio di ingiurie il V. vibrò un colpo di trincetto nel petto al F. il
      quale sentendosi ferito afferrò una pietra e la scagliò contro il
      feritore colpendolo alla schiena. Il
      F. riportò una ferita dichiarata guarita in giorni nove ed il V. a sua
      volta altra lesione guarita in giorni sette. Nonostante
      che i due si fossero in seguito accordati, con la conseguente remissione
      delle rispettive querele, il Tribunale condannò comunque a 28 giorni di
      arresti il V. perché …è addimostrato dalle risultanze processuali
      che il V. dopo essere andato freddamente ad armarsi di trincetto assalì
      improvvisamente il F. il quale invece era stato dal medesimo già
      precedentemente ingiuriato. I precedenti poi del V. giustificano per sé
      soli la gravità della pena… Azioni
      da condannare, senza dubbio; né si può dimenticare che troppi fatti
      simili si verificavano nelle cantine. Tutto
      ciò non può però cancellare il positivo che c’era in quella ‘istituzione’,
      se non altro perché essa ha rappresentato l’unica occasione di
      incontro, di svago, di scambio quasi sempre pacifico di opinioni. Anche
      nella vicenda di A.V. e M.F. questo aspetto viene evidenziato: quella
      sera, fuori dell’osteria Cavallari, la gente ballava come probabilmente
      accadeva presso altre osterie. Poi,
      alla fine, si tornava a casa, ma un po’ col vento in prua perché si
      rientrava nella dimensione della vita sofferta di ogni giorno, il pensiero
      di nuovo rivolto alla vasta distesa salata che Dio ci ha dato, a noi del
      Porto, per eterna compagna:  Pacenza
      ‘ita mia se pati pena; Forse
      sbaglio, ma mi pare che l’ultima cantina a chiudere i battenti sia stata
      quella di Primo, all’angolo tra le vie Adriatico e san Giovanni Bosco,
      con ingresso da entrambe. Quella
      cantina resta nella memoria di chi aveva da poco passato l’adolescenza
      agli inizi degli anni Sessanta, come il locale fuori del quale Ovi e
      Didó, indimenticabili personaggi e sciabbegotti, intrattennero una
      vasta compagnia di giovinastri discutendo fino a mezzanotte sulla
      struttura dell’atomo. Quando non ci furono più cantine, anche zi’ Nemesio
      el Trentino e Gujè Occhibelli dovettero trasferire il loro
      spettacolo (il secondo accompagnava all’organetto la danza del primo)
      negli spiazzi all’aperto. Insomma, chiuse le porte delle osterie, finito un mondo. | 
| La
      religiosità degli sciabbegotti era un misto di fede sincera e di credenze
      popolari, anche di superstizioni, il che dava luogo sovente a
      comportamenti piuttosto contraddittori. La
      barca veniva sempre battezzata, anche quando era stata comprata di seconda
      mano, e nel suo interno trovavano posto santini e immagini sacre di ogni
      genere e forma. Quando
      si calava per la prima volta, in qualsiasi ora della giornata, prima che
      la rete toccasse l’acqua, lo sciabbegottu de pupa o il paró pronunciavano
      la formula di rito, che poi era un invito: àneme sante del purgatoriu,
      alla quale l’equipaggio rispondeva: per Maria Santissima. Qualcuno
      toglieva il berettu, altri recitavano il padre nostro, senza
      preoccuparsi, ben inteso, del fatto che poco prima avessero
      abbondantemente smoccolato, magari per qualche banale motivo. Quando
      all’alba spuntava il sole, l’astro veniva salutato togliendosi il berettu
      e dicendo: Bungiornu santu sole. Niente di pagano
      nell’espressione, almeno mi sembra, ma solo il rispetto per il più
      grande fenomeno della natura creata da Dio. La ‘santità’ del sole era
      per gli sciabicotti lo specchio della più grande santità dell’Ente
      Supremo. È
      noto che gli sciabbegotti tengono molto, da sempre, a partecipare alla bara
      de notte, il catafalco dove è poggiato il simulacro del Cristo Morto,
      che viene portato in processione a forza di braccia nelle vie del Porto il
      venerdi santo. A
      dire il vero questa devozione, da noi, è generale; è la comunità che
      partecipa con uguale intensità all’evento, indipendentemente
      dall’appartenenza delle persone a questa o a quella categoria sociale. Ma
      sono gli uomini di mare che si sobbarcano la fatica del trasporto, con
      l’aiuto di uno dei simboli del mestiere di sciabicotto, il cullaru;
      e sono sempre gli uomini di mare che si mettono sacco e cappuccio per
      portare sulle spalle la croce immediatamente dietro la bara (i
      cangiudei). L’usanza
      della processione è di certo antica assai. Quanto alla bara, occorre
      stare attenti a non azzardare ipotesi senza alcun fondamento. Al momento
      non si hanno certezze in rapporto al tempo del suo apparire nel panorama
      dei riti religiosi locali. Per il resto, gli sciabbegotti partecipavano del modo di sentire la religiosità da parte della collettività portorecanatese. Battezzavano i propri figli, li cresimavano e li sposavano in chiesa, dove essi stessi andavano a ricevere la benedizione di Dio prima di andare ad appendere il cullare su da Marino, vale a dire al camposanto (Marino era il nome di una persona che ha fatto lungamente da custode del civico cimitero). | 
| Non
      sono tra quelli che condividono in pieno l’idea della donna
      portorecanatese come vero capitano della nave familiare. Mi pare che
      questo sia il frutto della costruzione di una sorta di mito cresciuto fino
      a vantare rango di verità storica grazie a strumenti impropri per
      misurare la suddetta verità, vedi la poesia o il teatro dialettali. Ciò
      non significa che alla donna debba essere riservato un posto di secondo
      piano nella storia cittadina; significa solo che quello in cui è stata
      collocata fino ad ora mi sembra non propriamente appartenergli davvero. Come
      che sia, essa ha svolto un ruolo determinante nell’economia della
      sciabbega e non di rado partecipava alla fase ultima della pesca, vale a
      dire quando la rete veniva ritirata a terra, proprio come la donna di
      sabbia di Grazia Deledda. Le
      donne aspettavano ansiose l’arrivo dei portatori delle coffe nei
      pressi del mercato ittico, con lo sguardo fisso alla strada. Una
      volta avuto il pescato, assistevano alle fasi dell’astatura e della
      vendita, riferendo agli uomini, in tempo reale, le notizie
      sull’andamento del mercato e sulla qualità del pesce fatto giungere sul
      posto dalla concorrenza. A
      volte riuscivano persino a riferire dove le altre sciabiche avevano calato
      la rete, così da permettere subito ai loro la scelta di un posto diverso. Una
      parte del pescato veniva venduta per le vie del paese con i caratteristici
      cariòli, che servivano anche per il trasporto del pesce in
      campagna, al grido di pesciu, pesciuuuuu! Pesciu frescu vivu vivuuuu!
      Pesciu de sciabbegaaaa! Quella
      dei cariòli è stata un’epopea che merita di essere studiata a
      parte; senza i dilettantismi che, anche qui, hanno fin troppo
      ‘guastato’ una verità storica fatta soprattutto di fatiche
      inenarrabili, verità che si può ancora intuire, per esempio, dalla
      lettura di alcune poesie di Emilio Gardini e percepire con chiarezza, e
      con qualche brivido nella schiena, ascoltando il racconto di chi ancora è
      in grado di parlare per diretta esperienza. | 
| Sugli
      sciabbegotti c’è una letteratura orale sterminata. È fatta soprattutto
      di aneddoti, ma non mancano racconti di situazioni e di momenti che
      meritano di non essere dimenticati. Lo
      scrivo a beneficio di quanti guardano con snobistica alterigia al mondo piccolo
      della sciabica e credono che l’unico impegno culturale degno di essere
      definito tale sia da collocare dalla linea Bergson/Heidegger in su (fatto
      salvo, è ovvio, che cosa si debba davvero intendere per ‘su’). A
      dire la verità, mi fanno un po’ pena perché non sanno proprio quel che
      perdono. Moriranno monchi di un ‘sapere’ che li avrebbe resi capaci di
      capire che cultura è pure sinonimo di umiltà. Ma
      non di sciatteria, sia chiaro. Perché c’è anche da mettere in guardia
      nei confronti dei non pochi ‘studiosi’ improvvisati della storia e
      della tradizione locali. Questi,
      infatti, sono terreni ai quali occorre avvicinarsi dopo essersi dotati
      degli strumenti di conoscenza necessari, i quali non si acquisiscono per
      grazia ricevuta o per eredità familiare, al modo di un mobile. Bisogna
      sapere come si conduce una ricerca storica, linguistica, di folclore e di
      costume. E per saperlo non c’è altra strada che lo studio, con ciò non
      limitando il termine al solo riferimento scolastico. Chi
      crede che trattare della sciabica, come capita in questo numero di Potentia,
      o di altri argomenti che appartengono al patrimonio di civiltà della
      comunità del Porto sia ‘facile’ e perciò roba per tutti,
      lasciatemelo dire, è solo uno sciocco. Bene, finita la predica (me ne scuso, ma a qualcuno, forse, servirà), diamo spazio agli episodi annunciati, che sono soltanto una piccola scelta tra i tanti che sono stati riferiti. | 
| Che
      motivo si ha di affermare che u’ sciabbegottu nun è bonu mancu a
      fa’ da testemoniu? La spiegazione, come ebbe a dichiarare Mario
      Panetti, da me intervistato per la realizzazione della 
      videocassetta del C.S.P. sulla sciabica, ‘è a monte’. Non
      ho ben capito il senso di quel riferimento geografico, ma ricordo
      perfettamente, invece, la storia che Mario raccontò per togliere valore a
      un modo di dire che non può non suonare offensivo per un’intera
      categoria. Eccola. Gli
      Scarfiotti avevano messo su casa anche da noi costruendo una grande villa
      a ridosso della spiaggia. Com’è noto, si tratta dell’attuale
      albergo/ristorante Vincenzo Bianchi. Ciò accadeva, probabilmente, ai
      primi del XX secolo. Già
      da qualche anno l’avvocato Lodovico (primo presidente della Fiat dal
      luglio 1899 al luglio 1908), veniva a passare le sue vacanze d’estate al
      Porto e stava maturando l’idea di costruire qui una fabbrica di cemento,
      cosa che poi fece, a vantaggio e beneficio dell’intera comunità. La
      famiglia si stabiliva in villa all’inizio dell’estate e il suo arrivo,
      come ho scritto nel mio Gli Scarfiotti e Porto Recanati (Porto
      Recanati 1991, p.62) era un avvenimento che…. segnava l’inizio
      ufficiale della stagione; nella grande casa sul lungomare pavimenti e
      mobili risplendevano, la facciata era adorna di fiori e al loro arrivo i
      padroni erano attesi dalla servitù che faceva ala al passaggio della
      famiglia, Maman (Luigia Favale) in testa. Qualcuno ricorda che in quel
      palazzo sostò anche il principe Umberto, in navigazione nell’Adriatico:
      scese a terra e fu ospite degli Scarfiotti per riprendere il mare il
      giorno dopo. Della
      famiglia faceva parte Francesca Faà di Bruno, moglie dell’ingegner
      Luigi e madre del Lodovico futuro campione automobilistico. Il cognome, Faà
      di Bruno, era, ed è, altisonante.  Un
      giorno successe che la signora Francesca non trovò più un suo anello di
      grande valore. Pensa e ripensa, giunse alla conclusione di esserselo
      perduto in spiaggia, con in più il sospetto che il bagnino l’avesse
      trovato e se lo fosse tenuto. La
      faccenda finì davanti al pretore di Recanati, con il bagnino in veste di
      primo sospetto del ‘furto’. Questi, il bagnino, che era anche sciabbegottu,
      chiamò a testimoniare a suo favore un gran numero di colleghi nel
      mestiere del cullaru. Alla domanda del magistrato, “Che cosa
      sapete dirmi dell’anello?”, gli sciabbegotti rispondevano tutti in
      maniera assai evasiva. Esempio, portato da Mario Panetti: Ah, sor
      pretore, iere ‘emu calatu ‘icinu a la sbocca del Putenza e ‘emu
      presu bè. Oppure, alla stessa domanda: Ah, sci; hu dittu a mi’
      moje de mannamme su el pà e de mettece un po’ de furmaggiu. E
      via così fino a esaurimento dei testimoni; alla fine il pretore disse che
      chi aveva avuto e chi aveva dato poteva sentirsi soddisfatto e chiuse lì
      il caso, con un nulla di fatto. Vecchia storia, tipo quella de La farce
      de maître Pathelin, capolavoro del teatro francese del Quattrocento. Dunque,
      afferma Panetti, è vero che gli sciabbegotti non hanno ‘saputo’
      testimoniare, ma solo perché non hanno voluto. Loro sono stati i più
      intelligenti in tutta quella faccenda. Del
      resto, c’è un inoppugnabile documento che attesta, se davvero ce ne
      fosse bisogno, la capacità testimoniale dei nostri artisti della
      sciabica. Nella vicenda giudiziaria di Emidio Maggi, avvenuta nel 1831
      (vedi il primo numero di questa Rivista), tra i testimoni a carico del
      ‘rivoluzionario’ figura Nicola Meschini, nato nel 1791, di professione
      sciabicotto. Dunque… | 
| Il
      5 novembre 1901 il sindaco Enrico Volpini fece affiggere un manifesto
      tutto dedicato agli sciabbegotti. Circa
      un mese prima, il 31 ottobre, il prefetto di Macerata, Borselli, gli aveva
      inviato un telegramma con la richiesta di inviare soccorsi urgenti nel
      territorio di Montelupone inondato a causa di piogge torrenziali e dove
      diversi coloni, circondati dalle acque, aspettavano qualcuno che li
      tirasse fuori da quel brutto guaio. Volpini
      fece appello ai pescatori, i quali, a quanto risulta dal manifesto,
      risposero pronti e volenterosi, allestendo squadre di soccorso
      giunte in pochissimo tempo sul posto: lì, navigando per la campagna a
      bordo delle sciabiche, i nostri si erano distinti per coraggio, salvando
      molte vite e meritando il ringraziamento pubblico e ufficiale del Prefetto
      Borselli. Ecco l’elenco degli eroi: Giri
      Alessandro Il
      manifesto, stampato nella tipografia recanatese Simboli, fu affisso per le
      vie cittadine e ci pare più che giusto ricordarlo perché in
      quell’episodio i nostri sciabbegotti hanno dato una grande dimostrazione
      di altruismo e di capacità L’occasione
      sarebbe buona di affrontare qui un argomento ancora assai poco esplorato,
      quello dei rapporti tra sciabbegotti e contadini, ma ci ripromettiamo di
      farlo in futuro, non disponendo ancora di notizie e documenti sufficienti
      e mancandoci pure lo spazio in questo numero. Non
      va dimenticato, infine, che una grossa mano fu data nell’occasione dai
      nostri carrettieri; furono loro a trasportare a Montelupone, con i
      cavalli, le sciabiche per il salvataggio delle persone in pericolo. Un’altra
      circostanza in cui gli sciabbegotti si resero protagonisti di un atto di
      valore (un’altra tra le tante, in verità), si verificò il 25 aprile
      del 1926. Dal
      giorno prima infuriava un grosso fortunale, che aveva anche causato la
      morte di un pescatore, Attilio Antognini. Altri due, Giovanni Volpini di
      51 anni e Ciriaco Pandolfi erano restati isolati su una barca ancorata a
      circa quattro chilometri dalla riva. Si avvicinava la sera del 25 e la
      barca, appena disancorata, non avrebbe certo retto la furia delle onde.
      Pandolfi era ferito, un colpo di pennone gli aveva rotto due costole,
      l’altro, Volpini, era vecchio, come si esprime il segretario
      comunale, geometra Dante Santucci nel registro delle deliberazioni del
      commissario  Giuseppe Volpini
      (21 maggio 1926).  Ad
      avvisare a terra che i due si trovavano in situazione molto critica era
      stato il vapore Roma, che non aveva potuto soccorrere la lancia, data la
      grande pericolosità della manovra di accostamento e rimorchio con
      condizioni di mare così difficili. Né si era potuto convincere il
      Volpini a tentare da solo di salire a bordo della nave: non aveva voluto
      abbandonare il più giovane compagno ferito. Allora
      otto pescatori escono in mare con una piccola barca a remi, vale a dire
      una sciabica. Affrontano un non piccolo pericolo; sanno che stanno
      mettendo a rischio la propria vita. Come
      che sia, riescono ad accostare la barca e prendono a bordo i due. Il
      ritorno si rivela più pericoloso ancora perché il natante rischia ad
      ogni momento il capovolgimento, specie al momento di prendere terra. Ma
      ce la fanno. Sono tutti salvi. Ecco
      i nomi degli otto protagonisti, tra i quali si trova qualcuno che abbiamo
      appena conosciuto: Giri
      Saverio fu Giovanni, 58 anni, proprietario della sciabica Per
      tutti loro la qualifica è di pescatore, mentre nell’atto si fa speciale
      menzione dei primi due che furono ammirevoli e sprezzatori del pericolo. Lo stesso commissario Volpini, in compagnia del Comandante del Porto di Ancona, era stato testimone del fatto e perciò egli proponeva un’adeguata ricompensa agli otto sciabbegotti e pure a Giovanni Volpini per la sua decisione di restare accanto al compagno ferito. 
 | 
| L’interrogativo,
      per i pescatori del Porto, per quanto antico non ha smesso di avere
      validità anche al giorno d’oggi. Il problema di un posto dove
      consentire l’alaggio delle piccole imbarcazioni è stato affrontato
      tante volte e tanti sono stati i tentativi di trovare una soluzione
      definitiva.  A
      parziale conforto di chi ancora si trova di fronte il problema, riportiamo
      un trafiletto apparso nel quindicinale Il Martello, foglio di
      opposizione all’Amministrazione Volpini/Lucangeli (sosteneva il così
      detto partito Cittadini, insieme di socialisti, radicali,
      repubblicani). Da
      quanto si legge appare che nei primi anni del XX secolo (il trafiletto è
      stato pubblicato nel numero 11 del 6 ottobre 1901) la zona di alaggio era
      a lato della foce del Potenza, verso l’incasato urbano, il che significa
      che chi ha pensato in tempi più recenti alla stessa soluzione, non ha poi
      inventato gran che. Ecco
      il testo che ci interessa: Giorni sono i lancettari, avendo il fiume
      occupato la spiaggia ove eseguiscono lo scalo, furono costretti a mettere
      un tanto a testa e far rimediare alla meglio. Se il fiume si è accostato
      tanto al caseggiato, con un po’ di piena e mare che non riceva, non
      potrebbe darsi che Porto Recanati venisse allagato? Questo prevedeva il
      conte Della Torre (uno della parte di Alberto Cittadini), se non
      erro, un paio d’anni fa quando c’era una questione di usurpazioni. Vi
      fu un’inchiesta in proposito e fu interpellato anche il Genio Civile. Il
      conte Della Torre naturalmente ebbe tutti i torti: ma il fiume,
      accostandosi sempre più al caseggiato, com’egli previde, ora gli da
      ragione…. Il
      fiume va in piena, Amministrazione ladra! Il
      problema fu ripreso in esame dall’Amministrazione comunale (commissario
      prefettizio Giuseppe Volpini) alla fine del mese di maggio del 1926. Le
      lamentele dei bagnini erano state probabilmente notevoli: le lancette e le
      sciabiche tirate a riva in ogni sito della spiaggia di fronte all’incasato
      urbano, rendevano la vita difficile a loro e ai bagnanti. Anche perché i
      pescatori non si limitavano a occupare il necessario, ma spandevano
      ovunque argani, palanche, travi e attrezzi vari. Durante la stagione, tra
      l’altro, veniva ostacolata la regolare collocazione dei capanni.
      L’inconveniente maggiore era l’alaggio delle barche quando le
      condizioni del mare non consentivano la pesca. Allora,a ridosso delle
      lancette e delle sciabiche …vengono lasciati escrementi e rifiuti di
      ogni specie. Ben
      immaginabile il conseguente e frequente esodo dei bagnanti. La Capitaneria
      di Porto di Ancona, alla fine, intervenne in quell’anno 1926 ordinando
      che l’alaggio delle imbarcazioni fosse possibile solo in due punti a sud
      e a nord dell’incasato urbano, salvo …un’acconcia linea di tiro,
      che potrà essere chiamata linea di salvataggio, nella zona centrale resa
      libera per ogni fortunosa vicenda in caso di eccezionali mareggiate…. | 
| Maggio
      1917: l’Italia è in guerra e anche gli sciabicotti sono chiamati a fare
      il loro dovere per contribuire alla vittoria contro gli austro/germanici. Comincia
      così, come si è già accennato nel capitolo Numeri, una lunga
      serie di requisizioni che interessano direttamente le sciabiche. Il
      10 maggio si delibera che le 18 sciabiche in attività cedano quattro
      chilogrammi di pescato a testa, ogni giorno di lavoro; l’11 giugno si
      cambia e adesso sarà il Comune che requisirà direttamente e
      quotidianamente l’intero prodotto di due sciabiche. Ma
      l’impresa non si rivela facile perché le sciabiche riescono a sottrarsi
      alla requisizione, soprattutto perché il prezzo pagato dal Comune è
      giudicato troppo basso. Ancora a fine luglio l’Amministrazione comunale
      lamenta scarsa collaborazione da parte dei pescatori: Quasi sempre o
      con un pretesto o con un altro sono sfuggite all’esatta osservanza
      dell’obbligo assunto. Non
      è giusto, secondo la giunta comunale, escludere dall’approvvigionamento
      i forestieri; probabilmente qualcuno aveva creduto bene di pensare prima a
      quelli di casa nostra e poi agli altri. Si
      procede, comunque, a un nuovo sistema di requisizione, ma in nessun modo
      se ne riesce a trovare uno che soddisfi gli sciabbegotti.  Come
      si sarebbe potuto, con la miseria dilagante di quei tempi? E
      così si va avanti fino alla fine della guerra e oltre: l’ultimo
      provvedimento in materia, infatti, è del dicembre 1918, quando,
      finalmente, le requisizioni cominciano a riguardare anche le cinquanta
      barche a vela che hanno ripreso la loro attività. Le sciabiche, essendo
      tra l’altro inverno, sono lasciate in pace. | 
|   Vincenzo
      Scalabroni, che troviamo presente anche nell’elenco dei pescatori
      accorsi a Montelupone per l’inondazione del 1901, pare fosse considerato
      al suo tempo il punto di riferimento degli sciabbegotti del Porto. Lo
      chiamavano, come ricordava la figlia Ida, capo barzotto, termine
      che apprendo per la prima volta. Era
      nato il 25 agosto 1873, da Giacomo e Vittoria Braghini. Il 9 agosto 1899
      prestò soccorso al pescatore Arturo Pierantoni naufragato con la barca da
      pesca I due fratelli capovoltasi nelle acque di Porto Recanati. Per
      questo aveva ricevuto un attestato di benemerenza dal Ministero della
      Regia Marina. Il
      Capitano del Porto di Ancona, a sua volta, gli concesse un encomio per
      l’azione di merito compiuta il 18 agosto 1903, quando aveva salvato
      Pasquale Gaetini (di Lorenzo), che stava per annegare. E
      poi c’era stato l’encomio solenne dell’Ammiraglio Comandante in Capo
      del Dipartimento Militare Marittimo di Venezia …per lo slancio e
      l’opera zelante spiegata in occasione della cattura della Torpediniera
      Austriaca T.Bi/11, avvenuta lì 5 ottobre 1917. Così si legge nel
      Foglio di Ricognizione della Marina Mercantile Italiana, documento che è
      in possesso della famiglia Scalabroni. Racconta
      il nipote Mauro che tra i vari lavori che Vincenzo aveva svolto, c’era
      pure quello di aiutare le paranze di San Benedetto del Tronto (vedi il
      capitolo Numeri) nelle operazioni di sbarco del pesce e di
      rifornimento di viveri e attrezzi vari.   Su
      zì Saè el Cuciniero lasciamo lo spazio a V., che ne offre un vivace
      ritratto: Uno dei più vecchi bagnini è stato Saverio Panetti, che
      tutti han conosciuto col soprannome di Cuciniero. Gli piaceva parlare,
      parlare: al bar de Storà tenea banco. E tale passione è rimasta anche al
      figlio Mario, che appunto perché predica sempre lo hanno soprannominato
      el pastore. Beh, quando d’estate i bagnanti domandavano al vecchio zì
      Savè che tempo avrebbe fatto l’indomani, perché magari avevano in
      progetto una gita in barca fino alle due sorelle (le grandi rocce
      emergenti dal mare accostate al Monte Conero), questi si metteva
      l’indice della mano destra in bocca, poi portandolo in alto sentenziava:
      ‘Dumà fa’ maestralettu, partite sciguri’. Qualche volta il giorno
      dopo veniva ggió la tressa! Oppure, guardandosi attorno, con aria grave
      esclamava: ‘Orizzonze de qua, orizzonze de là (da notare la ‘z’) el
      tempu è nubile, minaccia di pioggere’   Ancora
      un quadretto di V. Questa volta si tratta del mitico ccì Pacchió.
      Va ricordato, come ci ha fatto già notare Alessandro Mordini, che al
      Porto tutti gli anziani venivano chiamati zì dai più giovani,
      senza che ci fosse alcun rapporto di parentela. Era un segno di rispetto
      per chi aveva più esperienza di vita; questi, di rimando, si rivolgeva
      all’interlocutore giovane chiamandolo nepote. Scommetto
      che pochi a Porto Recanati saprebbero chi è Pasqualì Scalabroni, ma
      basta dire il suo soprannome, ccì Pacchió, che ‘ncora i piri di banghi
      lo conoscene! Anzi, si offende (il
      verbo è al presente perché all’epoca di questo scritto, ccì Pacchió
      era ancora in vita) se lo chiamate per nome, per tutti è solo ccì
      Pacchió. Quando incontra qualcuno è sempre il primo 
      a salutare, mille mija da longo: ‘Bongionno, bongionno ccìo’.
      E’ evidente che ha poco in simpatia qualche consonante, oppure sono i
      denti! Ormai ha superato gli ottanta e da giovane è stato un bravo
      sciabbegotto e un ottimo scalante. Quante volte el defunto babbo, zì Nannì,
      zì Spartè l’hanno mandato a chiamare pe’ tené le palanghe de prua
      quando araene cu’ la maretta, perché ccì Pacchió era un maestro per
      capì quando riàa la valìa (ala?) bona. Perché se ‘ndài
      in marina cu’ la lancetta, eri lestu dopu! 
 Era
      anche pesce di sciabica quello sistemato sui cariòli delle
      pescivendole che andavano a venderlo in paese o lo esportavano nelle
      località vicine. Il 17 maggio 1901 si celebrò di fronte al regio pretore
      di Recanati il processo contro …Giri Francesca fu Vincenzo di anni
      37, Flamini Vincenza fu Antonio d’anni 66, Bronzini Maria-Caterina di
      Nazzareno, d’anni 21, tutte pescivendole di Porto Recanati, imputate le
      prime due d’ingiurie ai sensi dell’art. 395 cap. 1° C.P. per avere in
      Porto Recanati il giorno 2 aprile 1901, pubblicamente ed in sua presenza
      offeso la riputazione di Bronzini Caterina con le parole ‘puttana,
      puzzona e simili’. La terza –a) di minaccie (sic) ai sensi
      dell’art. 156 C.P. per aver minacciato Flamini Vincenza con un bastone
      in mano col quale voleva percuoterla, reato commesso il giorno 2 aprile
      1901 a Montefano; -b) d’ingiurie ai sensi dell’art. 395 cap. 1° C.P.
      per avere ingiuriato nelle circostanze di tempo e luogo pubblicamente ed
      in sua presenza offeso la riputazione di Giri Francesca con le parole di
      avere fatto la spia al daziere Mattioli Pacifico di Montefano acciocché
      questi avesse fatto la contravvenzione alla Bronzini Caterina perché
      diceva che aveva del baccalà senza daziare. Le tre si risolsero infine a rimettere le rispettive querele, di modo che il pretore sentenziò non esserci più luogo a procedere, condannando però le donne al pagamento delle spese processuali (Il documento è tra le carte del CSP). 
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| Consegnamo
      questa ricerca ai portorecanatesi, che della sciabica hanno fatto
      l’esperienza diretta o che l’hanno soltanto vista in azione o, e qui
      ci riferiamo ai più giovani, ne hanno solo sentito parlare (e forse
      nemmeno quello).  
 Lo
      abbiamo già scritto in qualcuna delle pagine precedenti e qui vogliamo
      ribadirlo: fuori dagli stereotipi che tanto piacciono a certi neofiti
      della ricerca storica, il cui lavoro è quasi sempre fonte di confusione
      perché sorretto solo da un dilettantismo ricco di presunzione, resta che
      la vicenda secolare degli “sciabbegotti” è uno specchio importante
      della storia della nostra comunità. È
      con questa convinzione che abbiamo lavorato per fornire anche su questo
      tema un punto di riferimento a chi vorrà interessarsene in futuro. | 
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