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        Presentazione  | 
  
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 L’omaggio
      al Poeta era dovuto, e da gran tempo. L’occasione ci è stata offerta
      dalla sistemazione delle lapidi sulla facciata del castello svevo, che
      ricordano a tutti come il nostro mare abbia ispirato la Musa di uno dei più
      straordinari protagonisti della Letteratura mondiale. Esso
      vuole anche testimoniare della nostra volontà di mantenere e sviluppare
      rapporti proficui con il Centro Nazionale di Studi Leopardiani, diretto
      dal nostro presidente onorario, e amico, Franco Foschi. Nel
      contempo non dimentichiamo certo che questo anno 2002, da poco iniziato,
      ci sta conducendo al ventesimo compleanno della nostra Associazione. E’
      un evento che celebreremo senza trionfalismi, ma con la serena coscienza
      di aver cercato sempre di rendere un servizio alla Comunità, per
      ravvivarne e salvaguardarne la memoria storica, le tradizioni e gli usi e
      la lingua, per contribuire a creare opportunità di confronti, di
      dibattiti, di crescita culturale. Oltre
      ad essere serena, la nostra coscienza è anche forte, il che ci permette
      di essere sempre disponibili ad ogni utile collaborazione e sempre
      indisponibili a qualsivoglia tentativo di incapsulamento, di
      normalizzazione ad usum senatus, di delegittimazione: siamo nati
      gelosi della nostra libertà, un sentimento che, col tempo, è diventato
      una malattia. Cronica. Irreversibile. Abbiamo
      una speranza: di poter  ancora
      a lungo a svolgere l’attività che ci compete garantendo agli altri il
      più grande rispetto per il loro operato e, naturalmente, pretendendone
      altrettanto. Ci auguriamo che i soci, i lettori, i concittadini e quanti altri ci seguono, continuino a pensare che il CSP, come è stato per il passato, continuerà a rappresentare uno dei punti di incontro per chiunque, uomo o donna, giovane o meno giovane, laureato o no, nutra davvero amore per Questo Porto. Il
      Direttore 
 Porto Recanati, inverno 2002. 
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      di Carlo
      Trevisani
      Vedere
      volare: immagini di volo catturate da terra nel giro di appena un mese,
      eppure distanti anni luce tra loro. “Ali
      per la vita”, viste sfrecciare nel cielo e sul mare di Porto Recanati,
      in un tripudio di folla festante, affascinata dalle fragorose e ardite
      evoluzioni della Pattuglia acrobatica nazionale. Ali
      portatrici di morte, viste penetrare e scomparire dentro le due torri di
      New York, con la stessa irrisoria facilità con cui una lama rovente
      penetra in un pane di burro, nel silenzio irreale della diretta televisiva
      mandata in onda dalla CNN, e riproposta ossessivamente sui nostri
      teleschermi, quasi ad immortalare l’orrore del terrore, reso ancor più
      assurdo dal volo disarticolato di poveri corpi senz’ali, costretti alla
      scelta disumana di gettarsi nel vuoto, per evitare lo scempio straziante
      del fuoco. Ambivalenza
      del volo, dunque, che al pari di ogni altra realtà umana può essere
      strumento solidale di vita, se ispirato da sentimenti di amore, e
      diventare veicolo distruttivo di morte, quando siano pulsioni di odio a
      indirizzarne la rotta, in sintonia con la fondamentale intuizione etica
      leopardiana, secondo la quale “L’amore
      è la vita e il principio vivificante della natura, come l’odio il
      principio distruggente e mortale” (Zibaldone: 59). E,
      a proposito di Leopardi, il tema specifico del “volo” è presente
      nella sua opera, sia in due passi dello Zibaldone e in un brano della
      “Palinodia al Marchese Gino Capponi”, che contengono intuizioni
      folgoranti e quasi profetiche sulle prospettive di sviluppo
      dell’aeronautica civile, e sia nei versi conclusivi del “Canto
      notturno di un pastore errante dell’Asia”, in cui il sogno del volo
      umano affiora, ma solo per un istante, come erronea illusione di felicità,
      suscettibile di riscattare l’uomo dalla sua funesta condizione naturale. Nel
      settembre del 1821, trattando della casualità di tante invenzioni
      scientifiche, Leopardi si pone un interrogativo in cui è racchiusa quella
      sorta di intuizione profetica di cui si diceva: “Chi
      sa che l’aeronautica non debba un giorno sommamente influire sullo stato
      degli uomini?” (Zibaldone: 1738). Alcuni
      anni più tardi, nel settembre del 1826, l’intuizione si farà più
      precisa e circostanziata: “..se i palloni aerostatici, e
      l’aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l’uso ne diverrà
      comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà, se tanti
      altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi
      ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran
      parte la faccia della vita civile, come non è inverosimile, e se in
      ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto; certamente gli
      uomini che verranno di qua a mille anni , appena chiameranno civile la età
      presente,.. (Zibaldone: 4198). Ancora
      a distanza di un decennio, quando Leopardi è ormai giunto all’ultima
      fase della sua vicenda poetica e umana, la previsione dello sviluppo dei
      collegamenti aerei si fa ancora più nitida, in alcuni versi della
      composizione satirica intitolata “Palinodia al Marchese Gino Capponi”: “Da Parigi a Calais, di quivi a Londra, Dai
      brani citati dello Zibaldone e della Palinodia emerge l’immagine di un
      Leopardi inconsueto, attentissimo all’evoluzione della scienza e della
      tecnica del suo tempo, e capace di prevederne gli sviluppi e di intuirne
      le influenze sulla condizione umana (l’aspetto che più gli sta a cuore)
      con oltre un secolo d’anticipo: basti pensare che Leopardi intuisce
      l’evoluzione dell’aeronautica al tempo dei primi palloni aerostatici,
      nei primi decenni dell’ottocento, e che i primi collegamenti aerei di
      linea saranno istituiti solo verso la metà degli anni trenta del secolo
      appena concluso. Un
      approccio del tutto diverso al tema del “volo” è quello dei versi
      conclusivi del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, in
      cui Leopardi, dopo aver posto a raffronto la tranquillità della
      condizione animale con l’inquietudine e il tedio della condizione umana,
      si abbandona al sogno del volo come estrema, quanto illusoria, prospettiva
      di felicità:      Forse s’avess’io l’ale L’immagine di sconfinata libertà del pastore che sogna di volare sopra le nubi contando le stelle, e di correre tra le cime dei monti come il rombo del tuono, quasi evocando il mito di Icaro, può lasciare intuire le sensazioni che deve provare il pilota solista delle “Frecce tricolori” durante le sue mirabolanti acrobazie. L’interesse di Leopardi per il tema del volo costituisce un ulteriore punto di contatto della terra marchigiana compresa tra le valli del Potenza e del Musone col mondo dell’aeronautica, oltre a quello rappresentato dalla Madonna di Loreto, universalmente riconosciuta come “celeste patrona” degli aviatori.  | 
  
      
      di Nando
      Carotti
      Ci sorge il dubbio che non sia stato facile
      l’approccio di Giacomo Leopardi alle arti figurative se, non più
      all’inizio della propria esperienza terrena, egli può ancora
      raccogliere nello “Zibaldone” pensieri che paiono più critici che
      esplorativi. E forse il dubbio nasce proprio leggendo e rileggendo quanto
      scrive un poeta che eleva il proprio ammirevole monumento basandolo sulla
      sofferenza, sulla solitudine, sulla incomprensione riservatagli da quel
      suo mondo racchiuso tra la finestra sulla piazzetta e le antiche mura. Nessuno riuscirebbe ad immaginare il poeta
      recanatese nell’atto di inebriarsi di entusiasmo e di gioia quando mosso
      dall’osservazione del creato. Come nessuno si meraviglia che quel
      medesimo creato lo induca alla introspezione ed a nuova sofferenza, questa
      volta interiore, anche se l’artista sa bene che esse, introspezione e
      sofferenza, sono i veri motori capaci di produrre ed alimentare l’opera
      d’arte. Ma come potrebbe meravigliare che lo spirito leopardiano sia un
      continuo contrasto? La verità è piatta: è la fantasia che la rende
      dinamica. Così può sorprendere che Leopardi affermi “...Par che tutto
      lo scopo che si propone uno scultore (siccome un poeta) sia che la sua
      opera paia una statua antica (come un poema antico), dovendo solamente
      cercare ch’ella sia tanto bella quanto un’antica, o più bella ancora,
      quantunque, se si vuole, nel genere del bello antico” (19 Set.1823). Può
      sorprendere, abbiamo detto, ma non tanto se si considera quando, dove,
      perchè: per convincersene sarebbe sufficiente una sua affermazione
      successiva (24 Gentile. 1824) “Una statua, una pittura, con un gesto, un
      portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito, ancorchè non bello questo,
      nè bene eseguita quella, ci rapisce subito gli occhi a sè, ancorchè in
      una galleria d’altri mille, e ci diletta, almeno a prima vista, più che
      tutte queste altre...”. Non potendo mettere in dubbio la sua assoluta
      buona fede, e riconoscendogli quel nonsochè di più che evidenzia il
      genio, attribuiamo le sue idee in materia d’arte a condizioni temporali,
      ambientali e psicofisiche non trascurando, anzi tutt’altro, il suo
      sforzo penetrativo ed interpretativo. Oggi sappiamo bene che l’arte
      figurativa, ben lontana dal voler soltanto imitare l’antica, si
      appropria delle doti del genio non per negare la realtà ma per andare
      oltre la realtà, non per modificarla ma per immaginare come potrebbe
      essere se tutti possedessimo le doti necessarie per vedervi “dentro”
      ed “oltre”. E questo, con buona pace del poeta, nemmeno Leopardi
      poteva immaginare che sarebbe accaduto. È anche vero che altrove, sempre nell’opera
      citata, Leopardi scrive battute e commenti del tutto differenti:
      certamente non per incostanza, più probabilmente perchè lo
      “Zibaldone” non è, e non voleva essere, un trattato, un libro di
      testo, ma semplicemente una raccolta di pensieri buttati giù man mano che
      il poeta li formulava tra sè e sè, appunti, giudizi, ricordi
      occasionali, riflessioni; al Poeta doveva essere caro quel “...io mi son
      un che quando amor mi spira noto, ed a quel modo ch’ei ditta dentro vo
      significando” di dantesca memoria. Forse con un pizzico di troppo di
      malinconia, di tristezza non sempre idonea, per sua stessa natura,
      all’apprezzamento dell’arte figurativa. Il che contrasta, a nostro
      parere, con l’affermazione di due anni precedente (19 Lug. 1822), che
      “in ultima analisi la forza dell’arte nelle cose umane è maggiore
      assai che non è quella della natura”: ci balena il dubbio,
      piacevolissimo del resto, appagante, che il Poeta intravedesse che non
      tanti anni dopo di lui, appena un centinaio per la storia, l’artista
      figurativo si emancipasse, si svincolasse dalle pastoie della tradizione e
      del mitologico e, rischiando l’ostracismo ma in un supremo anelito alla
      libertà di espressione, mirasse alla “costruzione” di una verità
      che, non rinnegando quella fino allora nota ma prendendo lo spunto da
      quella, somigliasse di più alla realtà che, appunto perché tale, non
      poteva essere statica né limitata nei soggetti e nelle forme. Ci balena
      il dubbio, insomma, che Leopardi sia stato, almeno nei confronti delle
      arti figurative, un indicatore “ante litteram”, un precursore della
      spinta alla ricerca dell’arte totale. Ci sarebbe piaciuto poter disquisire di persona con
      il Poeta intorno all’argomento: perché è molto probabile che
      l’istinto alla ricerca della vera dimensione della realtà ci
      accomunasse, accomunasse i nostri sforzi; anch’egli infatti rimane
      perplesso di fronte ad “un corpo che non sia nè largo, nè lungo, nè
      profondo...cambiamo la parola: diciamo uno spirito: a noi par di avere
      un’idea. E pur che altro abbiamo che una parola?”. E noi artisti
      moderni, noi derivati da quei figurativi cui fa cenno il Poeta, non siamo
      forse partiti dalla parola per tentar di giungere, ciascuno per la sua
      strada ma tutti insieme nell’unica direzione possibile, a rappresentare
      il concetto nascosto nella parola astraendo dal mito? Non abbiamo forse
      dipinto e scolpito l’amore, la sofferenza, l’angoscia, la gioia,
      l’amicizia e l’inimicizia, la pace e la guerra, la carestia e
      l’abbondanza, la vita e la morte? Forse il Leopardi, se potesse vedere
      le opere d’arte figurativa del secolo che l’ha seguito, non
      apprezzerebbe certi stili, certi modi: ma sicuramente troverebbe in esse
      un lodevole, anche se non sempre ben riuscito, tentativo di far diventare
      corpo apprezzabile quella “parola” che da quando mondo è mondo
      scoraggia i geni più agguerriti.  | 
  
      
       | 
  
      
      di 
      Aldo
      Biagetti
      Getulio
      Cingolani nasce il 1° febbraio 1891 a Porto Recanati, in una modesta casa
      a due piani sita lungo l’attuale Corso Matteotti al civico 168
      (all’epoca n. 91), da Domenico e da Giacinta Zaccari. Domenico
      svolge una faticosa ma saltuaria attività come bracciante agricolo e pur
      avendo l’infaticabile moglie aperta una piccola attività di mercerie
      nella casa per il Corso, decide di partire per l’America Latina volendo
      assicurare, alla numerosa famigliola, un introito sufficiente per le
      esigenze della vita e per sostenere adeguatamente i figli che intendono
      dedicarsi agli studi . Va a lavorare nelle miniere di rame, ritorna dopo
      11 anni con un’artrite deformante e con diversi malanni. Compra subito
      due piccoli poderi in Comune di Loreto ed 
      un’altra casetta per il Corso, non lavora, ma cura i due campi
      tenuti a mezzadria, partecipa alla vita cittadina. È molto attivo nella
      Confraternita di Don Albino Mancinelli, sempre presente nelle numerosi
      processioni per portare i lampioni di vetro sostenuti con aste in legno
      dorato. La moglie è la cassiera dell’Associazione delle Madri
      Cristiane, due figli sentono la vocazione religiosa. Maria
      si fa suora e dopo anni di attività a Porto Recanati diventa Superiora
      dell’Istituto del P.mo Sangue ad Ascoli Piceno. Padre Alfredo
      (Nazzareno) è Beatificiario della Basilica Lauretana, Canonico della
      Cattedrale di Recanati, ove muore il 29/10/1968, è tumulato a Loreto. Attilio
      non prosegue gli studi e preferisce l’attività artigiana (falegname),
      Getulio frequenta il Ginnasio all’Istituto Salesiano di Loreto e poi il
      Liceo Classico in Osimo, si iscrive a Bologna alla Facoltà di Agraria 
      ma un anno dopo passa a Medicina. Muore ora il padre (22/08/1911)
      ma per le consolidate risorse finanziarie della famiglia non vi sono
      problemi per Getulio, per continuare gli studi. Appena
      scoppiata la Prima Guerra Mondiale parte volontario per il fronte, nel
      1916 – approfittando di una licenza- prende 
      la laurea, per ritornare immediatamente in prima linea, come
      Tenente Medico della Croce Rossa. Congedato
      alla fine del 1918 esercita la professione a Porto Recanati ed è subito
      un acuto ed attento osservatore dei costumi e dei sentimenti della sua
      gente che più avanti, quasi al termine della sua vita, illustrerà in una
      serie di poesie nel dialetto locale, sempre così vivo e frizzante. Getulio,
      dopo un anno di assistentato in Ancona, con il Prof. Baccarini, si
      specializza a Roma in pediatria. Nel 1925, l’11 luglio, si sposa con
      Wanda Sirà, un’insegnante nata a Perugia il 25 gennaio 1896, da Andrea,
      di Lione, ufficiale postale  e
      da Maria Fringuelli di Perugia, sarta. Ottenuto il diploma magistrale in
      Ancona, ove la famiglia si era trasferita per motivi di lavoro, Wanda, a
      seguito anche della prematura morte di entrambi i genitori, si dedica
      all’insegnamento prima a Penna  S.
      Giovanni, poi a Treia. Nel 1919 è a Porto Recanati, ove alloggia, 
      fino al matrimonio nella Pensione Roma, di Antonio Biagetti, sul
      Lungomare di Viale Lepanto. Getulio
      e Wanda hanno tre figli, la primogenita muore a soli sei anni.  Nel
      1932 Getulio è a Roma, quale assistente di uno studioso tedesco, segue
      pure un corso di specializzazione sulle malattie tubercolari (all’epoca
      molto diffuse), con studi approfonditi sulla cura della tubercolosi
      polmonare, con tecniche d’avanguardia per l’epoca. Una
      mattina mentre sul ciglio del marciapiedi è in attesa di un mezzo
      pubblico, viene investito da una macchina condotta da un alto esponente
      del Fascismo, il generale Pariani, che però subito si allontana. Riporta
      un trauma cranico e fratture multiple, portato subito all’Ospedale avrà
      una guarigione lenta e non completa. Ritornato
      a Porto Recanati riprende la sua attività come medico condotto,
      professionalmente ancor più preparato, ma sempre attento alle ansie ed
      alle aspettative della gente. Gira sempre con due ricettari, su uno
      riporta di continuo impressioni, battute umoristiche, frasi che poi
      traduce in sonetti nel locale dialetto. Sollecitato
      dagli amici si presenta ad un concorso per poesie in vernacolo indetto
      dall’Ente Fiera della Pesca in Ancona (1936), ottenendo un buon
      successo, classificandosi al secondo posto dopo il maceratese Affede. Sull’onda
      del felice risultato, raccoglie una cinquantina di sonetti in un volumetto
      che intitola “Al Portu de Ricanati c’è l’usanza”, edito dalla
      Tipografia Pupilli, che si presenta con un bel frontespizio, opera
      dell’amico Cesare Peruzzi, già affermato pittore. E’ questa, ed è
      doveroso sottolinearlo, la prima opera in dialetto portorecanatese, Nel
      1937, nell’assistere alcuni ammalati, componenti del Circo Arata che si
      sta esibendo a Porto Recanati, Getulio si ammala seriamente, sorgono
      complicazioni, gli viene riscontrata una pericardite. Aggravandosi la
      situazione decide di farsi visitare – siamo nell’aprile del ’38; va
      a Roma dal Prof. Frugoni, uno dei più grandi clinici di quegli anni.
      Frugoni lo trova molto debilitato e gli prescrive particolari cure prima
      di un necessario intervento, ma un attacco di cuore porta Getulio
      precocemente alla tomba, la mattina del 18 maggio 1938. Wanda
      provvederà ad ogni necessità e cure dei due figli (sette e nove anni),
      continuerà ad insegnare con grande impegno ed elevato rigore morale fino
      al 1958, si spegnerà poi – dopo lunga malattia – il 31 gennaio 1983. Sono
      passati  65 anni dalla
      pubblicazione de “Al Portu de Ricanati c’è l’usanza”, 
      una raccolta di 50 poesie, forse una cernita fra tante altre che
      solo la prematura morte impedirà all’autore di dare alle stampe. Molta
      simpatia ed interesse suscitarono subito i sonetti nell’ambiente locale,
      anche per questo non si comprende il successivo lungo oblio da parte di
      settori della Comunità locale, forse dovuto alla devastante Seconda
      Guerra Mondiale, forse al sorgere tempestoso di nuove mode, di altre
      attenzioni. In 
      tutto questo lungo asso di tempo infatti, oltre ad alcuni
      appassionati articoli di  Sanzio
      Flamini sulla “Voce Adriatica” in occasione dei venti anni della morte
      e ad una schematica segnalazione a pag 54 di “Porto Recanati nostro”
      di Antonio Galieni (Editore Micheloni – Recanati , 1980) registriamo
      solo la conferenza tenutasi a cura del CSP nella Sala Consigliare di
      Palazzo Volpini il 27 febbraio 1993 su: “GETULIO CINGOLANI – UOMO E
      POETA”. Relatore
      fu Marino Scalabroni, che volle tracciare un profilo completo del nostro
      personaggio, riteniamo giusto e doveroso riportarne integralmente i più
      importanti passaggi: “Il
      Centro Studi Portorecanatesi nella sua continua ricerca per dare alla
      nostra comunità  una
      coscienza del suo essere e una identità storica ha potuto riscoprire
      figure eminenti che, pur ben figurando nei vari campi della cultura,
      dell’arte e della fede, per aver operato lontano dai confini limitati
      della terra di origine e spesso fuori degli stessi confini nazionali,
      hanno perduto ogni riferimento con Porto Recanati, scivolando via dai
      meandri della memoria storica del nostro tempo. Non si può dire la stessa
      cosa per un eminente figlio di questo paese, la cui voce, dopo quasi 50
      anni dalla morte, continua ad essere viva e calda e appassionatamente
      cercata dai portorecanatesi: GETULIO
      CINGOLANI, medico e poeta, dalla vena popolare vivace e fresca. Per i
      portorecanatesi Getulio Cingolani è il poeta locale unico, perenne, il
      poeta per antonomasia. Senz’altro è stato il primo a pubblicare una
      raccolta di versi in dialetto portorecanatese, ad affrontare una opinione
      pubblica impreparata, senza il supporto di circoli di cultura aperti 
      al gusto del vernacolo, allora piuttosto trascurato dalla cultura
      ufficiale. Getulio Cingolani, però, 
      non era limitato da problemi estetici di sorta. La sua preparazione
      umanistica, scaturita da una scuola come il Ginnasio Salesiano di Loreto e
      il Liceo Classico di Osimo, era tale da rendere sensibile il cuore ed
      agile il pensiero, la sua professione di medico chirurgo gli permetteva un
      contatto costante e genuino con il popolo, con la gente comune del paese,
      marinai e artieri, in un tessuto sociale ancora omogeneo e pittoresco. La
      sua origine, in fondo, era popolare…e la conquista di una laurea non sarà
      sufficiente ad imborghesire un carattere indipendente ed anticonformista
      come quello di Getulio, che sceglie, per esprimere i suoi sentimenti, il
      linguaggio del popolo, il linguaggio che era allora vivo e corrente. È un
      linguaggio che consente di toccare il cuore e di esaltare i sentimenti, ma
      è anche un linguaggio che può potenziare gli spunti picareschi 
      e maliziosi tipici della poesia popolare. L’uomo d’altronde
      respira a pieni polmoni quest’aria salmastra, perché la sua natura non
      subisce forzature, la vena scorre leggera, la rima dei sonetti guizza via,
      i ritmi e gli accenti raggiungono l’armonia. Sono acquarelli che non
      cadono nel concettoso e artificioso. La prima sensazione, leggendo, è
      quella di credere che il poeta  abbia
      scritto tutto per un suo, personale intimo godimento. Solo l’insistenza
      di qualche amico, scopritore di talenti, poteva convincere Getulio
      Cingolani a dare alle stampe il frutto della sua ricerca di tipi e di
      fatti visti con l’angolazione della sua ottica di osservatore acuto,
      malizioso e ricco di “humor”…;   “Al Portu de Ricanati” è una selezione accurata di
      50 poesie tratte da un cassetto che a parere nostro ne doveva con tenere
      molte di più e, forse, ancora più incisive e 
      più esclusive di quelle prescelte. Probabilmente l’autore si
      riproponeva di presentarsi ancora al pubblico degli estimatori con un
      altro volume,  perché il
      successo dell’opera era stato evidente in quel lontano ’36, oggi
      estremamente remoto rispetto a questo nostro tempo così pretenziosamente
      ricco di facile sapere. Ma Getulio Cingolani, medico e poeta, a soli 47
      anni, in quel lontano mattino del 18 maggio del 1938, stroncato da una
      malattia indomabile, moriva. Moriva un uomo, padre e sposo, moriva un
      medico e moriva un poeta. Lasciava un  profondo vuoto nella famiglia, ma lasciava anche un gran
      ricordo tra la gente,  tra
      quel popolo del quale era stato il cantore. Lasciava un vuoto nel campo
      del costume del suo tempo che dopo di lui per decenni restò nell’oblio.
      Un taglio netto, verticale, una perdita di valori preziosi ed irripetibili
      che nessuna ricerca odierna potrà completamente restituirci. Un
      patrimonio immenso, linguistico, lessicale, folcloristico è disperso
      ormai nella memoria profonda di pochissimi sopravvisuti. La crudeltà del
      destino, sottraendo Getulio Cingolani, allora e in quella realtà, ci
      derubò dell’unico attento, curioso testimone di un tempo che gli eventi
      della storia e del costume costituivano quale cerniera di due modi di
      essere di questo paese. Travolto dal progresso, culturalmente colonizzato
      dalla televisione, dal turismo, dalla immigrazione massiccia, dalla scuola
      che per tanti anni ha concorso ad abbattere le ultime resistenze della
      cultura popolare, questo paese si è visto crescere in termini di spazio e
      di abitanti, più macchine, più ricchezza, più godibile livello di vita.
      Ma resta una grave crisi di identità, reale e concreta. Per questo
      abbiamo sentito il bisogno, pressante come un debito di coscienza da
      pagare, di ricordare l’anniversario della morte di Getulio Cingolani,
      cui tutti dobbiamo riconoscenza.” Continuando
      il suo intervento Marino Scalabroni ricorda come nel 1958 Sanzio Flamini
      avesse sollecitato l’Amministrazione Comunale e la Pro-Loco per una
      commemorazione del “nostro unico testamentario della poesia
      dialettale”. Anche
      quella di Sanzio Flamini fu una voce nel deserto. Né
      allora – conclude Scalabroni – venne raccolto l’appello affidato
      alle colonne di un giornale,né oggi è stato ancora accolto l’appello
      che il nostro Centro Studi ha lanciato affinchè il nome di Getulio
      Cingolani sia onorato dalla città che gli diede i natali, dedicando a
      quest’uomo eminente una strada, una piazza, una lapide a perenne
      testimonianza. Oggi, mentre si conclamano i valori e si esalta l’uomo teorico e metafisico, facilmente si dimenticano quei valori che, qui tra noi, hanno veramente incarnato e vissuto le virtù civili, meritando il ricorso delle future generazioni.  | 
  
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 di
      Alessandra Cerioni
      Pubblichiamo volentieri il breve omaggio, ma quanto
      sentito!, che la giovane jesina Alessandra Cerioni rivolge al nostro
      Porto. Ne siamo felici e ringraziamo di cuore. Se
      giunsi volontariamente o involontariamente in quel Porto non credo di
      averlo capito ancora. Perché quando ti volgi verso qualcosa o ne sei
      attratto, non sai, nel momento in cui avviene, se dipende da una tua
      volontà o si tratta di altro, qualcosa di diverso, superiore alla
      coscienza, che da quella parte ti spinge. Lì
      dovevo andare per lavoro, questo è ciò che con lucida coscienza e
      certezza sapevo, ma sempre lì era anche che sentivo di voler andare. Da
      quella piccola piazza, fiera di fronte al suo mare, quella passeggiata
      infinita che lo fiancheggia e che con esso va a congiungersi al termine
      dell’asfalto e delle mattonelle.  Le
      vie così regolari nella loro disposizione, nei colori e nella fattezza di
      quelle case. In una di quelle alloggiavo e mi piaceva pensare che proprio
      lì, chissà, molti prima, qualche lancettaro si accingeva a dormire, con
      la preoccupazione che quella brezza, che aveva accarezzato il suo viso al
      rientro, fosse l’avvertimento del mutare della direzione del vento
      buono: per lui quel mare era materialmene fonte di vita. Vivevo
      spesso di notte e proprio con la notte capii che il fascino di quei luoghi
      non era dato solo dalla luce del sole che li illuminava e mostrava. Io
      non sono nata in un posto di mare e mi ritrovavo così a pensare
      continuamente a quella presenza, al rumore delle onde che senza fine si
      infrangono sulla riva e su quella punta di scoglio e continuamente si
      ricreano. Nella città senza mare la gente, per ritrovare il proprio
      equilibrio, credo si rivolga alla luna….però la luna è così lontana e
      piccola! Ora
      non mi trovo a Porto Recanati, ma una gioia illumina il mio essere e
      quando riesco a chiudere gli occhi ed incontrare nuovamente quei colori,
      ricordo la luce del sole riflettersi sul mare. Tornerò, carissimo Porto,  | 
  
      
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      di Gabriele
      Cavezzi
      Pubblichiamo con piacere (anzi, per noi è un onore) questa comunicazione di Gabriele Cavezzi, presidente dell’Istituto per la ricerca delle fonti della storia marinara del Piceno di San Benedetto del Tronto, letta in occasione delle giornate sulla poesia sambenedettese del gennaio 2000. Con ciò, i nostri ‘dintorni’ si allargano, ma ne siamo assai felici. In
      questi pomeriggi in cui abbiamo incontrato la poesia ed il dialetto, i
      poeti e la loro lingua, sono state dette molte cose, per cui ritornarci su
      mi sembra ozioso. Affronterò pertanto subito quella che ritengo “na bella presura che me scjete date” (una bella presura che mi
      avete dato), ossia il tema che
      mi è stato assegnato. Ma
      prima bisogna che mi liberi di un peso che riguarda una questione che
      forse non farà piacere a tutti,  e
      che comunque fa male anche a me che la debbo dire: il dialetto come
      strumento di pensiero, come mezzo di comunicazione verbale e scritta, come
      tramite di anelito poetico, è morto, o sta morendo, e noi nei nostri
      incontri ne abbiamo celebrato gli ultimi sussulti.  Per
      dirla in sambenedettese, il dialetto “fa
      i cazette” (fare i calzetti
      a significare i movimenti incontrollati che fa il morente prima di tirare
      le cuoia). Questo per parlarci chiaro, affinché non si confonda la
      memoria con l’attualità e si riesca a veder chiaro su ciò che ci
      aspetta – rispetto a questo problema - come dovere di sambenedettesi,
      come compito civile e culturale di testimoni privilegiati di una delle
      stagioni più straordinarie della storia dell’umanità, il XX secolo, in
      uno dei posti  più belli ed
      interessanti del mondo tra Tronde e
      Tescjé (Tronto e Tesino i due fiumi che ne limitano il territorio
      storico e culturale). Pensare di riportare alla fruizione corrente il
      dialetto, di difenderlo sino alle estreme conseguenze, significherebbe
      compiere un’operazione delirante che non sarebbe compresa da quelli ai
      quali invece dobbiamo far pervenire, accettare e vivificare la nostra
      testimonianza. Anni
      fa avevo ideato di programmare un Corso di Riqualificazione sulla Storia
      ed il Dialetto Sambenedettese destinato a uomini politici, funzionari
      comunali, operatori economici, giornalisti, insegnanti scolastici, in
      quanto avvertivo il sempre più forte distacco, soprattutto da parte delle
      prime due categorie, come “corpus movens” dalla vita e dalla cultura
      sambenedettese. Ovviamente seguito da un esame per accertare il profitto
      dei discenti. Ma poi ho intuito che sarebbe stato frainteso e forse se ne
      sarebbe colto solo l’aspetto provocatorio, peraltro molto evidente, e
      sarebbe andata perduta la finalità meramente didattico-formativa.  La
      mia era una proposta indirizzata anche ai tanti autentici sambenedettesi
      ridotti a semplici “zombie” dai processi di espropriazione e di
      promozione al consenso, condannati a recitare solo il ruolo di fruitori
      dello spettacolo di una montante alienazione con il proprio passato, la
      propria memoria. Ma
      c’era anche una difficoltà che avvertivo ed era quella della sempre più
      rarefatta presenza e disponibilità di docenti, per cui non se ne fece
      nulla. Ed ora, per uscire da questi paradossi dialettici…sul dialetto
      (mi si perdoni il bisticcio), da queste cattiverie un po’ leghiste ma
      non secessioniste…dope che so
      messe le ma ‘nnanze pe nen sgrugnamme lu mose (dopo che ho messo le
      mani avanti per non cadere di faccia a quindi farmi male al viso) …dico
      che dobbiamo prendere coscienza che viviamo in una società che sempre di
      più va verso processi di omologazione, dove i diversi apporti culturali
      ed i valori che li esprimono non subiscono mediazioni solo ponderali ma
      soggiacciono a leggi mercantili. E sarebbe quindi altrettanto colpevole
      non impegnarsi per conferire, all’interno di questa sorta di Giudizio
      Universale che è il Mercato Globale degli oggetti e dei valori, anche il
      nostro contributo, affinché tutto non scompaia per sempre ed
      irrimediabilmente.  Dicevo
      del nostro futuro o almeno del futuro di un impegno, per rispondere al
      quesito della nostra enunciazione … “préme
      che se fa notte”.  Anzitutto
      occorre affermare un principio che se riguarda tutti i contesti dove una
      lingua locale ha rivestito o riveste carattere di peculiarità, ancora di
      più riguarda S. Benedetto, dove essa si è andata formando attraverso un
      sovrapporsi ed un integrarsi di circostanze originali assai diverse nel
      tempo e nelle modalità: la storia di S. Benedetto è anche la storia
      del suo dialetto. La lettura della prima (la storia) ci consente di
      comprendere il secondo (il dialetto), ma anche studiando il secondo (il
      dialetto) si può capire meglio la storia di questo posto e della sua
      gente.  Quindi
      il dialetto come risultato delle sue diverse forze geniche ma anche come
      fonte della storia.  
      Sulla scorta di questo principio di duplicità e di integrazione
      occorre ricostruire il nostro passato, non più preda di processi di
      idealizzazione, di esaltazione campanilistica, ma frutto di rigorosa
      ricerca delle fonti, avente presente sempre il limite di queste. Su tale
      argomento credo che si stiano facendo dei buoni passi; e S. Benedetto
      risulta uno dei paesi d’Italia con il più alto grado di qualificazione
      nell’indagine e di quantità di indagatori, in rapporto al suo peso
      demografico ed alla sua storia. Ma la quantità di ricerca prodotta e di
      ricercatori supera quella dei lettori e qui sta uno dei nodi primari da
      sciogliere.  
      Avvicinare un numero sempre maggiore di utenti a quei risultati
      consentirebbe di capire quanto ricca sia stata di apporti universali la
      storia di S. Benedetto e quanto universale sia stato il contributo dei
      sambenedettesi alla storia di altri paesi per rispettarla e comportasi di
      conseguenza in tutti i campi dell’operare umano locale.  
      Il territorio ed il mare non sono state solo metafore di un
      racconto ma le cause prime degli eventi, degli arrivi e degli esodi. Sulla
      spiaggia non sono approdate solo barche, “ciuschie” (residuale della marea) e “quanne jè arbé, cucchie de secce e loffe de talafé” (quando è
      Garbino si pescano solo ossi di seppie e “loffe” di delfini, ossia le
      muccillagini), per intenderci, ma anche uomini che parlavano la lingua
      franca dei mestieri alieutici provenienti da tutte le isole e le coste
      dell’Adriatico. Lungo le sue strade e i suoi slarghi hanno camminato e
      sostato eserciti di tutta l’Europa medievale, rinascimentale,
      napoleonica e delle alternanze successive: e quelli non hanno lasciato
      solo “cacarozze de sumare” (escrementi di asini) e “bresciate i pajò” (bruciare i pagliericci, ma anche abbandonare
      repentinamente una situazione dopo averne procurato i guasti) degli
      accampamenti. Attraverso la frontiera meridionale non sono passate solo
      “trendarole” (venditrici di pesce che giungevano a piedi
      attraversando il fiume Tronto con i panieri sul capo) e “cundrabbannire” (contrabbandieri) , ma anche parole e modi di dire
      che si confondevano con quelle degli altri del retroterra che affluivano
      man mano che le opportunità di vita vi diventavano più propizie.  
      I riscattati dalla schiavitù delle diverse piraterie non hanno
      riportato solo la voglia di riabbracciare i loro cari, quando l’hanno
      avuta, ma anche i saperi ed il linguaggio dei luoghi vissuti ed
      attraversati. Taluni, rientrando 50 anni dopo, parlavano arabo e pregavano
      Allah in via delle Conquiste (oggi
      solo Conquiste e conduce al
      Cimitero)! In una nemesi del nostro dialetto oggi si sente parlare
      sambenedettese a bordo di navi oceaniche da equipaggi di colore!  
      Basta ripercorre le genealogie delle nostre famiglie per capire
      quale crogiolo genetico e linguistico deve essere stato S. Benedetto in
      questi ultimi tre secoli! Dal 1798 al 1944, in uno spazio inferiore ai 150
      anni abbiamo registrato 50 passaggi di eserciti più o meno regolari,
      acclamato decine e decine di bandiere, persino i cosacchi sono dovuti
      intervenire con i loro scudisci per sedare i tumulti davanti al forno del
      pane! Abbiamo subito 12 guerre di cui due mondiali con effetti devastanti
      e duraturi sul nucleo abitato e sul tessuto demografico; abbiamo visto
      percorre il vento della morte endemica ben 5 volte, tre per il colera, una
      per la spagnola ed una per il tifo petecchiale. E stiamo parlando di una
      popolazione uscita da privazioni e fatiche immani, lutti in terra e tanti
      sul mare, nei mestieri più umili e disagiati, che hanno finito con il
      plasmarne il carattere ed innegabilmente la lingua, unico strumento di
      comunicazione in un universo elementare per quei bisogni.  Sino
      alla fine del XIX secolo l’analfabetismo era quasi totale negli uomini,
      ma nella donna era la regola; nel periodo napoleonico gli editti e le
      ordinanze dovevano essere lette in chiesa “nel linguaggio degli
      idioti” perché il popolo non capiva nemmeno l’italiano, quindi la
      voce ed il dialetto erano giornale e televisione, internet e fax per
      tutti. Allora si comunicava più con i simboli delle vele ed i pennoni che
      con il foglio di carta, con le fochere più che con la posta.  Nel
      suo libro su S. Benedetto, Guidotti ci racconta di quando le barche
      facevano “conto” e quella che aveva incassato di più aveva diritto di
      fregiarsi con i pennoni più numerosi e sgargianti, parlando quindi con le
      sferze colorate: ed ogni movimento con il corpo della barca assumeva un
      significato nel linguaggio muto per prendersi in giro tra equipaggi,
      scambiarsi allusioni e saluti. Un tempo era più importante comunicare con
      gli elementi che con le creature viventi e gli uomini dovevano saper
      decifrare il linguaggio del vento prima di poterlo tradurre in codici
      sonori, in parole. Ed i confini materiali erano gli unici da superare, non
      esistendo quelli della paura ed ancor meno quelli politici. Il curato si
      trovava in difficoltà persino a somministrare i sacramenti a sud dell’Albula
      quando sopravvenivano le pive de lu
      fusse (la piena del fosso)  Solo
      nel XVII secolo si è aperta una strada litorale lungo la marina e quindi
      le barche hanno costituito il veicolo privilegiato per scambiare merci e
      fonemi per un lungo periodo. E non mi si venga a dire che questa è una
      storia eguale a quella de Carrassà (Carassai comune del retroterra marchigiano, allusivo
      delle origini del Capo-Servizio della Cultura del Comune) o de
      Curruppele (Corropoli, comune
      del retroterra abruzzese, idem dell’Assessore comunale ai Servizi
      Sociali). La nostra storia non ce la regala nessuno, dobbiamo recuperarla
      da soli prima che altri, magari in sede accademica e quindi non più
      discutibile, ci confezionino le alternative per il loro uso mediatico, 
      strumentale rispetto a sistemi gerarchici interni ad altre culture. Il
      cognome più diffuso a S. Benedetto, ormai da qui sparso in tutta Italia e
      nel Mondo è Palestini,
      evoluzione di quello che nel XVIII sec. era Palestrina,
      designante di calafati e pescatori di Palestrina in quel di Chioggia, qui
      emigrati alla fine del secolo precedente! Sarà un Palestini, Francesco, a
      metà del XX secolo, a scrivere la grammatica su questo nostro dialetto, a
      raccogliere e consegnarci con essa un glossario ricchissimo, con la storia
      del suo formarsi. Ho
      qui in mano un cartoncino augurale dell’Assessore Regionale alla Cultura
      in cui ci si dice NEL 2000 COME 3000 ANNI FA UNITI PER LA CULTURA DELLE
      MARCHE : direbbe il coatto
      romanesco Ma dde che?! L’abruzzese
      acculturato: Ma che ciazzecca!
      L’ascolano sfrigne, cioè ironico, Che
      jè ditte? Il sambenedettese maschio Ma
      levite ambù de jesse! (Ma levati di torno)..e
      la donna..Ma nen sciapenejete! (non
      siate scipiti, da cui il verbo
      sciapiniare) Dico
      io, come si fa a mandare auguri più stupidi e falsi di questi quando per
      3000 anni ci siamo scannati, prima tra Galli e Piceni, poi tra quelli che
      erano amici di Roma e gli altri, tra quanti finivano sotto i barbari e gli
      occupati dai Bizantini, più tardi tra gli amici della Chiesa e quelli
      dell’Imperatore, tra  soggetti
      ai comuni e gli altri alle signorie del nord della Marca, ai Malatesta, e
      quelli e questi tra loro…fino ad oggi che, ci sentiamo occupati e
      governati da un potere culturale che parla solo romagnolo, al massimo
      anconetano! Ma
      per tornare a noi dobbiamo anche dire che occorre altrettanta
      determinazione nello studiare questi nessi a cui facevo cenno ed i
      risultati finali che ci sono giunti e di cui abbiamo fruito nella nostra
      fortunata adolescenza, nella nostra giovinezza, consumato nella maturità:
      un dialetto ricco di assonanze e con un potere evocativo straordinario,
      forte e duttile nel contempo, che consente di esprimere il banale e
      l’indicibile con la stessa semplicità lessicale, con la stessa
      mediterranea sonorità.  Ed è
      questa una delle componenti più difficili da preservare come prova
      testimoniale. Prima
      che il tempo ci divori e con noi la nostra lingua, pardon, il nostro
      “dialetto”, occorre codificare soprattutto i fonemi, per salvare
      quella che viene localmente definita “la calata”, da non confondersi
      con “culate o culature”,
      “culate nel senso di fortuna, culatore
      nel senso del bucato con la cenere”, oppure “calata de rete”, “calate
      de sole” nel senso l’una da discendere in mare (la rete) e
      l’altro dietro i monti (lu sole) (Mosce
      d’immerne, Brescecce d’estate) (i due colli che caratterizzano
      altrettanti luoghi del tramontare del sole). La “calata” nelle diverse
      varianti femminili e maschili, de “su dendre” e de “jo la marene”,
      de i “pajarà” o de i “menderò”, de “Sanda Lecì” e de “jo
      bescì”, de lu “ponde rotte”, vicino “lu fusse de i zenghere”,
      dei momenti di conflittualità verbali e di invocazione, di
      “rifrecazione” o di ammonimento, di relazione: “Ua cì”, “uà cò,
      “uà ze”, “uà nepò”, “serella mmine”…coordinate ormai
      riconoscibili solo da pochi in una socialità frantumata dal progresso,
      privato dell’onomatopeico, deturpata dalla sintesi tecnologista,
      ingannata in “tempo reale”. Occorre recuperare tutti i modi di dire ed i personaggi caratteristici, i soprannomi (quanti di questi sono diventati cognomi!) ed i luoghi, le usanze ed i riti, i simboli e gli scongiuri, insomma portarsi in questo secondo millennio - che ancora deve giungere – con il più prezioso dei tesori che ci hanno lasciato i nostri padri: la loro storia e la loro lingua! Un lavoro questo che già è iniziato grazie ad alcuni volontari, e tra questi i “puete nnustre”, i morti ed i viventi. Attenti, qui il possessivo nnustre sovrasta il sostantivo di poeti: noi diciamo pardete, mammete nella seconda persona, ma nella prima babbe mmine, mamma mmine, i fratjie nnustre; quindi nnustre viene impiegato per sottolineare una complicità, un’appartenenza quasi parentale con quei poeti, a privilegiarne questi aspetti di legame prima.  | 
  
      
      di
      Giovanni
      Mordini
      Una ricerca meritoria di
      Giovanni Mordini, che da tempo chiede un riconoscimento del sacrificio
      delle vittime civili delle due guerre mondiali del secolo scorso da parte
      dell’Amministrazione Comunale. Ci auguriamo che il suo appello sia
      ascoltato. Ci auguriamo anche  altre
      segnalazioni per l’eventuale completamento dell’elenco. GUERRA
        1915 – 1918
      
 GUERRA
        1940 – 1945
      
 Nel
      ringraziare Giovanni Mordini per averci ricordato dei concittadini da
      troppo tempo dimenticati, rileviamo che sui diciassette nomi in elenco ben
      quindici erano di età tra i 5 e i 23 anni, giovani e giovanissimi dunque;
      solo Annita Gasparini era in età adulta mentre Vincenzo Matelicani era
      l’unica persona anziana.   | 
  
      
         | 
  
      
      di Sanzio
      Flamini
      Nella nostra storia non si
      parla troppo spesso delle donne, relegate nella mitologia del matriarcato.
      Sanzio Flamini ce ne ricorda una, Maria Boyer, di cui si è già scritto
      in ‘A Marcello non piacciono le fave’ (Recanati 1999), a proposito del
      suo energico intervento in favore di un ragazzo che stava per essere
      fucilato dai tedesch nel marzo 1944 (pp.49/50). L’episodio che segue
      riguarda un momento critico della vita del ragazzino Flamini nel quale la
      signora Mazza mostrò ancora una volta di essere figlia del colonnello dei
      Bersaglieri Andrea Boyer, uno di quelli che entrarono a Porta Pia nel
      1870. Ricordate
      la signora Mazza? Sì, proprio lei, la moglie dell’indimenticato dottor
      Mazza. Anche la cicatrice dei cinque punti di sutura alla mano sinistra me
      lo ricorda ogni tanto, specialmente quando tira ‘el vento de leante’
      (il vento caldo-umido, est-ovest). Abitava
      laggiù, in fondo al paese, a ‘Sammarì’, vicino al campo di Trucchia,
      praticamente estrema periferia di allora. Erano piazzate lì le ultime
      abitazioni, il fiume Potenza sembrava assai lontano e Leopardi insisteva
      “..e chiaro nella valle il fiume appare..”. Lo era effettivamente a
      quei tempi. Dunque,
      la signora Mazza, circa duecento metri da casa mia in via Garibaldi.
      Venuta a conoscenza che i miei genitori avevano programmato di mandarmi
      tra i ‘discoli’, cioè in riformatorio, affrontò come mi è stato
      riferito, mia madre, donna mite e suggestionabile, talvolta vittima
      caratteriale di ‘Battinello’ (Giovanni Battista, n.d.r.), mio padre
      (soprannome non dedotto da qualità fisiche o morali, ma dovuto all’uso
      scriteriato di mutare la naturale etimologia in senso più che altro
      comico o grottesco. Ne sanno qualcosa i nostri poeti dialettali). Lo
      scontro-incontro avvenne in mezzo alla strada, tra via Garibaldi e viale
      Lepanto, di fronte a uno dei rinomati ristoranti locali. Il classico
      brodetto, è sottinteso. Quasi un alterco. La signora del Dottore, alta,
      snella, elegante, di ottima famiglia borghese, si ricompose com’era nel
      suo stile di donna ben educata. Disse a mia madre, tra l’altro, che
      stava commettendo un grosso sbaglio. Sanzio, il sottoscritto, non era
      certo da considerare un delinquente sciolto o a pacchetti, e nemmeno i
      suoi compari di cordata, ragazzacci della banda cui si accompagnava
      quotidianamente. Eravamo
      vivaci, forse anche troppo, rompiscatole senza apriscatole, disturbatori
      della quiete pubblica, quiete forzosa nel periodo ventennale fascista;
      vandali in sedicesimo per gioco, assolutamente innocui se raffrontati con
      i ‘mostri’ dei giorni nostri. Dopotutto,
      che facevamo? Lo sparo col botto: carburo dentro barattoli di conserva
      Cirio, specialmente davanti le porte dei palazzi e nelle pubbliche piazze;
      si rubacchiava qualcosa nelle campagne vicine, per fame, purtroppo; i
      lampioni di viale Lepanto presi a fiondate, così i vetri di alcuni
      finestroni di case abbandonate e diroccate. Da
      annotare le rincorse disperate e buffe sopra biciclette sgangherate del
      capo guardia Salvioni e di Giggio Fabbracci, l’altro pizzardone
      portolotto. La
      faccenda dei ‘discoli’ fu archiviata. Buon per me. La signora Mazza,
      fervente religiosa, fuori dal bigottismo comune, aveva diffuso,
      pressappoco lo strano messaggio: “Chi frequenta i Salesiani non esce
      mascalzone!” Dal
      mio armadio di scheletri, zeppo di rimembranze e riferimenti infantili
      riemerge sempre con affetto rispettoso la signora del Dottore che dietro
      le inferriate del piccolo giardino ci vedeva passare, mezzi stracciati,
      scarpe di cartone, visi veramente pallidi, quasi tutti i pomeriggi verso
      le nostre bravate e scorribande dentro e fuori il paese.  | 
  
      
      Sentenza
      Cintioni-Scalabroni
      L’amico e socio Vincenzo Rosati ha risolto il nostro
      dubbio sul destino di Tommaso Cintioni e Crispino Scarafoni, entrambi
      giudicati autori dell’assassinio di Biagio Budini, avvenuto al Porto
      l’11 febbraio 1849, come narrato nel primo numero di Potentia (Inverno
      2000 – pp.12/19). Fascicolo
      236/484 Anno 1861. (I documenti che riportiamo sono tratti dai
      fascicoli A e C). Sentenza
      del 20 maggio 1851
      Sagra
      Consulta – Martedi 20 maggio 1851. Il secondo turno del Supremo
      tribunale….si è adunato nelle solite stanze del Palazzo Innocenziano in
      Monte Citorio per giudicare in merito, ed in forma di legge, la causa
      intitolata Macerata-Recanati ossia Porto, di omicidio contro Tommaso
      Cintioni di Liberato, in età di anni ventisei, coniugato con figli, nato
      e domiciliato in Porto Recanati di professione falegname e Crispino
      Scarafoni del vivo Bonaventura di anni ventisette celibe, nato a
      domiciliato come sopra di professione calzolaio. Viste e ponderate le
      risultanze degli atti processuali. Inteso il rapporto della causa fatto
      dall’Ill.mo e R.mo Monsig. Luigi Fiorani Giudice Relatore. Scoltate le
      conclusioni Fiscali e le deduzioni verbali del Difensore, che ebbe per
      ultimo la parola dichiarando di non avere altro da aggiungere. Chiusa la
      discussione e rimasti soli i Giudici per deliberare. Invocato il Nome
      SS.MO di DIO, il Supremo tribunale ha reso e pronunciato la seguente
      SENTENZA Visto
      e Considerato quant’altro era da vedersi e considerarsi Il
      Secondo Turno del supremo tribunale della S.Consulta ha dichiarato e
      dichiara constare in genere di omicidio con animo deliberato a danno di
      BIAGIO BUDINI avvenuto la sera degli undici Febbraio
      milleottocentoquarantanove e che in specie ne furono, e sono, colpevoli
      per spirito di parte TOMMASO CINTIONI e CRISPINO SCARAFONI, ed in
      applicazione degli articoli duecentosessantacinque e centotre
      dell’Editto Papale a maggioranza di voti li ha condannati e condanna
      all’ultimo supplizio, avendo uno dei Giudici ritenuto la semplice
      provocazione. Inoltre li ha condannati alla rifazione dei danni verso la
      parte offesa, al pagamento delle spese processuali ed al rimborso degli
      alimenti a favore del pubblico Erario da liquidarsi a forma di legge. Però,
      la mancata unanimità diede luogo a una revisione del processo, stabilendo
      così il regolamento organico e di procedura criminale in vigore nel Regno
      Pontificio. Il 17 febbraio 1852 la sentenza, questa volta pronunciata dai
      due turni riuniti del Supremo Tribunale, venne confermata con nove voti
      contro tre. Nel documento relativo si legge comunque, sul lato sinistro
      della facciata di copertura del fascicolo la dicitura COMMUTAZIONE, e poi: Dall’Udienza di Nostro
      Signore del 4 maggio 1852 – Sua Santità si è degnata per grazia
      speciale di commutare a TOMMASO CINTIONI e CRISPINO SCARAFONI la pena
      dell’ultimo supplizio in quella della galera in vita sotto stretta
      sorveglianza. 
 Quindi,
      mentre Scarafoni e Cintioni avevano già subito la prima condanna si stava
      svolgendo (in Ancona?) un altro processo all’uccisore di Camillo Budini,
      fratello del povero Biagio, ammazzato poco dopo di lui da questo tale
      Silvestro Bocci.   | 
  
      
      Soprannomi 
      Non esiste nella
      letteratura relativa alla storia del Porto una documentazione 
      storica sui soprannomi. Di quelli più recenti si può trovare un
      lungo e ancora incompleto elenco nell’appendice de ‘FATTU PE’
      DESCURE’, il vocabolario del dialetto portorecanatese (pp. 297/301),
      disponibile presso la sede del CSP. Tuttavia, nel corso delle nostre
      ricerche, ci siamo imbattuti qua e là in soprannomi dei quali oggi non si
      ha più traccia, almeno per la maggior parte. Ne diamo un elenco nella
      speranza che in futuro se ne possano presentare altri. In parentesi,
      l’anno in cui è attestato il soprannome. TANFANO (1685) – è
      il più antico che conosciamo. Attribuito a Domenico di Nicola di
      Domenico, anni 32, componente dell’equipaggio della barca di Domenico
      MEZZALINGUA (anche questo è certo un soprannome). Di lui ha dato notizia
      Antonio Eleuteri nella sua relazione al primo seminario sulle fonti per la
      storia della civiltà marinara del Piceno svoltosi a S. Benedetto del
      Tronto nel 1995. La moglie, 31 anni, si chiamava Maria: la coppia aveva
      sette figli, di cui due maschi. SCIALACQUATO (1713) – Era un tale Simone, caduto prigioniero dei
      pirati nel 1713. Citato nel nostro Dizionario del Porto, inedito. GABRIELLINO      
      (1802) – Se ne ignora il nome vero, citato nei documenti relativi
      al processo contro Crispino Valentini (Carte del CSP), accusato di
      ‘delinquenze’ varie in qualità di Deputato di Sanità del Porto. PITTORETTO       (1806)
      – Stessa fonte, ma di lui si ignora tutto. Forse era un anconetano. SGRANONE         
      (1807) – Di nome Domenico, stessa fonte che il precedente. CIANFRONE        
      (1807) – Domenico Bufalari, ancora nei documenti del processo
      Valentini. Era incaricato di pesare il pesce per conto della dogana. IL
      soprannome ha resistito fino ai nostri giorni. DROGHETTO       
      (1831) – Domenico Paoltroni, citato nei documenti relativi alla
      commisssione istituita nel Porto nel 1831 per fronteggiare l’epidemia di
      colera (Carte del CSP). SPORTOLONE       (1831)
      – Angelo Lucangeli, iniziatore della fortuna della famiglia, all’epoca
      commerciante. Citato in E con la pelle dei Monsignori, in Potentia
      – Archivi di Porto Recanati e dintorni, n° 1. VINCENINA         
      (1849) – Vincenzo Budini, citato in Potentia c.s.,
      fratello di Biagio Budini, ucciso l’11 febbraio 1849 durante il breve
      periodo della Repubblica Romana. PULENTINO        
      (1849) – Citato in Potentia c.s.; di lui non si sa altro. PORTUCCHIO       (1849)
      – Bonafede Onofri, Potentia c.s., sospettato di aver partecipato
      all’assassinio di Biagio Budini o di aver istigato gli autori. FERRETTO          
      (1849) – Citato in Potentia c.s.; nessun’altra notizia. CAGNA’              
      (1850) – Giovanni Leonardi, chiodarolo (Carte del CSP tratte
      in fotocopia dalle Carte della Parrocchia di san Giovanni Battista).
       BOTTIU’             
      (1853) – Vincenzo Braconi. Soprannome valido anche per la moglie
      Vincenza. Carte CSP c.s. SBICICCHIATO      (1858) – Ferdinando Solazzi di
      Fiore. Carte del CSP c.s. PIGNOCCO          
      (1858) – Gino Salerni. Carte del CSP c.s.  | 
  
      
      Rame
      per la Patria
      Il documento che riproduciamo risale al maggio 1941
      ed è una testimonianza dei sacrifici richiesti agli italiani in sostegno
      delle necessità della guerra. Ci è stato fornito da Elvira Pasqualini.
      La fotocopia tratta dall’originale è conservata tra le Carte del CSP.                
       4.parte (da rilasciarsi a chi cede il rame)      
         ENTE
      DISTRIBUZIONE ROTTAMI Sezione
      metalli non ferrosi Il Sig. Pasqualini Francesco Ai sensi dell’articolo 6°
      del RDL 13 Dicembre 1939 – XVIII n. 1805 il Ministero delle Corporazioni
      ha fissato i seguenti prezzi: Sono state consegnate parti non in rame come segue: Il regolare documento di vendita verrà redatto dai
      contraenti. Porto Recanati 30 maggio 1941 – Anno XX.  Il
      Rappresentante del Comune    
                Il
      Negoziante  | 
  
      
      Una
      lettera per Gigli
      Beniamino Gigli dovette
      difendersi, dopo la seconda guerra mondiale, dall’accusa di
      collaborazionismo con i tedeschi, accusa dalla quale fu ampiamente
      assolto. Lo fece anche con un opuscolo di 35 pagine di cui il CSP possiede
      copia, stampato in 50 mila esemplari dalla Società Tipografica Editrice
      Italiana di Roma (nel ’45?), in vendita al prezzo di 20 lire (ricavato
      devoluto in beneficenza). Corvetta Danaide (con
      disegno della nave) Compagno Gigli, Il sentiero popolare non si chiuderà per voi, signor Gigli vi ho
      sentito per la prima volta nell’estate del 1947 in un film musicale; un
      impressione sbalorditiva! E’ difficile esprimere la gioia che voi
      procurate con la vostra apparizione; come se nel teatro fosse apparso il
      sole con la sua luce, ed il suo calore avesse scacciato le tenebre
      notturne e la fredda nebbia. Ora la vostra voce canta ovunque. Se mi trovo nel bosco, nelle vie della
      città, a casa sul lavoro, dappertutto una meravigliosa voce canta
      nell’animo. Voglio di nuovo vedervi e risentirvi: per questo i film con
      la vostra partecipazione si vedono venti volte. Non vi sono ora dischi di
      vostra esecuzione, perciò l’unico modo di sentirvi sono i film. Nella
      stupidaggine sentimentale dei film, Voi rimanete sempre un semplice e
      grande uomo, perché non solo vi si ascolta con massimo godimento, ma vi
      si vede anche con grande piacere. Forse in questo è il segreto del vostro
      invincibile fascino. Se
      voi sapeste come ci sono necessarie le cose veramente belle, veramente
      umane. Abbiamo sofferto l’assedio della città, abbiamo visto e sofferto
      tante cose terribili, ed ora noi lavoriamo molto, moltissimo: è per
      questo la vostra incomparabile arte solleva le forze e dona fiducia nel
      bello. Vi
      si ama con amore illimitato, si crede senza reticenze alla vostra verità;
      ci si abbandona alla vostra arte con la fedeltà e felicità con la quale
      ci si abbandona ai grandi artisti. Di
      voi non si può discutere, si può solo godere del vostro canto. La
      necessità di vedervi e sentirvi e d’amare la vostra arte, diventa tanto
      naturale ed inevitabile, come la necessità di respirare l’aria
      vivificatrice della primavera e riscaldarsi ai raggi dorati del sole
      estivo. Voi
      forse non amate i russi, perché non avete onorato di una visita il nostro
      paese. Forse questo non dipende da voi, e certamente non da noi. Se per
      vedere i vostri film ci sono sempre file, potete immaginare, cosa
      succederebbe se ci fosse un vostro concerto. Voglio
      credere che siate vivo e vivrete ancora a lungo, voi che date tanta
      felicità agli uomini, dovete essere sempre felice; per questo, mai una
      ruga dovrà essere sulla vostra fronte e mai una piega amara sulla vostra
      bocca.                                                                   
                                             
      NICOLAJEVA LENINGRADO Via TOLMACIOV 18 
  | 
  
      
       di
      Aldo
      Biagetti
      MAGGIO
        
          
      SABATO 19 - Presentazione, al Teatro Kursaal, dell’evento culturale di maggior rilievo di questi ultimi anni, la Mostra sui reperti archeologici dell’antica “Potentia”, dal suggestivo sottotitolo “Quando poi scese il silenzio…”, che si potrà ammirare fino al 26 ottobre nei locali al piano terra del Castello Svevo.  LUGLIO
      
           DOMENICA
      1 -         
      Il romano CLAUDIO ANGELINI, con la poesia “Lente
      voci”  vince la XVI^ Ediz.
      del Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati.     
      SABATO 14 -         
      Organizzata dal Centro Sociale “Anni
      d’Argento”  dall’Associazione
      Culturale Coro a Più Voci si apre la XXV^ Ediz. della Marguttiana
      Portorecanatese, nello slargo delle Scuole Elementari, a margine di Corso
      Matteotti. Nell’arco dei tre cicli espositivi, che avranno termine il 30
      agosto, esporranno 38 artisti.     
      SABATO 21 -         
      All’Arena Gigli, organizzata dal Centro Studi
      Portorecanatesi e dalla locale Croce Azzurra e con il patrocinio
      dell’Amministrazione Comunale, AZZURRA 2000, cerimonia di premiazione
      dei vincitori della 1^ Ediz. del concorso di poesia dialettale marchigiana
      “Emilio Gardini”, cerimonia impreziosita dal concerto della Banda
      Dipartimentale della Marina Militare di Taranto. Risulta vincitore, con la
      poesia “A lume de cannela”, Aldo Leoni di Apiro (ritira il premio la
      figlia Liana, perché purtroppo l’autore è deceduto). Secondo Franco
      Ferri di Pesaro, terzo Elio Morelli di San Benedetto del Tronto. AGOSTO                                                              
                
        -         
      Alla palestra Diaz inaugurazione della Mostra
      Antologica di GABRIELLA MINGARDI SENIGAGLIESI, che presenta 150 tele, a
      testimonianza di un percorso artistico che ha ricevuto lusinghieri
      consensi da critici, riviste d’arte e pubblico. Presenta Donatella
      Donati che ha anche curato il catalogo della mostra.     
      SABATO 25 -         
      All’Auditorium all’aperto (Cortile Sud delle
      Scuole Elementari) cerimonia di premiazione della IV^ Ediz. del Premio di
      Pittura Estemporanea “Porto Recanati e dintorni”. L’apposita giuria
      proclama vincitore SAVERIO MAGNO di Grottammare, secondo classificato
      Oscar Gricia di Roma. OTTOBRE
          DOMENICA
      7 -         
      All’Auditorium della Scuola Media presentazione
      del volume monografico della rivista “Potentia” del Centro Studi
      Portorecanatesi su “LA SCIABICA”. Ricorrendo, in tale giorno, il 430°
      anniversario viene ricordata la Battaglia di Lepanto, relatore Aldo
      Biagetti.  | 
  
      
      (1/5/2001 – 31/10/2001)I
        fatti e i giorni
      -        
      Il 30
      maggio, in consiglio comunale, viene conferita una onorificenza civile ai
      carabinieri Vito Cappilli e Nicola Centonze per aver salvato la vita di
      una bambino in procinto di cadere da un balcone. -        
      Il 24
      giugno, a cura del Comitato degli ex dipendenti, si inaugura una lapide a
      ricordo dell’attività del cantiere navale Gardano & Giampieri nella
      facciata dell’edificio che ospitava gli uffici. -        
      Alla data
      del 30 giugno risultano residenti al Porto 5089 maschi e 5007 femmine, per
      un totale di 10 mila e 96 persone. -        
      Il primo
      luglio, il concittadino Marcantonio Trevisani è promosso Ammiraglio di
      Divisione. -        
      Primi di
      agosto: muore Goffredo Jorini, sindaco di Porto Recanati dal 1946 al 1959. -        
      18
      agosto: Castelnuovo vince il Palio di san Giovanni per la quarta volta. -        
      Agosto/Settembre.
      La General Electric decide la vendita del Pignone Porto Recanati a un
      privato osimano. Contestazione delle maestranze e scioperi. -        
      11
      ottobre. A cura dell’Ammistrazione Comunale due alberi sono piantati in
      piazzale Europa a ricordo dei gravissimi attentati terroristici 
      di un mese prima a New York. -        
      Ottobre.
      Si rinnovano le proteste dei residenti in zona S. Maria in Potenza:
      l’aria, dicono, continua a essere irrespirabile.  Lo
        sport
      -        
      Mese di
      maggio, fine dei campionati nelle diverse discipline sportive: la Conad
      Electa sfiora la promozione nella B2 di pallavolo; la Tennis Tavolo
      Quadrifoglio è promossa in C2; buono il campionato dell’Adriatica
      Basket, che partecipa agli spareggi per la C1; seconda retrocessione della
      squadra di calcio dalla prima categoria. Ordine
        pubblico
      -        
      Tra la
      metà di maggio e la fine di giugno assistiamo preoccupati a una serie di
      incendi dolosi: ristorante Brigantino, un’auto parcheggiata di fronte a
      un ristorante di Scossicci,  una
      roulotte e due cantieri edili nel centro cittadino. Le forze dell’ordine
      individuano e arrestano il piromane. -        
      17
      giugno: furto con scasso dalle suore del Prez.mo Sangue.  -        
      31
      luglio: svaligiato il supermercato dell’Hotel House. Prelevata merce per
      un valore di circa 60 milioni di lire. Pizzicati i ladri dalle forze
      dell’ordine. -        
      27
      settembre: tre sconosciuti penetrano di notte nell’albergo Mondial e
      picchiano la portiera. Rubano 300 mila lire. -        
      Ottobre.
      I Carabinieri di Ascoli e di Porto Recanati recuperano, in località in
      provincia di Ancona, tre delle cinque tele sparite anni fa dalla
      pinacoteca Moroni. Sono: ‘Canale con Barche’ di Celso Baldassarri,
      ‘Presentazione di Gesù al Tempio’ di Francesco Maffei, ‘Mandorlo
      fiorito’ di Dante Ricci. Vita
        sociale
      -        
      14
      maggio: la sezione leopardiana del CSP propone la collocazione di due
      lapidi con versi di Giacomo Leopardi relativi al mare di Porto Recanati. -        
      Giugno:
      esce il numero 5 di questa Rivista. -        
      21
      luglio: cerimonia di pemiazione del primo concorso di poesia dialettale
      marchigiana ‘Emilio Gardini’. All’Arena Gigli si esibisce la Banda
      Dipartimentale della Marina Militare di Taranto. -        
      Ottobre:
      viene diffuso il sesto numero di Potentia. Dialetto
        in pillole
      Due
      analogie con usi linguistici e sociali della nostra tradizione, che
      abbiamo riscontrato là dove era davvero difficile aspettarselo. Liete
      sorprese, dunque, che testimoniano come tutto il mondo sia sovente paese. Nelle
      nostre ricerche sulle strutture scolastiche al Porto abbiamo letto che un
      tempo, parliamo della prima metà del XIX secolo, i maestri delle scuole
      elementari avevano tra i loro obblighi anche quelli di provvedere alle
      pulizie dell’aula dove insegnavano e poi di prestare alcuni servizi al
      parroco. Eravamo nello Stato Pontificio; nessuna meraviglia. Stupore
      invece lo abbiamo provato scoprendo che lo stesso avveniva nella laica
      Francia della Terza Repubblica. Lo racconta Jean Anglade, scrittore nato e
      cresciuto nell’Auvergne, regione del Massiccio Centrale, nel suo Les
      ventres jaunes – Saint Amand, 1981 – p. 39, un libro nel quale
      viene raccontata la vita dura dei celebri couteliers di Thiers,
      antagonisti di quelli di Toledo per la raffinatezza della loro produzione
      di lame di ogni genere. Scrive Anglade (la traduzione dal francese è
      nostra): A quell’epoca (1883, n.d.r.) in molte piccole
      parrocchie il maestro delle scuole comunali doveva anche suonare le
      campane, spazzare in chiesa, spolverare il mobilio… Un’altra
      usanza nostrana è che i giovani chiamano, o meglio chiamavano, zi’
      (zio) le persone più anziane, le quali rispondevano dando loro del nepote. Bene,
      ecco quanto si legge in un libro dello scrittore inglese Arthur Clarke,
      l’autore di Odissea nello spazio:  a pagina 96 del romanzo Voci di terra lontana, scritto
      nel 1986 e edito in Italia da Rizzoli tre anni dopo, c’è scritto: ‘Davvero
      non vuoi cambiare idea, zio?’ chiese Kumar sorridendo. Loren fece di no
      con la testa. Le prime volte l’appellativo l’aveva imbarazzato, ma ora
      si era abituato al modo che avevano tutti i giovani di Thalassa di
      rivolgersi agli adulti…Nel romanzo, Thalassa è un lontanissimo
      pianeta colonizzato dai terrestri; nella realtà, chissà da dove Clarke
      ha tratto spunto. Canzoni
      Bruno
      Benedetti continua nella sua preziosa ricerca di vecchie canzoni popolari,
      di stornelli e dispetti e di quanto è ancora possibile recuperare dagli
      angoli della memoria canora collettiva della nostra comunità. E mentre
      lui ne ‘ricostruisce’ la musica imprigionandola in cassette che
      saranno disponibili nella sede del CSP, qui pubblichiamo i testi come ci
      è possibile, sempre invocando l’aiuto di chi se li ricorda meglio di
      noi. Al
      Porto si raccontava, in una canzone di tipo narrativo, la storia del
      giovane soldato che torna a casa e scopre che la sua fidanzata è morta.
      La chiameremo La canzone di Giulia anche se, probabilmente, il
      titolo è un altro. E’ un tema presente nella tradizione popolare
      nazionale, vedi La sposa morta, che si canta a Volterra, oppure la
      veneziana C’era un dì un soldato. Ecco il frammento di cui
      disponiamo: Il cielo è una coperta ricamata, la luna con le stelle fa l’amore. Cerco la Giulia, dove dormendo sta, angelo del cuor mio, angelo di bontà. Le undici di notte e l’aria oscura, tutti in silenzio dormono gli augelli. Oh Giulia, Giulia, dove dormendo stai, angelo del cuor mio, angelo di
      bontà. La
      chitarra, fedele compagna dell’innamorato canterino. La chitarra, però,
      anche come metafora che introduce doppi sensi non sempre eleganti. Nei
      versi che seguono, se un significato nascosto esistesse, esso potrebbe
      essere solo quello, malinconico, del venir meno della giovanil virile
      baldanza. Le corde si spezzano una dopo l’altra con il passare del
      tempo, finché non ce ne saranno più. Addio, perciò, ai piaceri della
      vita; tutto passa. Viene
      in mente lo sbalordimento del poeta François Villon, che si chiedeva dove
      fossero le nevi dell’anno scorso (mais où sont les neiges d’antan?);
      svanite, dissolte, proprio come svanisce e si dissolve il tempo: Sona chitarra, sona, che me s’è rotta ‘na corda; se pure l’altra se scorda ho finito a sonar. Amici cari, bona notte; le corde si son rotte, non si può più sonar. Da
      notare, come succede abbastanza spesso, che il dialetto convive con
      l’italiano. Riteniamo che ciò sia l’effetto del tentativo di
      conferire un tocco di raffinatezza al testo in questione.  Appello
      Nel
      luglio 1901, Vincenzo Pio Rossi, fermano di origine, ma residente nel
      Porto, venne accusato di aver cantato una canzone sovversiva istigante
      alla violenza di classe e rimandato a giudizio davanti al regio pretore di
      Recanati. Il quale, al termine di un clamoroso processo (Rossi fu difeso
      dal deputato socialista di Iesi, Lollini), assolse l’imputato
      dall’accusa. La canzone incriminata, dove si minacciava di affondare il
      pugnale nel petto dei ricchi, era La canzone di Peppino Amato.  | 
  
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