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S O M M A R I O 

* Presentazione
* Bello e impossibile: Leopardi e il mare

  
di Lino Palanca
* Leopardi e il volo
  
di Carlo Trevisani
* Una nota: Leopardi e l’arte
  
di  Nando Carotti
* Oh che bel mestiere fare il carrettiere
  
di Pietro Alessandrini
* Getulio Cingolani
  
di  Aldo Biagetti
* Omaggio a Porto Recanati
  
di  Alessandra Cerioni
* Simpliciano dei Conti della Marina
  
di Renzo Bislani
* Preme che se fa’ notte
  
di Gabriele Cavezzi
* Caduti civili nelle ultime due guerre
  
di Giovanni Mordini
* Album del Porto
*
Ricerche geologiche sul territorio di P.Recanati
  
di  Ennio Fabbracci
* Dalla levata alla calata
  
di  Antonio Bartolo
* Una signora garbata e simpatica: Maria Boyer Mazza
  
di Sanzio Flamini
* Documento 9 - Sentenza Cintioni-Scalabroni
* Documento 10 - Soprannomi
* Documento 11 - Rame per la Patria
* Documento 12 - Una lettera per Gigli
* Cronache dell'arte e della cultura: maggio-ottobre 2001

   di  Aldo Biagetti
* Cronache del 2000: MAGGIO - OTTOBRE 2001

 



Presentazione



Un numero sotto il duplice segno di Leopardi e dei venti anni di vita del C.S.P.

L’omaggio al Poeta era dovuto, e da gran tempo. L’occasione ci è stata offerta dalla sistemazione delle lapidi sulla facciata del castello svevo, che ricordano a tutti come il nostro mare abbia ispirato la Musa di uno dei più straordinari protagonisti della Letteratura mondiale.

Esso vuole anche testimoniare della nostra volontà di mantenere e sviluppare rapporti proficui con il Centro Nazionale di Studi Leopardiani, diretto dal nostro presidente onorario, e amico, Franco Foschi.

Nel contempo non dimentichiamo certo che questo anno 2002, da poco iniziato, ci sta conducendo al ventesimo compleanno della nostra Associazione. E’ un evento che celebreremo senza trionfalismi, ma con la serena coscienza di aver cercato sempre di rendere un servizio alla Comunità, per ravvivarne e salvaguardarne la memoria storica, le tradizioni e gli usi e la lingua, per contribuire a creare opportunità di confronti, di dibattiti, di crescita culturale.

Oltre ad essere serena, la nostra coscienza è anche forte, il che ci permette di essere sempre disponibili ad ogni utile collaborazione e sempre indisponibili a qualsivoglia tentativo di incapsulamento, di normalizzazione ad usum senatus, di delegittimazione: siamo nati gelosi della nostra libertà, un sentimento che, col tempo, è diventato una malattia. Cronica. Irreversibile.

Abbiamo una speranza: di poter  ancora a lungo a svolgere l’attività che ci compete garantendo agli altri il più grande rispetto per il loro operato e, naturalmente, pretendendone altrettanto.

Ci auguriamo che i soci, i lettori, i concittadini e quanti altri ci seguono, continuino a pensare che il CSP, come è stato per il passato, continuerà a rappresentare uno dei punti di incontro per chiunque, uomo o donna, giovane o meno giovane, laureato o no, nutra davvero amore per Questo Porto. 

Il Direttore  

Porto Recanati, inverno 2002.    


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di Carlo Trevisani

Vedere volare: immagini di volo catturate da terra nel giro di appena un mese, eppure distanti anni luce tra loro.

“Ali per la vita”, viste sfrecciare nel cielo e sul mare di Porto Recanati, in un tripudio di folla festante, affascinata dalle fragorose e ardite evoluzioni della Pattuglia acrobatica nazionale.

Ali portatrici di morte, viste penetrare e scomparire dentro le due torri di New York, con la stessa irrisoria facilità con cui una lama rovente penetra in un pane di burro, nel silenzio irreale della diretta televisiva mandata in onda dalla CNN, e riproposta ossessivamente sui nostri teleschermi, quasi ad immortalare l’orrore del terrore, reso ancor più assurdo dal volo disarticolato di poveri corpi senz’ali, costretti alla scelta disumana di gettarsi nel vuoto, per evitare lo scempio straziante del fuoco.

Ambivalenza del volo, dunque, che al pari di ogni altra realtà umana può essere strumento solidale di vita, se ispirato da sentimenti di amore, e diventare veicolo distruttivo di morte, quando siano pulsioni di odio a indirizzarne la rotta, in sintonia con la fondamentale intuizione etica leopardiana, secondo la quale “L’amore è la vita e il principio vivificante della natura, come l’odio il principio distruggente e mortale” (Zibaldone: 59).

E, a proposito di Leopardi, il tema specifico del “volo” è presente nella sua opera, sia in due passi dello Zibaldone e in un brano della “Palinodia al Marchese Gino Capponi”, che contengono intuizioni folgoranti e quasi profetiche sulle prospettive di sviluppo dell’aeronautica civile, e sia nei versi conclusivi del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, in cui il sogno del volo umano affiora, ma solo per un istante, come erronea illusione di felicità, suscettibile di riscattare l’uomo dalla sua funesta condizione naturale.

Nel settembre del 1821, trattando della casualità di tante invenzioni scientifiche, Leopardi si pone un interrogativo in cui è racchiusa quella sorta di intuizione profetica di cui si diceva: “Chi sa che l’aeronautica non debba un giorno sommamente influire sullo stato degli uomini?” (Zibaldone: 1738).

Alcuni anni più tardi, nel settembre del 1826, l’intuizione si farà più precisa e circostanziata: “..se i palloni aerostatici, e l’aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l’uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà, se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverosimile, e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni , appena chiameranno civile la età presente,.. (Zibaldone: 4198).

Ancora a distanza di un decennio, quando Leopardi è ormai giunto all’ultima fase della sua vicenda poetica e umana, la previsione dello sviluppo dei collegamenti aerei si fa ancora più nitida, in alcuni versi della composizione satirica intitolata “Palinodia al Marchese Gino Capponi”:

“Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool rapido tanto
Sarà, quant’altri immaginar non osa,

Il cammino, anzi il volo………………”

Dai brani citati dello Zibaldone e della Palinodia emerge l’immagine di un Leopardi inconsueto, attentissimo all’evoluzione della scienza e della tecnica del suo tempo, e capace di prevederne gli sviluppi e di intuirne le influenze sulla condizione umana (l’aspetto che più gli sta a cuore) con oltre un secolo d’anticipo: basti pensare che Leopardi intuisce l’evoluzione dell’aeronautica al tempo dei primi palloni aerostatici, nei primi decenni dell’ottocento, e che i primi collegamenti aerei di linea saranno istituiti solo verso la metà degli anni trenta del secolo appena concluso.

Un approccio del tutto diverso al tema del “volo” è quello dei versi conclusivi del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, in cui Leopardi, dopo aver posto a raffronto la tranquillità della condizione animale con l’inquietudine e il tedio della condizione umana, si abbandona al sogno del volo come estrema, quanto illusoria, prospettiva di felicità:    

Forse s’avess’io l’ale
Da volar su le nuvole
E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero
Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.          

L’immagine di sconfinata libertà del pastore che sogna di volare sopra le nubi contando le stelle, e di correre tra le cime dei monti come il rombo del tuono, quasi evocando il mito di Icaro, può lasciare intuire le sensazioni che deve provare il pilota solista delle “Frecce tricolori” durante le sue mirabolanti acrobazie.

L’interesse di Leopardi per il tema del volo costituisce un ulteriore punto di contatto della terra marchigiana compresa tra le valli del Potenza e del Musone col mondo dell’aeronautica, oltre a quello rappresentato dalla Madonna di Loreto, universalmente riconosciuta come “celeste patrona” degli aviatori.

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di Nando Carotti

Ci sorge il dubbio che non sia stato facile l’approccio di Giacomo Leopardi alle arti figurative se, non più all’inizio della propria esperienza terrena, egli può ancora raccogliere nello “Zibaldone” pensieri che paiono più critici che esplorativi. E forse il dubbio nasce proprio leggendo e rileggendo quanto scrive un poeta che eleva il proprio ammirevole monumento basandolo sulla sofferenza, sulla solitudine, sulla incomprensione riservatagli da quel suo mondo racchiuso tra la finestra sulla piazzetta e le antiche mura.

Nessuno riuscirebbe ad immaginare il poeta recanatese nell’atto di inebriarsi di entusiasmo e di gioia quando mosso dall’osservazione del creato. Come nessuno si meraviglia che quel medesimo creato lo induca alla introspezione ed a nuova sofferenza, questa volta interiore, anche se l’artista sa bene che esse, introspezione e sofferenza, sono i veri motori capaci di produrre ed alimentare l’opera d’arte. Ma come potrebbe meravigliare che lo spirito leopardiano sia un continuo contrasto? La verità è piatta: è la fantasia che la rende dinamica. Così può sorprendere che Leopardi affermi “...Par che tutto lo scopo che si propone uno scultore (siccome un poeta) sia che la sua opera paia una statua antica (come un poema antico), dovendo solamente cercare ch’ella sia tanto bella quanto un’antica, o più bella ancora, quantunque, se si vuole, nel genere del bello antico” (19 Set.1823). Può sorprendere, abbiamo detto, ma non tanto se si considera quando, dove, perchè: per convincersene sarebbe sufficiente una sua affermazione successiva (24 Gentile. 1824) “Una statua, una pittura, con un gesto, un portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito, ancorchè non bello questo, nè bene eseguita quella, ci rapisce subito gli occhi a sè, ancorchè in una galleria d’altri mille, e ci diletta, almeno a prima vista, più che tutte queste altre...”. Non potendo mettere in dubbio la sua assoluta buona fede, e riconoscendogli quel nonsochè di più che evidenzia il genio, attribuiamo le sue idee in materia d’arte a condizioni temporali, ambientali e psicofisiche non trascurando, anzi tutt’altro, il suo sforzo penetrativo ed interpretativo. Oggi sappiamo bene che l’arte figurativa, ben lontana dal voler soltanto imitare l’antica, si appropria delle doti del genio non per negare la realtà ma per andare oltre la realtà, non per modificarla ma per immaginare come potrebbe essere se tutti possedessimo le doti necessarie per vedervi “dentro” ed “oltre”. E questo, con buona pace del poeta, nemmeno Leopardi poteva immaginare che sarebbe accaduto.

È anche vero che altrove, sempre nell’opera citata, Leopardi scrive battute e commenti del tutto differenti: certamente non per incostanza, più probabilmente perchè lo “Zibaldone” non è, e non voleva essere, un trattato, un libro di testo, ma semplicemente una raccolta di pensieri buttati giù man mano che il poeta li formulava tra sè e sè, appunti, giudizi, ricordi occasionali, riflessioni; al Poeta doveva essere caro quel “...io mi son un che quando amor mi spira noto, ed a quel modo ch’ei ditta dentro vo significando” di dantesca memoria. Forse con un pizzico di troppo di malinconia, di tristezza non sempre idonea, per sua stessa natura, all’apprezzamento dell’arte figurativa. Il che contrasta, a nostro parere, con l’affermazione di due anni precedente (19 Lug. 1822), che “in ultima analisi la forza dell’arte nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della natura”: ci balena il dubbio, piacevolissimo del resto, appagante, che il Poeta intravedesse che non tanti anni dopo di lui, appena un centinaio per la storia, l’artista figurativo si emancipasse, si svincolasse dalle pastoie della tradizione e del mitologico e, rischiando l’ostracismo ma in un supremo anelito alla libertà di espressione, mirasse alla “costruzione” di una verità che, non rinnegando quella fino allora nota ma prendendo lo spunto da quella, somigliasse di più alla realtà che, appunto perché tale, non poteva essere statica né limitata nei soggetti e nelle forme. Ci balena il dubbio, insomma, che Leopardi sia stato, almeno nei confronti delle arti figurative, un indicatore “ante litteram”, un precursore della spinta alla ricerca dell’arte totale.

Ci sarebbe piaciuto poter disquisire di persona con il Poeta intorno all’argomento: perché è molto probabile che l’istinto alla ricerca della vera dimensione della realtà ci accomunasse, accomunasse i nostri sforzi; anch’egli infatti rimane perplesso di fronte ad “un corpo che non sia nè largo, nè lungo, nè profondo...cambiamo la parola: diciamo uno spirito: a noi par di avere un’idea. E pur che altro abbiamo che una parola?”. E noi artisti moderni, noi derivati da quei figurativi cui fa cenno il Poeta, non siamo forse partiti dalla parola per tentar di giungere, ciascuno per la sua strada ma tutti insieme nell’unica direzione possibile, a rappresentare il concetto nascosto nella parola astraendo dal mito? Non abbiamo forse dipinto e scolpito l’amore, la sofferenza, l’angoscia, la gioia, l’amicizia e l’inimicizia, la pace e la guerra, la carestia e l’abbondanza, la vita e la morte? Forse il Leopardi, se potesse vedere le opere d’arte figurativa del secolo che l’ha seguito, non apprezzerebbe certi stili, certi modi: ma sicuramente troverebbe in esse un lodevole, anche se non sempre ben riuscito, tentativo di far diventare corpo apprezzabile quella “parola” che da quando mondo è mondo scoraggia i geni più agguerriti.

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Oh che bel mestiere fare il carrettiere…
 

di Pietro Alessandrini

I protagonisti di questa storia appartengono a quattro generazioni di carrettieri. In testa c’è Mariano Alessandrini, detto Marià’ d’Offagna perché proveniente da quella città. Era nato nel 1860 e aveva avuto tre figlie chiamate Anna (che poi emigrò in Argentina dove ebbe dodici figli), Ildegonda e Annunziata e un maschio di nome Arturo, ma conosciuto da tutti come Giuseppe, classe 1887, mio padre. Io ho costituito la terza generazione (sono del 1917) e la quarta è quella di mio figlio Alfredo, venuto al mondo nel 1953.

Mariano faceva il vetturino. Non so come abbia deciso di venire a Porto Recanati, nell’anno 1900, ma fu lui, in seguito, a convincere i suoi conoscenti Monarca (Vittorio e Giordano) e il fornaio Bragoni a venire al Porto anche loro. Possedeva un fiacre e un landò per il trasporto delle persone e della posta e un biroccino: quest’ultimo era un piccolo calesse a due ruote. I passeggeri li trasportava, come anche la posta, da Porto Recanati a Loreto o a Recanati, nei dintorni insomma. Poi comprò dei carri adatti per il trasporto di materiali più pesanti, proprio per affrontare il mestiere di carrettiere. Mi ricordo che avevamo un carro detto sterza (credo che si dica carro bilico in italiano) che poteva diventare molto lungo perché se ne poteva sfilare una parte e aggiungere delle ruote. Non era certo un mestiere facile o privo di sacrifici: qualunque tempo facesse, a meno che le condizioni non fossero proibitive, bisognava partire. Caldo o freddo, c’era poco da scegliere.

Allora, mio nonno, arrivato al Porto, prese in affitto uno stallatico che si trovava sul corso Vittorio Emanuele II, di fronte a casa Lucangeli. Nelle vecchie foto si vede ancora che li, nell’isolato noto come case di Santiago, c’era l’insegna di un cavallo. Era il suo stallatico: un lungo stanzone dove venivano ricoverati i cavalli delle persone che compievano dei viaggi medio/lunghi. Costoro si fermavano per poche ore o magari per una notte. C’erano anche quelli che giungevano dall’interno, d’estate, per una vacanza di qualche giorno al mare: lasciavano il cavallo nello stallatico (andavano ad alloggiare in qualche casa privata o in albergo) e mio nonno se ne occupava fino a che venivano a riprenderlo. Era uno stanzone lungo quanto la via Manin dal corso all’incrocio con via Cavour.

Da quel che mi diceva mio padre si trattava di un mestiere che consentiva di campare discretamente, di non soffrire la fame. Certo, però, i guadagni non erano davvero favolosi. Mi ricordo che per noi ci scappava sempre la colazione del mattino, che non tutti potevano fare al Porto. Molta gente beveva un sorso d’acqua e niente altro; noi potevamo procurarci un mezzo litro di vino, un po’ di pane e mortadella e con soli quattro soldi facevamo il primo pasto della giornata.

Il nonno raccontava spesso delle avventure che gli capitavano durante i suoi viaggi, ma quella che mi è di più rimasta impressa è la faccenda dei ladri di cavalli. Secondo Mariano, erano per lo più persone di Filottrano, di Montoro di Filottrano o del Ponte di Loreto; ma forse parlava così perché a lui era capitato di conoscerne qualcuno di quelle località. Per conto mio, penso che ce ne fossero dappertutto. Una volta ne rincorse due del Ponte, a piedi, ma non riuscì a pizzicarli.

Verso il 1910/11, in famiglia si verificò un grande evento, vale a dire il matrimonio di mia zia Ildegonda con l’ingegner Alfredo Gavanti, un milanese chiamato ad occuparsi della costruzione di una ciminiera nella fabbrica Colla e Concimi, che nel 1924 fu rilevata dalla Montecatini (Lo stabilimento era sorto nel 1907, ad opera della Società Marchigiana Colla e Concimi, quasi contemporaneamente al cementificio Scarfiotti. Entrambi gli insediamenti industriali erano stati costruiti su progetto dell’ingegner Moro, un livornese. n.d.r.). Dopo qualche anno i due si sono trasferiti a Roma. Con lo zio Alfredo arrivò pure un certo Sessa, titolare di un’impresa edile (fu lui che costruì, per esempio, la scuola elementare di Santa Maria in Potenza nel 1910 – n.d.r.)

Lo zio Gavanti contribuì alla costruzione del nuovo stallatico, in via Castelnuovo, di fronte all’osteria Riccetti: l’impresa fu effettuata tra il 1925 e il 1926 e il nonno ci impiegò i suoi risparmi di una vita. Aveva messo da parte quanto poteva per la sua vecchiaia; all’epoca non si parlava nemmeno di pensioni né i lavoratori avevano gran voce in capitolo. Ne dovevano passare degli anni perché le persone potessero guardare alla vecchiaia con maggiore tranquillità. Però andò tutto bene; mio nonno fu accudito dalla sua famiglia, come certamente meritava dopo una vita di duro lavoro e di sacrifici quale era stata la sua.

Sulla via Castelnuovo dava l’abitazione; lo stallatico si affacciava invece sull’attuale via fratelli Rosselli. Convivevamo, perché adesso anch’io comincio a ricordare personalmente, con la grossa stalla per i nostri 4/5 cavalli, l’angolo del pollaio, il maiale che tenevamo in casa, la rimessa dei carri, la latrina e il letamaio. Le cose andavano così, non c’erano certo le misure sanitarie di oggi, si campava alla bona di Dio, cioè ci si arrangiava come si poteva. E pensare che eravamo nove tra fratelli e sorelle, più mia madre, Maria Osimani. Una sorella, quando aveva appena due anni, era andata a Roma a vivere con lo zio Gavanti. C’era anche mio nonno, che era venuto a vivere con noi. Lui non l’ho mai visto con la giacca; portava sempre una mantellina come quella degli alpini. Nei giorni di festa, invece, indossava il mantello nero con un bel colletto blu, il tabarro.I miei genitori si erano sposati nel 1915: mio padre aveva infatti 28 anni e la moglie dieci di meno. Si erano conosciuti perché lei andava con sua sorella e sua madre a raccogliere l’erba che poi veniva portata a vendere allo stallatico dato che serviva per i cavalli. Le donne si alzavano assai presto la mattina per andare nei campi. Questo mestiere si svolgeva soprattutto di primavera. La nonna materna aveva a Castelnuovo due casette con cortile, che restarono alle figlie, Maria e Elisa.

Nella zona del paese che conoscevo meglio, Castelnuovo e la piazza, c’erano il facocchio De Angelis, detto Cutenì che accomodava le ruote dei carri ed era anche bottaio, il maniscalco Serangeli (Frajà), che curava pure gli animali, la cantina di Tullio, il forno di Gujè  e Nicò, il sarto Falcioni (Giggio) con la sorella, Mimì del Torcoletto e Delina de Maccaro’ e l’albergo Sant’Antonio.

I primi carrettieri dei tempi di mio padre furono lui, mio padre appunto, gli Attaccalite e Marco’, che di cognome faceva Bufarini. (N.d.r.: di quest’ultimo possiamo riportare un ricordo di Mario Matassini. Quando Marco’ era arrabbiato, si sfogava cantando. Mario ha ancora nella memoria un  dispetto d’amore che ci ha riprodotto così come lo trascriviamo di seguito:
‘Passu cchi de ggio’ e cchioppu la frusta, nun la cchioppu per te brutta civetta, ma la cchioppu pel caallu che va de cursa’
(Del dispetto ci sono naturalmente altre versioni)

Poi vennero i Campanella (Zaccari), Giuenga (Brutti), Gasparetto (Biagetti). C’era pure Gaspari, il padre di Guelfo, che era sposato con Assunta detta la Carbonara perché lui si occupava soprattutto del trasporto di carbone. Peppe Campanella, invece, andava fino a Visso a caricare il carbone e un po’ di legna da ardere; impiegava quattro giorni per andare e venire. Mi ricordo che la gente ne aspettava con ansia l’arrivo per potersi riscaldare. I carrettieri non sempre erano in pace tra loro. Anzi, spesso si assisteva ad autentiche scene da film western, con grandi scazzottate tra di loro: questioni legate al mestiere, forse piccole invidie o cose simili.

La giornata di un carrettiere dei tempi dei cavalli era senza orario. Ci si alzava quando era necessario e si rientrava quando avevamo finito il lavoro. La maggior parte dei trasporti era collegata alle imprese edili: si trattava di sabbia, ghiaia e mattoni che andavamo a prendere nelle fornaci. Poi c’è stato il lungo periodo di lavoro per la Cementi. In una foto pubblicata in un calendario del Centro Studi si vede con chiarezza il carro e il cavallo  che stazionano fuori della fabbrica, in attesa di ricevere il carico.

La roba da trasportare veniva portata o prelevata un po’ dappertutto in un territorio che possiamo comprendere tra Ancona, Macerata e Civitanova Marche; ma non si tratta di confini rigidi, spesso venivano oltrepassati. Ad Ancona si andava soprattutto per portare il pesce, in particolare i guatti e le seppie: si partiva in due e si provvedeva a tutto, dal carico allo scarico.

Il simbolo del nostro lavoro era, naturalmente, il carro. Per un certo periodo, verso la metà degli anni ’20, mio padre ha avuto uno di quei camion a ruote piene (un H18P), ma la faccenda non è durata molto. Il cavallo ha rappresentato perciò la vera forza motrice di una tradizione che è venuta meno solo subito dopo la seconda guerra mondiale. Io mi ricordo i cavalli ancora fin verso il 1948/49. Dopo di che è arrivata l’epoca del motore.  Io stesso ho acquistato un Ford che pagai 250 mila lire e da quel momento non si è più parlato di cavalli.

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di  Aldo Biagetti

Getulio Cingolani nasce il 1° febbraio 1891 a Porto Recanati, in una modesta casa a due piani sita lungo l’attuale Corso Matteotti al civico 168 (all’epoca n. 91), da Domenico e da Giacinta Zaccari.
Domenico, di famiglia originaria di Camerano, è nato a Porto Recanati il 27/08/1846, si è sposato il 13 settembre 1873 ed ha sette figli – tutti nati qui - :
Giuseppina nata il 19/11/1877, sposatasi con Domenico Duri di Loreto
Maria nata il 17/11/1877
Elvira nata il 2/10/1981, sposatasi con Dante Fava, muore di parto il 21/02/1903
Nazzareno (Alfredo) nato il 29/08/1884
Attilio nato il 7/05/1887, si sposa con Gilda Rinaldelli e muore a Recanati il 28/04/1966
Getulio
Romolo nato il 24/01/1894, si sposa con Giuseppa Gerboni il 10/05/1919 e muore a Porto Recanati il 24/11/1921 per malattia contratta in guerra.

Domenico svolge una faticosa ma saltuaria attività come bracciante agricolo e pur avendo l’infaticabile moglie aperta una piccola attività di mercerie nella casa per il Corso, decide di partire per l’America Latina volendo assicurare, alla numerosa famigliola, un introito sufficiente per le esigenze della vita e per sostenere adeguatamente i figli che intendono dedicarsi agli studi . Va a lavorare nelle miniere di rame, ritorna dopo 11 anni con un’artrite deformante e con diversi malanni. Compra subito due piccoli poderi in Comune di Loreto ed  un’altra casetta per il Corso, non lavora, ma cura i due campi tenuti a mezzadria, partecipa alla vita cittadina. È molto attivo nella Confraternita di Don Albino Mancinelli, sempre presente nelle numerosi processioni per portare i lampioni di vetro sostenuti con aste in legno dorato. La moglie è la cassiera dell’Associazione delle Madri Cristiane, due figli sentono la vocazione religiosa.

Maria si fa suora e dopo anni di attività a Porto Recanati diventa Superiora dell’Istituto del P.mo Sangue ad Ascoli Piceno. Padre Alfredo (Nazzareno) è Beatificiario della Basilica Lauretana, Canonico della Cattedrale di Recanati, ove muore il 29/10/1968, è tumulato a Loreto.

Attilio non prosegue gli studi e preferisce l’attività artigiana (falegname), Getulio frequenta il Ginnasio all’Istituto Salesiano di Loreto e poi il Liceo Classico in Osimo, si iscrive a Bologna alla Facoltà di Agraria  ma un anno dopo passa a Medicina. Muore ora il padre (22/08/1911) ma per le consolidate risorse finanziarie della famiglia non vi sono problemi per Getulio, per continuare gli studi.

Appena scoppiata la Prima Guerra Mondiale parte volontario per il fronte, nel 1916 – approfittando di una licenza- prende  la laurea, per ritornare immediatamente in prima linea, come Tenente Medico della Croce Rossa.

Congedato alla fine del 1918 esercita la professione a Porto Recanati ed è subito un acuto ed attento osservatore dei costumi e dei sentimenti della sua gente che più avanti, quasi al termine della sua vita, illustrerà in una serie di poesie nel dialetto locale, sempre così vivo e frizzante.

Getulio, dopo un anno di assistentato in Ancona, con il Prof. Baccarini, si specializza a Roma in pediatria. Nel 1925, l’11 luglio, si sposa con Wanda Sirà, un’insegnante nata a Perugia il 25 gennaio 1896, da Andrea, di Lione, ufficiale postale  e da Maria Fringuelli di Perugia, sarta. Ottenuto il diploma magistrale in Ancona, ove la famiglia si era trasferita per motivi di lavoro, Wanda, a seguito anche della prematura morte di entrambi i genitori, si dedica all’insegnamento prima a Penna  S. Giovanni, poi a Treia. Nel 1919 è a Porto Recanati, ove alloggia,  fino al matrimonio nella Pensione Roma, di Antonio Biagetti, sul Lungomare di Viale Lepanto.

Getulio e Wanda hanno tre figli, la primogenita muore a soli sei anni.

Nel 1932 Getulio è a Roma, quale assistente di uno studioso tedesco, segue pure un corso di specializzazione sulle malattie tubercolari (all’epoca molto diffuse), con studi approfonditi sulla cura della tubercolosi polmonare, con tecniche d’avanguardia per l’epoca.

Una mattina mentre sul ciglio del marciapiedi è in attesa di un mezzo pubblico, viene investito da una macchina condotta da un alto esponente del Fascismo, il generale Pariani, che però subito si allontana. Riporta un trauma cranico e fratture multiple, portato subito all’Ospedale avrà una guarigione lenta e non completa.

Ritornato a Porto Recanati riprende la sua attività come medico condotto, professionalmente ancor più preparato, ma sempre attento alle ansie ed alle aspettative della gente. Gira sempre con due ricettari, su uno riporta di continuo impressioni, battute umoristiche, frasi che poi traduce in sonetti nel locale dialetto.

Sollecitato dagli amici si presenta ad un concorso per poesie in vernacolo indetto dall’Ente Fiera della Pesca in Ancona (1936), ottenendo un buon successo, classificandosi al secondo posto dopo il maceratese Affede.

Sull’onda del felice risultato, raccoglie una cinquantina di sonetti in un volumetto che intitola “Al Portu de Ricanati c’è l’usanza”, edito dalla Tipografia Pupilli, che si presenta con un bel frontespizio, opera dell’amico Cesare Peruzzi, già affermato pittore. E’ questa, ed è doveroso sottolinearlo, la prima opera in dialetto portorecanatese,

Nel 1937, nell’assistere alcuni ammalati, componenti del Circo Arata che si sta esibendo a Porto Recanati, Getulio si ammala seriamente, sorgono complicazioni, gli viene riscontrata una pericardite. Aggravandosi la situazione decide di farsi visitare – siamo nell’aprile del ’38; va a Roma dal Prof. Frugoni, uno dei più grandi clinici di quegli anni. Frugoni lo trova molto debilitato e gli prescrive particolari cure prima di un necessario intervento, ma un attacco di cuore porta Getulio precocemente alla tomba, la mattina del 18 maggio 1938.

Wanda provvederà ad ogni necessità e cure dei due figli (sette e nove anni), continuerà ad insegnare con grande impegno ed elevato rigore morale fino al 1958, si spegnerà poi – dopo lunga malattia – il 31 gennaio 1983.

Sono passati  65 anni dalla pubblicazione de “Al Portu de Ricanati c’è l’usanza”,  una raccolta di 50 poesie, forse una cernita fra tante altre che solo la prematura morte impedirà all’autore di dare alle stampe. Molta simpatia ed interesse suscitarono subito i sonetti nell’ambiente locale, anche per questo non si comprende il successivo lungo oblio da parte di settori della Comunità locale, forse dovuto alla devastante Seconda Guerra Mondiale, forse al sorgere tempestoso di nuove mode, di altre attenzioni.

In  tutto questo lungo asso di tempo infatti, oltre ad alcuni appassionati articoli di  Sanzio Flamini sulla “Voce Adriatica” in occasione dei venti anni della morte e ad una schematica segnalazione a pag 54 di “Porto Recanati nostro” di Antonio Galieni (Editore Micheloni – Recanati , 1980) registriamo solo la conferenza tenutasi a cura del CSP nella Sala Consigliare di Palazzo Volpini il 27 febbraio 1993 su: “GETULIO CINGOLANI – UOMO E POETA”.

Relatore fu Marino Scalabroni, che volle tracciare un profilo completo del nostro personaggio, riteniamo giusto e doveroso riportarne integralmente i più importanti passaggi:

“Il Centro Studi Portorecanatesi nella sua continua ricerca per dare alla nostra comunità  una coscienza del suo essere e una identità storica ha potuto riscoprire figure eminenti che, pur ben figurando nei vari campi della cultura, dell’arte e della fede, per aver operato lontano dai confini limitati della terra di origine e spesso fuori degli stessi confini nazionali, hanno perduto ogni riferimento con Porto Recanati, scivolando via dai meandri della memoria storica del nostro tempo. Non si può dire la stessa cosa per un eminente figlio di questo paese, la cui voce, dopo quasi 50 anni dalla morte, continua ad essere viva e calda e appassionatamente cercata dai portorecanatesi:

GETULIO CINGOLANI, medico e poeta, dalla vena popolare vivace e fresca. Per i portorecanatesi Getulio Cingolani è il poeta locale unico, perenne, il poeta per antonomasia. Senz’altro è stato il primo a pubblicare una raccolta di versi in dialetto portorecanatese, ad affrontare una opinione pubblica impreparata, senza il supporto di circoli di cultura aperti  al gusto del vernacolo, allora piuttosto trascurato dalla cultura ufficiale. Getulio Cingolani, però,  non era limitato da problemi estetici di sorta. La sua preparazione umanistica, scaturita da una scuola come il Ginnasio Salesiano di Loreto e il Liceo Classico di Osimo, era tale da rendere sensibile il cuore ed agile il pensiero, la sua professione di medico chirurgo gli permetteva un contatto costante e genuino con il popolo, con la gente comune del paese, marinai e artieri, in un tessuto sociale ancora omogeneo e pittoresco. La sua origine, in fondo, era popolare…e la conquista di una laurea non sarà sufficiente ad imborghesire un carattere indipendente ed anticonformista come quello di Getulio, che sceglie, per esprimere i suoi sentimenti, il linguaggio del popolo, il linguaggio che era allora vivo e corrente. È un linguaggio che consente di toccare il cuore e di esaltare i sentimenti, ma è anche un linguaggio che può potenziare gli spunti picareschi  e maliziosi tipici della poesia popolare. L’uomo d’altronde respira a pieni polmoni quest’aria salmastra, perché la sua natura non subisce forzature, la vena scorre leggera, la rima dei sonetti guizza via, i ritmi e gli accenti raggiungono l’armonia. Sono acquarelli che non cadono nel concettoso e artificioso. La prima sensazione, leggendo, è quella di credere che il poeta  abbia scritto tutto per un suo, personale intimo godimento. Solo l’insistenza di qualche amico, scopritore di talenti, poteva convincere Getulio Cingolani a dare alle stampe il frutto della sua ricerca di tipi e di fatti visti con l’angolazione della sua ottica di osservatore acuto, malizioso e ricco di “humor”…;   “Al Portu de Ricanati” è una selezione accurata di 50 poesie tratte da un cassetto che a parere nostro ne doveva con tenere molte di più e, forse, ancora più incisive e  più esclusive di quelle prescelte. Probabilmente l’autore si riproponeva di presentarsi ancora al pubblico degli estimatori con un altro volume,  perché il successo dell’opera era stato evidente in quel lontano ’36, oggi estremamente remoto rispetto a questo nostro tempo così pretenziosamente ricco di facile sapere. Ma Getulio Cingolani, medico e poeta, a soli 47 anni, in quel lontano mattino del 18 maggio del 1938, stroncato da una malattia indomabile, moriva. Moriva un uomo, padre e sposo, moriva un medico e moriva un poeta. Lasciava un  profondo vuoto nella famiglia, ma lasciava anche un gran ricordo tra la gente,  tra quel popolo del quale era stato il cantore. Lasciava un vuoto nel campo del costume del suo tempo che dopo di lui per decenni restò nell’oblio. Un taglio netto, verticale, una perdita di valori preziosi ed irripetibili che nessuna ricerca odierna potrà completamente restituirci. Un patrimonio immenso, linguistico, lessicale, folcloristico è disperso ormai nella memoria profonda di pochissimi sopravvisuti. La crudeltà del destino, sottraendo Getulio Cingolani, allora e in quella realtà, ci derubò dell’unico attento, curioso testimone di un tempo che gli eventi della storia e del costume costituivano quale cerniera di due modi di essere di questo paese. Travolto dal progresso, culturalmente colonizzato dalla televisione, dal turismo, dalla immigrazione massiccia, dalla scuola che per tanti anni ha concorso ad abbattere le ultime resistenze della cultura popolare, questo paese si è visto crescere in termini di spazio e di abitanti, più macchine, più ricchezza, più godibile livello di vita. Ma resta una grave crisi di identità, reale e concreta. Per questo abbiamo sentito il bisogno, pressante come un debito di coscienza da pagare, di ricordare l’anniversario della morte di Getulio Cingolani, cui tutti dobbiamo riconoscenza.”

Continuando il suo intervento Marino Scalabroni ricorda come nel 1958 Sanzio Flamini avesse sollecitato l’Amministrazione Comunale e la Pro-Loco per una commemorazione del “nostro unico testamentario della poesia dialettale”.

Anche quella di Sanzio Flamini fu una voce nel deserto.

Né allora – conclude Scalabroni – venne raccolto l’appello affidato alle colonne di un giornale,né oggi è stato ancora accolto l’appello che il nostro Centro Studi ha lanciato affinchè il nome di Getulio Cingolani sia onorato dalla città che gli diede i natali, dedicando a quest’uomo eminente una strada, una piazza, una lapide a perenne testimonianza.

Oggi, mentre si conclamano i valori e si esalta l’uomo teorico e metafisico, facilmente si dimenticano quei valori che, qui tra noi, hanno veramente incarnato e vissuto le virtù civili, meritando il ricorso delle future generazioni.

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di Alessandra Cerioni

Pubblichiamo volentieri il breve omaggio, ma quanto sentito!, che la giovane jesina Alessandra Cerioni rivolge al nostro Porto. Ne siamo felici e ringraziamo di cuore.

Se giunsi volontariamente o involontariamente in quel Porto non credo di averlo capito ancora. Perché quando ti volgi verso qualcosa o ne sei attratto, non sai, nel momento in cui avviene, se dipende da una tua volontà o si tratta di altro, qualcosa di diverso, superiore alla coscienza, che da quella parte ti spinge.

Lì dovevo andare per lavoro, questo è ciò che con lucida coscienza e certezza sapevo, ma sempre lì era anche che sentivo di voler andare.
Sola, perché comunque forestiera in quei luoghi, osservavo tutto ciò che avevo intorno, volevo conoscere sino in fondo quel paese, che da subito era riuscito a plasmare il mio essere, le mie abitudini, la mia condizione.

Da quella piccola piazza, fiera di fronte al suo mare, quella passeggiata infinita che lo fiancheggia e che con esso va a congiungersi al termine dell’asfalto e delle mattonelle.

Le vie così regolari nella loro disposizione, nei colori e nella fattezza di quelle case. In una di quelle alloggiavo e mi piaceva pensare che proprio lì, chissà, molti prima, qualche lancettaro si accingeva a dormire, con la preoccupazione che quella brezza, che aveva accarezzato il suo viso al rientro, fosse l’avvertimento del mutare della direzione del vento buono: per lui quel mare era materialmene fonte di vita.

Vivevo spesso di notte e proprio con la notte capii che il fascino di quei luoghi non era dato solo dalla luce del sole che li illuminava e mostrava.
Sapevo ancora molto poco di Porto Recanati, ecco perché rimanevo affascinata da quei vecchi ricurvi su loro stessi che, come gnomi nei boschi di notte, uscivano, con l’arrivo dell’aria mite, sull’uscio delle loro case a mostrare che quelle rughe in quei luoghi si erano formate e ricordare quanto di quei posti essi invece conoscessero.

Io non sono nata in un posto di mare e mi ritrovavo così a pensare continuamente a quella presenza, al rumore delle onde che senza fine si infrangono sulla riva e su quella punta di scoglio e continuamente si ricreano. Nella città senza mare la gente, per ritrovare il proprio equilibrio, credo si rivolga alla luna….però la luna è così lontana e piccola!

Ora non mi trovo a Porto Recanati, ma una gioia illumina il mio essere e quando riesco a chiudere gli occhi ed incontrare nuovamente quei colori, ricordo la luce del sole riflettersi sul mare.

Tornerò, carissimo Porto,
       anche se ancora non conosco questa magia
       che verso te mi sospinge.

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Simpliciano dei Conti della Marina, Podestà di Castelfidardo nel 1215

di Renzo Bislani

Nel 1126 la bassa vallata del Musone è sotto la giurisdizione della diocesi di Umana. A sud del fiume Musone si estendono i possessi dei Conti della Marina, una nobile famiglia che dal Castello del Poggio o Podio, costruito sulla dorsale tra Gardeto e Montarice  allarga il suo potere anche alla vallata del Potenza. Podio è la collina dove sorgeva il castello feudale dei Conti della Marina con la torre. Nel secolo XVI erano conservati i suoi ruderi e lo stesso Vogel poté accertare la sua ubicazione durante le ultime ricerche, prima della sua morte. Gardeto è una località posta vicino all’attuale contrada Torrette di Porto Recanati. Fu un centro importante. Montarice, costituita dalle alture suddette, è un vasto territorio tra Loreto e il fiume Potenza. Vi era la rocca dei Conti della Marina

Osimo aveva ottenuto dal vescovo Ugo di Umana un tratto di costa da Sirolo al ponte del Musone con diritto e franchigia di approdo. Poiché i venti dominanti in questo litorale e la forza delle onde e delle correnti accumulano sabbie alla foce dei fiumi e chiudono lo sbocco da Nord, il tratto di spiaggia concesso agli Osimani tendeva sempre più ad aumentare. Nel contempo Recanati temeva di vedersi precludere la via del porto, e con una certa pretesa nei confronti dei Conti della Marina, rivendica se non la proprietà del Poggio fino al mare almeno la giurisdizione. Paolo e Roberto Conti della Marina, che erano padroni, per sottrarsi all’espansione di Recanati, invocano l’aiuto di Osimo.

V’è un altro personaggio della stirpe dei Conti della Marina, Simpliciano che è iscritto in un salvacondotto di Federico I il Barbarossa negli anni 1177 e 1178 come da Raccolta di Atti Pubblici Fermani.

Mentre il conflitto va avanti, Gislerio di Recanati (della Marina?) nel 1179 vende a Ribaldone, priore dell'Abazia di Fiastra, alcuni suoi terreni situati nel podere di Montorso e di Monte Prodo, la terra su cui verrà costruita la grancia, dimostrando così di controllare tutta la fascia costiera tra il Potenza ed il Musone, fino a Monte Prodo, ad ovest del quale si trovano le sinacte che segnano il confine con Recanati. Montorso è il colle che sorge tra Porto Recanati e Loreto. Conserva ancora il toponimo. Monteprodo è un’altura contigua a Montorso e coincide con il colle sul quale sorge il santuario della Santa Casa. Nell’atto sono nominati ora Simpliciano e Paolo.  

Nel 1182 i Monaci di Fiastra costruiscono infatti sulla collina di Montorso una fattoria (Grancia appunto) e in seguito vi innalzano una chiesa e vi organizzano verso il 1326 un piccolo centro sociale fortificato con un castello per difesa dalle incursioni piratesche. Vi dominavano i Conti della Marina con molti terreni e diritti. Riscuotevano gabelle e dazi dagli approdi, come dai pedaggi e dalle riserve di pesca e di caccia. Il fosso della Marina, posto tra la Sbocca e la Sbocca del Sasso, costituiva il porto feudatario. Il porto dei Conti della Marina doveva essere ubicato quindi tra l’odierna Porto Recanati e il Musonaccio.

Si legge ancora il nome di Paolo in un documento dell’anno 1184 come dal Registro degli Atti Pubblici di Fermo.

Roberto della Marina (il terzo o il quarto uomo fin qui incontrato) è presente quando il Presbitero Vescovo Fermano nell’anno 1198 concede agli abitanti di Montesanto quel privilegio del quale riferisce Catalano, come riportato in appendice al Memoriale della Chiesa di Fermo.

Di Paolo e Roberto e dei loro diritti depredati si parla nella sentenza dell’anno 1199 conclusa con la mediazione di Giovanni di San Paolo, cardinale di Santa Prisca. Nel documento si dichiara che nello stesso anno Paolo è stato in Osimo ospite nella casa di Zaccaria. Vedi Aneddoti.  Il 17 novembre del 1199 Recanati favorito dalla sorte e solamente con la mediazione  del Legato Pontificio della Marca che conduce a un accordo  stipulato tra Osimo e Recanati,  riesce finalmente  a sottomettere i Conti della Marina assorbendone quasi tutti i beni. “Die demum 17 Novemb. Cardinalis Johannes a S.Paulo, qui Marcovaldi opes fregerat, ac Provinciam in Romanae Ecclesiae potestatem traduxerat pacem Recanatenses inter et Auximates constituit, quam Innocentius Pontifex non ita multo post ratam esse decrevit. Ex utraque intelligimus discordiam fuisse Recanensibus cum Auximanis ob Paulum et Robertum de Marina dominos Podii. Huius proprietatem summumque dominium Recanatenses asserebant ad se pertinere; Domini vero Podii Auximatium opem ne sui juris esse desinerent imploverant. Paulus tamen et Robertus supradicti rebus compositis bellisque sedatis se suaque Recanatensibus dediderunt civesque Recanati eadem qua alii nobiles conditione effecti sunt.  Terminata la lotta armata a favore di Recanati, i signori del Poggio rassegnarono i propri diritti e, come gli altri nobili, diventarono cittadini recanatesi.

Una guerra tra Ancona e città alleate, Sant'Elpidio, Civitanova, Corridonia, Recanati, Castelfidardo, Camerano, Senigallia, Pesaro con i rispettivi territori da una parte e Osimo, Jesi, Fermo e Fano dall'altra è in corso nel 1201. L'opera di pacificazione e di ritorno alla normalità promossa da Innocenzo III comincia a dare i suoi frutti. Il papa scrive una lunga lettera alle comunità di Osimo e vicine per invitarle a un'intesa. Si addiviene quindi il 18 gennaio del 1202 alla firma solenne della "Cartula composicionis pacis." Con la pace di Polverigi, Paolo e Roberto della Marina, forse l'unica famiglia feudale di cui si possiedono notizie più precise, dopo essere stati sconfitti dal Comune di Recanati sono costretti alla definitiva sottomissione ed alla consegna dei loro beni. “Denique a.1202 18 januarii in percelebri illa pace Pulverisiae prope Anconam inita qua Firmani Auximani et Aesini cum Fanensibus Senogalliensibus Pisaurensibus Humanatensibus et Recanatensibus aliisque in concordiam rediere finis quoque impositus est contentioni de iis qui incolae fuerant Castri Montis Fani quique oppido suo post mortem Henrici Imperatori destructo Recantensium civium auxerant numerum. Jussi sunt ii reverti ad pristinas sedes uno excepto Gislerio quodam cui permissum est abire quo libuisset.

Tra i due colli di Montarice e Montorso e i due fiumi Musone e Potenza davanti al mare, avrà origine l’odierna Porto Recanati. La sua rocca sorgerà intorno al 1225. 

Innocenzo III convoca frattanto un Parlamento ad Orvieto in cui stabilisce di sostituire il regime consolare con quello podestarile.

Il  Papa, su istanza di Nicola priore e dei suoi monaci, imitando i suoi predecessori Gregorio VIII e Celestino III, prende sotto la sua protezione (24.9.1202) l’eremo di Fonte Avellana, ne conferma i possessi e concede immunità e diritti alla “...ecclesia Sancti Anastasii (de) Castro Fichardo, ...I Castellani, parteggianti ora contro la Chiesa per salvare sé e il Castello da minacciata rovina, fin dal giorno 9 del mese di Novembre dell' anno 1215, rappresentati da SIMPLICIANO, loro Podestà  nella Chiesa di Santa Lucia in Recanati, avevano stretto solenne patto di confederazione con Ancona, Umana, Recanati e Cingoli contro gli Osimani, Jesini, Senigagliesi, Fanesi e loro distretti. Con quell’atto, alla presenza di molti testimoni in  esso stesso indicati, rogato da Giovanni già notaio di Castelfidardo, ed allora di Cingoli, aveva stretta con giuramento fra quelle Città e Terre ghibelline, perpetua alleanza, schietta e leale amicizia. “In nomine Ste, et individue Trinitatis. Anno Domini MCCXV. Actum in Ecclesia Ste. Lucie Racanato VIIII. exeunte mense Novembris tempore Domini Innocentis Pp­ et Domini Imperatoris Octonis IV. Indic III. Hec est convenientia, et promissio, quam faciunt Dom. Rogerius Bartolomei, et Vidolinus Mattei Ambassiatores Ancone nomi­ne dicte Civitatis, et Dominus Tebaldus de Petriolo Ra­canati Potestas nomine Communancie predicti Castri, et Dom. Sempritianus, Castri Ficardi Potestas nomine Communis predicti Castrí, et Ambassìatores Civitatis Humane videlicet Rigus Presbíteri, et Acto Caucale nomine dicte Civitatis per se suosque, subcessores, promittunt, et faciunt, et corporaliter jurant Roberto Mainetti Potestati Cinguli, nomine Communancie Cinguli recipienti, scilicet perpetuam societatem, et compagniam puram, et lealem observare; … » La storia di Osimo, Recanati e Castelfidardo va avanti con alterne vicende.        

Nel 1285 il fiume Musone scorre a ridosso delle colline di Monte Prodo e di Montorso. Le terre confinanti con i beni della Mensa vescovile di Recanati sembrano appartenere ancora a pochi proprietari nobili tra i quali: Natinguerra e Simpliciano, figli  di  Roberto. La Cittadella viene nominata in questo anno e doveva trovarsi verso il confine antico di Recanati nelle vicinanze dell’odierna contrada del Carpine. Dovette appartenere come tale ai Conti della Marina, avendovi anche delle proprietà.

Per finire. Il 5 agosto del 1292 Nicolo IV con suo breve di Orvieto concede ai Castellani “piena facoltà di servirsi liberamente delle acque del fiume Musone e dell’Aspio in servigio dei loro antichi molini e dei nuovi e per i fiumi dell’Aspio e dell’Acquaviva poter correre fino al mare con barche vuote o piene”. Effetto Simpliciano? 

Più specificatamente sui Conti della Marina leggiamo ora cosa riporta il Vogel  nella sua opera “De Ecclesiis Recanatensi et Lauretana” edita nel 1859 a mo’ di nota.            

Vi sono altre notizie della nobile schiatta negli anni e nelle occasioni che seguono:

D. Simplicianus Potestas fuit Castri Ficardi An.1215.
Simpliciano figlio di Roberto notizie anno 1259; Gualtieruccio di Roberto notizie 1288; Natinguerra di Roberto anno 1286. Matteo figlio di Roberto, nel testamento redatto nel 1292, elegge il figlio erede. Burgaresco e Federico figli di Simpliciano notizie 1286-1315. Longino figlio di Guglielmo di Paolo anno 1238 e Filippo suo figlio (di Longino) 1286. Bertuccio di Gualtieruccio notizie 1329-45. Ciccolino e Piero figli di Bertuccio 1345-71 Piero dei Conti della Marina fu senatore a Roma nel 1372. Roberto figlio di Piero morì circa 1384 lasciando la figlia Francesca. Ciccolino, di cui sopra, fu padre di Smiduccio. Gabelluccia moglie di Piero fu figlia di Antonio di Piero de Cimis di Staffolo, da cui nacque Biancofiore.  Morto Piero, la moglie Gabelluccia andò sposa a Francesco Bartoli di Silvestro di Cingoli. Sua figlia (di Piero) sposò Ludovico Alemanni e non ebbe figli maschi. Sopravvive la discendenza femminile nei Venieri nobili di Recanati”

Riepilogando, per quanto ci riguarda:

Un Simpliciano è presente nel 1177.78, un altro nel 1179, un altro ancora nel 1215 senza indicazione di paternità.

Figli di Roberto troviamo: un Simpliciano 1259 e 1286 e Natinguerra nell’anno 1286. Mentre Burgaresco e Federico, figli di Simpliciano, appaiono nel 1286 e 1315.
Ammesso che il nostro personaggio fosse il primo e avesse avuto nel 1177 venti anni, nel 1215 ne avrebbe avuto 58 anni. Burgaresco nel 1286 se fosse nato nel 1215 avrebbe avuto 71 anni, ma Federico 100. A meno che, il nostro Podestà non abbia filiato in veneranda età. E poi?

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di Gabriele Cavezzi

Pubblichiamo con piacere (anzi, per noi è un onore) questa comunicazione di Gabriele Cavezzi, presidente dell’Istituto per la ricerca delle fonti della storia marinara del Piceno di San Benedetto del Tronto, letta in occasione delle giornate sulla poesia sambenedettese del gennaio 2000. Con ciò, i nostri ‘dintorni’ si allargano, ma ne siamo assai felici.

In questi pomeriggi in cui abbiamo incontrato la poesia ed il dialetto, i poeti e la loro lingua, sono state dette molte cose, per cui ritornarci su mi sembra ozioso. Affronterò pertanto subito quella che ritengo “na bella presura che me scjete date” (una bella presura che mi avete dato), ossia il tema che mi è stato assegnato.

Ma prima bisogna che mi liberi di un peso che riguarda una questione che forse non farà piacere a tutti,  e che comunque fa male anche a me che la debbo dire: il dialetto come strumento di pensiero, come mezzo di comunicazione verbale e scritta, come tramite di anelito poetico, è morto, o sta morendo, e noi nei nostri incontri ne abbiamo celebrato gli ultimi sussulti.

Per dirla in sambenedettese, il dialetto “fa i cazette(fare i calzetti a significare i movimenti incontrollati che fa il morente prima di tirare le cuoia). Questo per parlarci chiaro, affinché non si confonda la memoria con l’attualità e si riesca a veder chiaro su ciò che ci aspetta – rispetto a questo problema - come dovere di sambenedettesi, come compito civile e culturale di testimoni privilegiati di una delle stagioni più straordinarie della storia dell’umanità, il XX secolo, in uno dei posti  più belli ed interessanti del mondo tra Tronde e Tescjé (Tronto e Tesino i due fiumi che ne limitano il territorio storico e culturale). Pensare di riportare alla fruizione corrente il dialetto, di difenderlo sino alle estreme conseguenze, significherebbe compiere un’operazione delirante che non sarebbe compresa da quelli ai quali invece dobbiamo far pervenire, accettare e vivificare la nostra testimonianza.

Anni fa avevo ideato di programmare un Corso di Riqualificazione sulla Storia ed il Dialetto Sambenedettese destinato a uomini politici, funzionari comunali, operatori economici, giornalisti, insegnanti scolastici, in quanto avvertivo il sempre più forte distacco, soprattutto da parte delle prime due categorie, come “corpus movens” dalla vita e dalla cultura sambenedettese. Ovviamente seguito da un esame per accertare il profitto dei discenti. Ma poi ho intuito che sarebbe stato frainteso e forse se ne sarebbe colto solo l’aspetto provocatorio, peraltro molto evidente, e sarebbe andata perduta la finalità meramente didattico-formativa.

La mia era una proposta indirizzata anche ai tanti autentici sambenedettesi ridotti a semplici “zombie” dai processi di espropriazione e di promozione al consenso, condannati a recitare solo il ruolo di fruitori dello spettacolo di una montante alienazione con il proprio passato, la propria memoria.

Ma c’era anche una difficoltà che avvertivo ed era quella della sempre più rarefatta presenza e disponibilità di docenti, per cui non se ne fece nulla. Ed ora, per uscire da questi paradossi dialettici…sul dialetto (mi si perdoni il bisticcio), da queste cattiverie un po’ leghiste ma non secessioniste…dope che so messe le ma ‘nnanze pe nen sgrugnamme lu mose (dopo che ho messo le mani avanti per non cadere di faccia a quindi farmi male al viso) …dico che dobbiamo prendere coscienza che viviamo in una società che sempre di più va verso processi di omologazione, dove i diversi apporti culturali ed i valori che li esprimono non subiscono mediazioni solo ponderali ma soggiacciono a leggi mercantili. E sarebbe quindi altrettanto colpevole non impegnarsi per conferire, all’interno di questa sorta di Giudizio Universale che è il Mercato Globale degli oggetti e dei valori, anche il nostro contributo, affinché tutto non scompaia per sempre ed irrimediabilmente.

Dicevo del nostro futuro o almeno del futuro di un impegno, per rispondere al quesito della nostra enunciazione … “préme che se fa notte”.

Anzitutto occorre affermare un principio che se riguarda tutti i contesti dove una lingua locale ha rivestito o riveste carattere di peculiarità, ancora di più riguarda S. Benedetto, dove essa si è andata formando attraverso un sovrapporsi ed un integrarsi di circostanze originali assai diverse nel tempo e nelle modalità: la storia di S. Benedetto è anche la storia del suo dialetto. La lettura della prima (la storia) ci consente di comprendere il secondo (il dialetto), ma anche studiando il secondo (il dialetto) si può capire meglio la storia di questo posto e della sua gente.

Quindi il dialetto come risultato delle sue diverse forze geniche ma anche come fonte della storia.

  Sulla scorta di questo principio di duplicità e di integrazione occorre ricostruire il nostro passato, non più preda di processi di idealizzazione, di esaltazione campanilistica, ma frutto di rigorosa ricerca delle fonti, avente presente sempre il limite di queste. Su tale argomento credo che si stiano facendo dei buoni passi; e S. Benedetto risulta uno dei paesi d’Italia con il più alto grado di qualificazione nell’indagine e di quantità di indagatori, in rapporto al suo peso demografico ed alla sua storia. Ma la quantità di ricerca prodotta e di ricercatori supera quella dei lettori e qui sta uno dei nodi primari da sciogliere.

  Avvicinare un numero sempre maggiore di utenti a quei risultati consentirebbe di capire quanto ricca sia stata di apporti universali la storia di S. Benedetto e quanto universale sia stato il contributo dei sambenedettesi alla storia di altri paesi per rispettarla e comportasi di conseguenza in tutti i campi dell’operare umano locale.

  Il territorio ed il mare non sono state solo metafore di un racconto ma le cause prime degli eventi, degli arrivi e degli esodi. Sulla spiaggia non sono approdate solo barche, “ciuschie” (residuale della marea) e “quanne jè arbé, cucchie de secce e loffe de talafé” (quando è Garbino si pescano solo ossi di seppie e “loffe” di delfini, ossia le muccillagini), per intenderci, ma anche uomini che parlavano la lingua franca dei mestieri alieutici provenienti da tutte le isole e le coste dell’Adriatico. Lungo le sue strade e i suoi slarghi hanno camminato e sostato eserciti di tutta l’Europa medievale, rinascimentale, napoleonica e delle alternanze successive: e quelli non hanno lasciato solo “cacarozze de sumare” (escrementi di asini) e “bresciate i pajò” (bruciare i pagliericci, ma anche abbandonare repentinamente una situazione dopo averne procurato i guasti) degli accampamenti. Attraverso la frontiera meridionale non sono passate solo “trendarole” (venditrici di pesce che giungevano a piedi attraversando il fiume Tronto con i panieri sul capo) e “cundrabbannire” (contrabbandieri) , ma anche parole e modi di dire che si confondevano con quelle degli altri del retroterra che affluivano man mano che le opportunità di vita vi diventavano più propizie.

  I riscattati dalla schiavitù delle diverse piraterie non hanno riportato solo la voglia di riabbracciare i loro cari, quando l’hanno avuta, ma anche i saperi ed il linguaggio dei luoghi vissuti ed attraversati. Taluni, rientrando 50 anni dopo, parlavano arabo e pregavano Allah in via delle Conquiste (oggi solo Conquiste e conduce al Cimitero)! In una nemesi del nostro dialetto oggi si sente parlare sambenedettese a bordo di navi oceaniche da equipaggi di colore!

  Basta ripercorre le genealogie delle nostre famiglie per capire quale crogiolo genetico e linguistico deve essere stato S. Benedetto in questi ultimi tre secoli! Dal 1798 al 1944, in uno spazio inferiore ai 150 anni abbiamo registrato 50 passaggi di eserciti più o meno regolari, acclamato decine e decine di bandiere, persino i cosacchi sono dovuti intervenire con i loro scudisci per sedare i tumulti davanti al forno del pane! Abbiamo subito 12 guerre di cui due mondiali con effetti devastanti e duraturi sul nucleo abitato e sul tessuto demografico; abbiamo visto percorre il vento della morte endemica ben 5 volte, tre per il colera, una per la spagnola ed una per il tifo petecchiale. E stiamo parlando di una popolazione uscita da privazioni e fatiche immani, lutti in terra e tanti sul mare, nei mestieri più umili e disagiati, che hanno finito con il plasmarne il carattere ed innegabilmente la lingua, unico strumento di comunicazione in un universo elementare per quei bisogni.

Sino alla fine del XIX secolo l’analfabetismo era quasi totale negli uomini, ma nella donna era la regola; nel periodo napoleonico gli editti e le ordinanze dovevano essere lette in chiesa “nel linguaggio degli idioti” perché il popolo non capiva nemmeno l’italiano, quindi la voce ed il dialetto erano giornale e televisione, internet e fax per tutti. Allora si comunicava più con i simboli delle vele ed i pennoni che con il foglio di carta, con le fochere più che con la posta.

Nel suo libro su S. Benedetto, Guidotti ci racconta di quando le barche facevano “conto” e quella che aveva incassato di più aveva diritto di fregiarsi con i pennoni più numerosi e sgargianti, parlando quindi con le sferze colorate: ed ogni movimento con il corpo della barca assumeva un significato nel linguaggio muto per prendersi in giro tra equipaggi, scambiarsi allusioni e saluti. Un tempo era più importante comunicare con gli elementi che con le creature viventi e gli uomini dovevano saper decifrare il linguaggio del vento prima di poterlo tradurre in codici sonori, in parole. Ed i confini materiali erano gli unici da superare, non esistendo quelli della paura ed ancor meno quelli politici. Il curato si trovava in difficoltà persino a somministrare i sacramenti a sud dell’Albula quando sopravvenivano le pive de lu fusse (la piena del fosso)

Solo nel XVII secolo si è aperta una strada litorale lungo la marina e quindi le barche hanno costituito il veicolo privilegiato per scambiare merci e fonemi per un lungo periodo. E non mi si venga a dire che questa è una storia eguale a quella de Carrassà (Carassai comune del retroterra marchigiano, allusivo delle origini del Capo-Servizio della Cultura del Comune) o de Curruppele (Corropoli, comune del retroterra abruzzese, idem dell’Assessore comunale ai Servizi Sociali). La nostra storia non ce la regala nessuno, dobbiamo recuperarla da soli prima che altri, magari in sede accademica e quindi non più discutibile, ci confezionino le alternative per il loro uso mediatico,  strumentale rispetto a sistemi gerarchici interni ad altre culture.

Il cognome più diffuso a S. Benedetto, ormai da qui sparso in tutta Italia e nel Mondo è Palestini, evoluzione di quello che nel XVIII sec. era Palestrina, designante di calafati e pescatori di Palestrina in quel di Chioggia, qui emigrati alla fine del secolo precedente! Sarà un Palestini, Francesco, a metà del XX secolo, a scrivere la grammatica su questo nostro dialetto, a raccogliere e consegnarci con essa un glossario ricchissimo, con la storia del suo formarsi.

Ho qui in mano un cartoncino augurale dell’Assessore Regionale alla Cultura in cui ci si dice NEL 2000 COME 3000 ANNI FA UNITI PER LA CULTURA DELLE MARCHE : direbbe il coatto romanesco Ma dde che?! L’abruzzese acculturato: Ma che ciazzecca! L’ascolano sfrigne, cioè ironico, Che jè ditte? Il sambenedettese maschio Ma levite ambù de jesse! (Ma levati di torno)..e la donna..Ma nen sciapenejete! (non siate scipiti, da cui il verbo sciapiniare)

Dico io, come si fa a mandare auguri più stupidi e falsi di questi quando per 3000 anni ci siamo scannati, prima tra Galli e Piceni, poi tra quelli che erano amici di Roma e gli altri, tra quanti finivano sotto i barbari e gli occupati dai Bizantini, più tardi tra gli amici della Chiesa e quelli dell’Imperatore, tra  soggetti ai comuni e gli altri alle signorie del nord della Marca, ai Malatesta, e quelli e questi tra loro…fino ad oggi che, ci sentiamo occupati e governati da un potere culturale che parla solo romagnolo, al massimo anconetano!

Ma per tornare a noi dobbiamo anche dire che occorre altrettanta determinazione nello studiare questi nessi a cui facevo cenno ed i risultati finali che ci sono giunti e di cui abbiamo fruito nella nostra fortunata adolescenza, nella nostra giovinezza, consumato nella maturità: un dialetto ricco di assonanze e con un potere evocativo straordinario, forte e duttile nel contempo, che consente di esprimere il banale e l’indicibile con la stessa semplicità lessicale, con la stessa mediterranea sonorità.  Ed è questa una delle componenti più difficili da preservare come prova testimoniale.

Prima che il tempo ci divori e con noi la nostra lingua, pardon, il nostro “dialetto”, occorre codificare soprattutto i fonemi, per salvare quella che viene localmente definita “la calata”, da non confondersi con “culate o culature”, “culate nel senso di fortuna, culatore nel senso del bucato con la cenere”, oppure “calata de rete”, “calate de sole” nel senso l’una da discendere in mare (la rete) e l’altro dietro i monti (lu sole) (Mosce d’immerne, Brescecce d’estate) (i due colli che caratterizzano altrettanti luoghi del tramontare del sole). La “calata” nelle diverse varianti femminili e maschili, de “su dendre” e de “jo la marene”, de i “pajarà” o de i “menderò”, de “Sanda Lecì” e de “jo bescì”, de lu “ponde rotte”, vicino “lu fusse de i zenghere”, dei momenti di conflittualità verbali e di invocazione, di “rifrecazione” o di ammonimento, di relazione: “Ua cì”, “uà cò, “uà ze”, “uà nepò”, “serella mmine”…coordinate ormai riconoscibili solo da pochi in una socialità frantumata dal progresso, privato dell’onomatopeico, deturpata dalla sintesi tecnologista, ingannata in “tempo reale”.

Occorre recuperare tutti i modi di dire ed i personaggi caratteristici, i soprannomi (quanti di questi sono diventati cognomi!) ed i luoghi, le usanze ed i riti, i simboli e gli scongiuri, insomma portarsi in questo secondo millennio - che ancora deve giungere – con il più prezioso dei tesori che ci hanno lasciato i nostri padri: la loro storia e la loro lingua! Un lavoro questo che già è iniziato grazie ad alcuni volontari, e tra questi i “puete nnustre”, i morti ed i viventi. Attenti, qui il possessivo nnustre sovrasta il sostantivo di poeti: noi diciamo pardete, mammete nella seconda persona, ma nella prima babbe mmine, mamma mmine, i fratjie nnustre; quindi nnustre viene impiegato per sottolineare una complicità,  un’appartenenza quasi parentale con quei poeti, a privilegiarne questi aspetti di legame prima.

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di Giovanni Mordini

Una ricerca meritoria di Giovanni Mordini, che da tempo chiede un riconoscimento del sacrificio delle vittime civili delle due guerre mondiali del secolo scorso da parte dell’Amministrazione Comunale. Ci auguriamo che il suo appello sia ascoltato. Ci auguriamo anche  altre segnalazioni per l’eventuale completamento dell’elenco.

GUERRA 1915 – 1918


Cappelletti Giselda – Nata a San Benedetto del Tronto il 3 giugno 1901, deceduta il 24 maggio 1915 in seguito a ferite riportate nel bombardamento navale austriaco effettuato alle prime ore di quel primo giorno di guerra.
Catini Iginia – Nata a Potenza Picena il 28 ottobre 1892, deceduta il 24 maggio 1915 nelle stesse circostanze descritte per Cappelletti Giselda.
Catini Armando – Nato a Sant’Elpidio a Mare il 10 febbraio 1906, deceduto il 24 maggio 1915 nelle stesse circostanze dei due sopra elencati.

GUERRA 1940 – 1945


Gasparini Annita – Nata a Porto Recanati il 2 dicembre 1907, deceduta il 16 ottobre 1943 per ferite riportate in seguito ad incursione aerea. Si trovava in Ancona.
Rotelli Enrico – Nato a Potenza Picena il 4 maggio 1922, deceduto il 26 febbraio 1944 per esplosione di un proiettile.
Matelicani Vincenzo – Nato a Recanati, nella frazione Porto di Recanati, l’8 marzo 1868, deceduto il 5 luglio 1944 per scoppio di bombe lanciate da aerei tedeschi.
Cecconi Italia – Nata a Porto Recanati il 4 febbraio 1925, deceduta il 5 luglio 1944 insieme a Matelicani Vincenzo.
Cecconi Vincenzo – Nato a Porto Recanati il 4 febbraio 1929, deceduto il 5 luglio 1944 con Cecconi Italia e Matelicani Vincenzo.
Buffalari Maria Pia – Nata a Porto Recanati il 2 febbraio 1939, deceduta il 4 ottobre 1944 per scoppio di ordigno bellico.
Moroni Caterina – Nata a Porto Recanati il 3 marzo 1937, deceduta il 6 ottobre 1944 per ferite riportate in seguito allo scoppio di ordigno bellico.
Sampaolesi Maurilio – Nato a Porto Recanati il 23 settembre 1936, deceduto il 3 marzo 1945, causa esplosione ordigno bellico.
Foresi Antonio – Nato a Porto Recanati il 2 settembre 1937, deceduto il 14 settembre 1945 per ferite riportate in seguito a scoppio di ordigno esplosivo.
Magarelli Paolo – Nato a Porto Recanati il 30 marzo 1936, deceduto il 14 settembre 1945 con Foresi Antonio.
Matassini Luigi – Nato a Porto Recanati il 3 settembre 1932, deceduto con Foresi Antonio e Magarelli Paolo.
Zagaglia Francesco – Nato a Porto Recanati il 17 agosto 1937, deceduto il 14 settembre 1945 con Foresi, Magarelli e Matassini.
Montironi Aldo Duilio – Nato a Porto Recanati l’8 febbraio 1936, deceduto il 19 dicembre 1949 per ferite multiple da schegge metalliche.
C’è da segnalare anche
Camilletti Pasquale morto a 17 anni, il 10 settembre 1943 a Roma, durante i combattimenti di Porta San Paolo .

Nel ringraziare Giovanni Mordini per averci ricordato dei concittadini da troppo tempo dimenticati, rileviamo che sui diciassette nomi in elenco ben quindici erano di età tra i 5 e i 23 anni, giovani e giovanissimi dunque; solo Annita Gasparini era in età adulta mentre Vincenzo Matelicani era l’unica persona anziana.
Un vera strage degli innocenti, come sempre in ogni guerra.

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di  Antonio Bartolo

Sono nato nel 1940, in campagna, nella zona di Scossicci in territorio di Porto Recanati, in una casa parte semi nuova, parte diroccata. La mia famiglia era composta da mio padre, mia madre, un fratello e da me; con noi convivevano un fratello di mio padre, con moglie e due figlie, e una loro sorella, nubile. Complessivamente un nucleo famigliare di nove persone. I miei ricordi sono tanti, scavati dentro la mia vita, dall’infanzia fino all’età di 23 anni, quando ho finito il servizio militare (1963).

Nel ricordo della mia infanzia ci sono l’orrore della guerra, i bombardamenti, i tedeschi che si ritiravano distruggendo la ferrovia, i ponti, le case e le strade portando via tutto quello che trovavano: uomini, maiali, altro bestiame, riserve alimentari come farina, salumi etc….E poi, bombardamenti che infuriavano, carri armati che sparavano in continuazione, aerei che mitragliavano o lanciavano bombe pesanti per distruggere ponti e ferrovia; allarmi che suonavano dallo stabilimento della Montecatini ogni volta che arrivavano gli aerei alleati o quelli tedeschi e allora era sempre un fuggi fuggi nei rifugi scavati sotto terra sulla vicina collina oppure sotto un ponte ferroviario. La notte era sempre di fuoco, che veniva anche dal mare con i razzi luminosi delle navi che sparavano a terra.

In casa nostra ospitavamo un partigiano di Loreto con la sua famiglia. Apparteneva al gruppo dei fratelli Brancondi; dopo che questi furono scoperti, catturati  e fucilati sotto la selva di Castelfidardo, i tedeschi cercarono quest’altro partigiano che era nascosto a casa nostra; rischiammo la vita, tutti quanti, ma non lo trovarono e così scampammo allo sterminio della famiglia. Il fronte passò, i tedeschi se ne andarono lasciando rovine e miserie, fame e lutti. Fortunatamente nella mia famiglia il babbo e lo zio rientrarono sani e salvi dalla guerra; mio padre tornò a casa a piedi con una zappa sulle spalle, in borghese per sfuggire ai tedeschi, dal piccolo paese di montagna di Limone, nei pressi di Cuneo, quasi al confine con la Francia. Una marcia di ventidue giorni, che lo stremò, ma arrivò sano e salvo. Anche lo zio, richiamato in guerra dopo aver fatto quella del ‘15/’18, rientrò sano e salvo.

Partiti i tedeschi fummo invasi da inglesi, polacchi, indiani, ma fu un’invasione pacifica; erano i famosi alleati che portarono con loro la fine della guerra e anche un po’ di conforto e assistenza dato che avevano riserve alimentari molto abbondanti. Potemmo così  riempire lo stomaco mantenuto per tanto tempo con la famosa tessera alimentare istituita dal fascismo e resa ancora più drastica dalla guerra. La miseria e le rovine della guerra erano le cause di una vita dura in campagna dove si tentava in qualche modo di sopravvivere in un momento assai grave. Durante la guerra i terreni erano stati quasi abbandonati per la mancanza degli uomini partiti per i vari fronti, fatti prigionieri, dispersi o, peggio ancora, morti; quindi le campagne rimasero senza essere concimate, arate, seminate mentre una grossa parte del bestiame era stato portato via dai tedeschi, e poi le viti non furono curate per mancanza di verde rame e zolfo con conseguente scarso raccolto delle uve, come scarso fu il raccolto del grano e granoturco.

Però, la vita in campagna in qualche modo ricominciava con tanto sacirficio e tanta fatica. I terreni erano tutti a mezzadria con un libretto colonico che regolava gli obblighi verso il padrone; erano regole ferree perché chi non le rispettava integralmente veniva cacciato dal terreno senza nessuna remora da parte del proprietario. Oltre quest’ultimo c’era anche un fattore che controllava l’andamento della produzione, delle semine del terreno, tutti i raccolti e la vendita del bestiame. Due volte al mese il contadino doveva portare le uova fresche al padrone, la verdura fresca, i frutti di stagione, i polli in agosto e i capponi a Natale. E tutto ciò era tassativamente stabilito nel libretto colonico. Sempre a Natale si macellavano i maiali, almeno due. Il più bello lo sceglieva il padrone, l’altro più piccolo lo prendeva il contadino con l’obbligo di fare la così detta pista anche per quello del proprietario del quale curava il mantenimento, l’insaporimento delle carni con sale e spezie varie, la maturazione dei salumi e del lardo per poi consegnarlo al padrone nel momento da lui desiderato.

Un altro particolare che non dimentico mai era l’arrivo del padrone o del fattore: era quasi un obbligo che il contadino si togliesse il cappello accennando un inchino e i bambini e le donne dovevano allontanarsi non potendo loro assolutamente ascoltare gli ordini che venivano impartiti dall’uno o dall’altro sull’andamento del terreno.

I mezzi di lavorazione della terra erano tutti manuali, non esistevano mezzi meccanici. Il trasporto dei materiali avveniva con un carro tirato da un paio di mucche o in alcuni casi dai buoi; i contadini con terreni più grandi possedevano una cavalla per il vergaro che si recava in paese su una bighetta. Per certi trasporti c’era la cacciatora. La bighetta era a due ruote, la cacciatora a quattro. I contadini che non avevano cavalle andavano con un carro a due ruote di legno detto biroccio, trainato da due mucche, le più anziane della stalla.

Un altro mezzo era la bicicletta riservata solo agli uomini adulti; donne e bambini andavano tutti a piedi. D’inverno si portava un paio di zoccoli di legno, in estate sandali di gomma o anche niente, scalzi, vestiti di qualche indumento smesso dai fratelli maggiori o altri componenti della famiglia e in questo modo si andava in paese.

Le famiglie erano numerose, di media una coppia di coniugi aveva da tre a cinque figli, ma anche dieci. Messi insieme ai componenti di un’altra famiglia residente nella stessa casa, caso davvero non raro, si poteva raggiungere il numero di venti/venticinque unità.

Il vergaro e la vergara prendevano posto da capo di un tavolo molto lungo, poi sedevano tutti gli uomini adulti, le donne con i bambini piccoli (per ultimi, se c’era posto). I pasti variavano a seconda delle stagioni; polenta, fagioli, patate, cavolfiori, foglie miste alle fave lesse, ceci, cicerchia, pomodori, melanzane e peperoni arrosto e in padella. La frittata di uova con le salsicce era considerata un pasto nobile; qualche volta c’era pure la gallina.

Durante il pasto il vergaro impartiva ordini tassativi per lavori che si dovevano effettuare durante la giornata; questo avveniva al primo pasto del mattino, a colazione. Una volta dati gli ordini il vergaro, che teneva sempre con sé tutte le chiavi (cantina, magazzino, dispensa del lardo e dei salumi), controllava che tutti i componenti della famiglia li eseguissero, poi spesso si recava in paese per acquistare il necessario per la casa e per il terreno. Si recava anche al mercato del bestiame o alle fiere di stagione, oppure andava a rapporto dal fattore o a consegnare uova e verdure al padrone. In tutte queste occasioni non mancava mai la scappatina in osteria per farsi una foglietta di vino insieme agli altri vergari della zona. Di soldi ce ne erano pochi assai, erano gestiti solo dal vergaro e spesi a sua discrezione; ciò avveniva soprattutto nelle famiglie molto numerose.

Va altresì ricordato che ogni sera, dopo la cena (una polentata o giù di lì) il vergaro prendeva una vecchia coroncina e lui stesso diceva il rosario, continuava con le litanie e altre preghiere per implorare i santi e i morti. Se era d’inverno ci si metteva tutti attorno al fuoco del camino, alla rola; d’estate, lungo le scale esterne. Tutta la famiglia pregava e guai se qualcuno non partecipava: il vergaro, la corona in mano, osservava se tutti i presenti rispondevano alle orazio’.

Poi, tutti a letto. D’inverno le mamme prima scaldavano il letto dei bambini con lo scaldino di rame; per i grandi si era provveduto prima a mettere il prete, cioè quattro aste di legno collegate alle estremità e distanziate al centro da un  telaio di legno che formava un cubo che teneva sollevate le lenzuola: il riscaldamento era fornito dalla brace della manica, recipiente di terra cotta posizionato al centro con alla base una lamiera per non bruciare le lenzuola e il letto.

Questo era l’unico riscaldamento che esisteva oltre il camino a legna; teniamo conto che le finestre erano vecchie e rovinate e il vento soffiava, d’inverno, da tutte le parti. I letti erano di legno con i fondi di tavole spesse; sopra c’era il pagliericcio pieno di bucce dei tutuli (pannocchie) di granturco, i cuscini erano pieni di piume di oca, le lenzuola erano di tela fatta in casa con i telai a mano. La sveglia mattutina, allo spuntar dell’alba, per andare nei campi e a governare le bestie la dava il vergaro; d’inverno intorno alle cinque e d’estate alle tre.

In quegli inverni faceva molto freddo, nevicava spesso e qualche volta anche abbondante. In tali situazioni si rimaneva chiusi in casa, si usciva soltanto per preparare il foraggio per il bestiame, si toglievano dal pagliaio fieno e paglia da portare dentro la stalla per far mangiare il bestiame, si accudiva la stessa stalla. Quando era freddo i lavori erano molti. Si facevano i panieri di vimini e canne: i più grandi servivano per il foraggio da trasportare dal pagliaio alla stalla, ma se ne facevano di più piccoli, le ceste, per la raccolta dei frutti, dell’uva, delle patate. Quando le condizioni atmosferiche lo permettevano si procurava l’erba per le bestie, nei campi si potavano le viti e gli alberi (gelsi, olmi), si faceva la catasta della legna per riscaldarsi e per cuocere il pastone per i maiali (zucche, bietole, farina di granturco), si vangavano le viti, si accomodavano le botti per il vino, si riparava o si rimetteva a nuovo qualche carro. Lavori da uomini. Le donne stavano in casa a fare le maglie di lana, a rammendare pantaloni e camice da lavoro. I piccoli andavano a scuola con un cappotto rimediato in qualche modo, un paio di zoccoli e una cartella di lamiera che era stata un contenitore di pallottole dei soldati alleati, che poi l’avevano lasciata a noi. Di ritorno da scuola, fatti i compiti, se era nevicato si mettevano le scarcarelle per prendere qualche passero.

Passato l’inverno, era bellissima la primavera. Si andava scalzi a correre per i verdi campi di grano. C’era la miseria, ma eravamo felici, raccoglievamo il mazzo delle prime violette sugli argini dei fossi per portarle alla maestra e alla mamma. I lavori primaverili erano tantissimi: semina di patate, fagioli, ceci, cicerchia, granoturco, bietola da zucchero etc..Poi, concimazione del grano, semina dell’erba medica in mezzo al grano stesso, dei pomodori, delle melanzane, dei peperoni, dei cocomeri, dei meloni. Quindi si provvedeva a dare il verde rame alle viti e lo zolfo per preservarle dalle intemperie, si falciava il fieno con la falciatrice trainata da un paio di mucche, si zappava il grano e si passava a tutti gli altri ortaggi, sempre lavoro manuale sia chiaro, .

A primavera inoltrata la colazione e il pranzo non si consumavano più in casa. La vergara portava da mangiare e bere, in una canestra di vimini, dove i famigliari lavoravano, nei campi: stendeva una tovaglia a terra e lì si mangiava. In primavera i pasti diventavano più buoni perché si cominciavano ad affrontare i lavori di campagna più pesanti.

Quando il fieno era essiccato si facevano dei mucchi lungo il campo per farlo fermentare un po’. Dopo lo si caricava sui carri e lo si portava a casa per farci il pagliaio. Veniva disfatto quello dell’anno precedente per mescolare la paglia col fieno profumato che veniva dai campi: in questa circostanza i contadini si aiutavano tra vicini per ricomporre un nuovo pagliaio, misto di paglia e fieno, intorno ad una stanga di legno alta e robusta, il mallone. Gli uomini salivano sul pagliaio e cercavano di farlo crescere rotondo e perfetto: quando il pagliaio era abbastanza alto, vi si appoggiavano delle scale di legno e gli uomini che erano rimasti  a terra salivano sulla scala uno dietro l’altro per fare il passa mano delle forcate di fieno e paglia che portavano le donne. Si arrivava ad un’altezza di dieci/dodici metri e alla fine i contadini erano stanchi e stremati dalla fatica, ma contenti di aver realizzato un bel pagliaio e di avere foraggio sufficiente per far svernare le bestie.

L’arrivo dell’estate era caratterizzato dalla mietitura. Era una grande fatica, ma c’era la soddisfazione di vedere il raccolto ogni anno sempre più in crescita grazie all’impulso dell’agricoltura nel dopoguerra. Si mieteva con la stessa falciatrice che tagliava l’erba per il fieno, a piedi scalzi e feriti dalle stoppie. Però, era una festa. La vergara portava da mangiare almeno sei/sette volte al giorno, un mangiare buono e genuino, mentre i bambini portavano da bere acqua limonata e vino bianco. Il caldo si faceva sentire. Era un lavoro molto duro che durava circa una settimana: tutte le sere i covoni venivano legati a mano; con paglia di grano, i balzi, si facevano i cavalletti composti a quattro spicchi con circa venti/ventidue covoni.

Finita la mietitura le donne spigavano sui campi mietuti; venivano anche dal paese e dalle frazioni vicine per questo, gruppi di donne che racimolavano qualche quintale di grano. Il tutto all’insaputa del padrone e del fattore: ecco perché la spigatura avveniva all’alba.

Dalla mietitura alla trebbiatura passavano venti/trenta giorni. Nel frattempo si curavano le viti con verderame e se ne spuntava la nuova vegetazione per far respirare i grappoli in crescita. Inoltre si facevano pagliai di solo fieno con le stesse modalità di quelli di fieno e paglia.

La trebbiatura era assai impegnativa perché comprendeva il trasporto di tutti i covoni nei dintorni dell’aia per formare dei barconi ricolmi di grano con l’aiuto dei vicini di casa. Il lavoro durava almeno due o tre giorni; i barconi erano di forma rettangolare con la parte superiore simile al tetto di una casa per non far penetrare l’acqua piovana. Sui covoni si saliva fino a un’altezza di dieci metri grazie a una scala di legno, come per i pagliai.

Poi arrivava la trebbiatrice, trainata da almeno due paia di mucche, insieme alla scala suddetta e il motore a vapore. L’attesa era tanta; arrivavano venti, trenta persone dal vicinato. Ci voleva qualche tempo per impostare la trebbia, il motore a vapore, la scala per il pagliaio; poi il macchinista capo dava il via al motorista per l’inizio della trebbiatura e questi, con il motore a vapore già sotto pressione dava un fischio assordante e …via! Intanto, gli uomini e le donne del vicinato si erano collocati sul barcone dei covoni, altri uomini cominciavano il pagliaio della paglia trebbiata e i giovanotti, dietro la trebbia, dove usciva il grano che riempiva i sacchi lì predisposti, passavano gli stessi, belli pieni, sopra la bascula; un delegato del padrone, o lui stesso, assisteva alla pesatura del grano che poi era portato al magazzino. I giovanotti facevano a gara a chi li portava meglio e si disimpegnava più velocemente; erano sacchi di cento chili! Le ragazze scorrazzavano avanti e indietro per portare da bere; indossavano vestiti sfarzosi, cuciti dalla sarta espressamente per la trebbiatura; i ragazzini, presi dall’evento, correvano gioiosi qua e là.

Un lavoro duro, ma in un’atmosfera di festa e…mangereccia: ogni ora e mezzo circa si mangiavano polli, conigli, oca, verdure fresche e si beveva vino bianco e acqua fresca, birra, aranciata. All’alba, colazione con caffè e ciambellone.

Dal barcone si sollevava un grande polverone, specie dal battitore dove venivano infilati i covoni portati a mano dalle donne che stavano sopra la trebbia e che passavano i covoni ad uno ad uno al pagliarolo (operatore della trebbiatrice). Intanto il barcone calava e il pagliaio saliva di altezza, il magazzino si riempiva e una grossa parte del grano rimaneva nei sacchi in attesa di essere trasportato all’ammasso del consorzio agrario. Ciò avveniva il giorno dopo la trebbiatura mentre nel bastone di vimini del pesatore crescevano le tacche: per ogni quintale pesato costui faceva una tacca con un tagliente coltellino sul bastone di colore verde. Ogni tanto il motorista tirava una catenella sul motore a vapore e causava fischi potentissimi, il che rallegrava il lavoro e significava che tutto andava bene. Finita la trebbiatura, si spostavano trebbiatrice, motore, scala per andare dal vicino di casa e così via.

La trebbiatura si concludeva con una grande tavolata, si mangiavano pastasciutta e arrosto d’oca, pollo con verdure fresche né mancava un buon vino bianco. In un'altra tavolata sedevano i cinque o sei uomini addetti alla trebbiatrice, con il pesatore del grano. Una terza era allestita per il padrone e il fattore. Il vergaro, alla fine di tutto, commentava con gli uomini l’andamento della trebbiatura valutando se il raccolto fosse stato più o meno abbondante.

Poi si attaccava con i tutuli di granoturco, raccolti dalla gamba già secca e disposti sull’aia in grandi mucchi; dopo qualche giorno si toglievano a mano le bucce dei tutuli e si lasciavano a essiccare sul posto. Passavano ancora pochi giorni e arrivava la macchina sgranatrice. Era sempre presente il pesatore: il granoturco veniva passato dentro la coppa (cesta di capienza di 33 kg), vi restava per qualche giorno e quindi era immagazzinato. Una parte serviva per ingrassare i maiali, un’altra per far mangiare polli, tacchini, oche e papere e altri animali da cortile, un’altra ancora veniva macinata e ridotta a farina fina per la polenta (metà al padrone e metà al contadino). Contemporaneamente al granoturco si raccoglievano patate, fagioli, cece, cicerchia e il tutto era ripartito a metà col padrone, senza dimenticare che il fattore, durante la maturazione dei cereali, controllava sempre. Teneva conto, per esempio, della quantità di granoturco che c’era prima della raccolta e da lì deduceva la probabile resa.

Durante l’estate maturavano i frutti, le ciliege e le pere, le pesche e le mele: anche la frutta era stimata e ripartita con il padrone, al quale veniva portata durante il mese, fresca, secondo la sua richiesta.

In agosto si caricava lo stabbio ammucchiato a poca distanza dalla stalla e con i carri trainati dalle mucche lo si portava lungo il campo destinato alla maggese e lì ne veniva sparso uno strato sul terreno; successivamente si arava il terreno con l’aratro di ferro, la coltrina di ferro, tirato da almeno tre paia di mucche o buoi. Ci volevano minimo tre uomini per l’aratura: uno per manovrare l’aratro di ferro molto pesante e guidare il primo paio di mucche, un altro doveva guidare il secondo paio di mucche e un altro ancora il terzo, in genere delle giovenche. L’aratro si conficcava nel terreno per trenta/trentacinque cm, la terra era rivoltata in grosse zolle, le mucche sudavano sotto il sole di agosto e la loro pelle era preda di tante mosche cavalline, senz’altro una tortura per gli animali continuamente punzecchiati.

Le mucche erano disposte un paio davanti all’altro, dall’aratro partiva una grossa catena che collegava le mucche al giogo di legno. E così tiravano l’aratro, riposando di tanto in tanto mentre sul solco tracciato svolazzavano tanti uccelletti accorsi in cerca di cibo. Dalle zolle venivano alla luce insetti di colore grigio/nero in testa, bianchi sotto la gola: si chiamavano bovarine. Ogni mucca aveva un nome. Ne ricordo alcuni: Palomba, Biancolì, Speranzì, Maggio, Namurà, Galintì, Fiorentì, Cimarè. Erano nomi dati in età di giovenche, non cambiavano mai e erano usati per incitarle a camminare di più o di meno o a fermarsi a seconda dei casi. Ogni mucca partoriva mediamente un vitello o una vitella all’anno e li allattava per tre/quattro mesi. I maschi venivano allevati fino a venti/ventidue mesi e poi venduti per la macellazione a macellai della zona; per le femmine, alcune erano tenute per il lavoro e la riproduzione, altre vendute quasi sempre per gli stessi scopi.

La quantità del bestiame dipendeva dalle dimensioni del terreno: di solito era di due per ogni ettaro. Il lavoro nella stalla era eseguito con cura: dal dar da mangiare alle bestie alla pulizia dello stabbio alla strigliatura e spazzatura di tutti gli animali. Il vergaro organizzava il lavoro degli stallieri e controllava se il bestiame avesse mangiato e se la stalla fosse stata rassettata a dovere. Gli stallieri erano sempre uomini adulti, aiutati dai ragazzi; questi ultimi avevano il compito di portare a pascolare le mucche sui campi di erba medica, la sera, prima del calar del sole, e poi di abbeverarle e ricondurle in stalla. Altri compiti dei ragazzi riguardavano il pascolo dei maiali e l’aiuto ai genitori nei lavori leggeri dei campi.

Tornando al raccolto, devo menzionare quello della canapa che, in agosto, era tagliata, essiccata, portata al fiume, tenuta sotto acqua corrente per circa una settimana e poi portata a casa e battuta con il frusto, un fuscello di legno lungo circa due metri alla cui estremità era legato un bastone più o meno di un metro; con questo attrezzo si batteva forte sulla canapa spasa in terra facendo subito affiorare i fiocchi di canapa, che venivano pettinati e portati dal cordaio dove avveniva la trasformazione in corde utili per legare il bestiame nella stalla o per i carri del fieno, del grano etc..

Un altro raccolto molto importante era quello delle sementi di erba medica (metà di agosto); questa veniva tagliata quando il seme era maturo, poi si faceva essiccare lungo il campo e infine arrivava la macchina filatrice. Con lei c’era sempre il pesatore (poteva essere lo stesso di altri raccolti) incaricato di seguire la filatura e di pesare il raccolto dividendo le parti destinate al seme dell’anno seguente da quelle da vendere al mercato. Il ricavato veniva annotato nel libretto dei conti colonici e ripartito a fine anno.

Il mese di settembre (e andiamo verso l’autunno) era adibito soprattutto all’aratura del terreno. Dove erano stati coltivati il granoturco o le bietole da zucchero si preparava la semina di novembre per il grano. L’aratura si eseguiva con un aratro di legno, la pertegara, molto leggero, trainato da un paio di mucche; solo la parte che si conficcava nel terreno (dieci/quindici cm) era formata da una lama tagliente di ferro. L’altra aratura era sui campi chiamati il sodo: erano quelli dove era stato tagliato il fieno e si aravano per la prossima semina del grano.

Sempre a settembre si faceva la piantagione del finocchio, dei cavolfiori e delle verze: tutta roba da mangiare in inverno.

In ottobre arrivava la vendemmia. Il vergaro preparava le botti bagnandole, mettendole in posizione e predisponendole al lavaggio con i tini dentro i quali entrava per lavarli nel modo più accurato possibile. Ciò valeva pure per le botti e i contenitori del mosto, che dovevano essere stagni: un lavoro pericoloso per via delle esalazioni che c’erano. La vendemmia durava circa una settimana. Ci si aiutava tra vicini, si pestava l’uva nei tini con i piedi, poi il mosto era messo a bollire nei tini in cantina, l’uva era pesata dal pesatore e la parte padronale doveva essere riposta nella cantina dell’abitazione del padrone, trasportata dal contadino in grandi casse di legno su un carro trainato da mucche. Tutte le fasi di maturazione del vino del padrone erano di competenza del contadino, che si assumeva l’intera responsabilità della qualità del vino fino al momento del travaso nelle botti e poi nelle damigiane di vetro. Non era previsto nessun compenso per il colono. Ah, dimenticavo che le bucce dell’uva, i graspi, venivano torchiati a mano dopo la loro fermentazione.

Passata la vendemmia, ci si preparava alla semina del grano lavorando il terreno con grande cura e gli attrezzi adatti per renderlo soffice. La quantità di terra adibita alla semina del grano corrispondeva alla metà degli ettari del terreno in colonìa e il grano lo si doveva seminare solo dove, nella stagione precedente, c’erano state colture diverse. Prima della semina, si spargeva  del concime perfosfato in polvere e della calciocenamide. La semina avveniva a fine mese o nella prima settimana di novembre e durava circa una settimana. Si usava una seminatrice trainata da due mucche, o anche da due paia; le sementi del grano erano selezionate per dare un buon raccolto; se il terreno si presentava umido abbastanza, il lavoro finiva presto; se invece era asciutto, dopo la semina bisognava passarci sopra un rullo che lo comprimeva per non far filtrare il sole e il vento.

Finita la semina del grano, finivano anche i grandi lavori della stagione. Ne rimanevano alcuni di secondaria importanza e qui si cominciava a tirare le somme dell’annata preparandosi nel frattempo alla prossima. Si tagliavano i canneti ammucchiando le canne, si tagliavano pure le siepi che costeggiavano i fossi di confine con gli altri terreni, si preparava il terreno per la semina della fava, si raffinava la maggese per seminare bietole e granoturco, si potavano le viti e le piante fruttifere, si spalavano i fossi per gli scoli delle acque piovane. Era passato un anno di fatiche immense e il pensiero andava già al prossimo, sempre con la speranza di un futuro migliore.

In questo anno tutti i lavori, come ho raccontato, si facevano a mano, senza alcuna meccanizzazione. Una vita dura e di miseria, senza risorse per migliorarla, ma tranquilla: c’era tanta allegria, ci si accontentava di quel che c’era, si faceva festa ad ogni raccolta di grano o di granoturco, per la vendemmia, per Sant’Antonio Abate quando si portava il bestiame alla mostra (cavalle e puledri) con premi per il miglior manzo, il miglior vitello, la migliore mucca. E che rivalità tra i contadini partecipanti! I premi erano pergamene.

I carri che andavano alle feste erano addobbati di velluto rosso, con specchi e nastri, con affreschi di pupe. Le mucche avevano cinture di cuoio con bronzine, addobbi e gingilli in testa e sul collo, anche i loro gioghi di legno erano tutti verniciati a fresco con motivi floreali e pupe. Ogni comune organizzava più feste; si mangiavano ciambelle fresche con anici e non mancava mai il buon vino. Addetti all’organizzazione erano i festarini, che passavano nelle case dei contadini e raccoglievano le offerte in grano per la festa consegnando in cambio il pane di Sant’Antonio.

Negli anni Cinquanta le cose cominciarono a cambiare: a sei anni dalla guerra c’erano le avvisaglie della meccanizzazione, i primi sintomi di un nuovo modo di fare agricoltura: irrigazioni con pozzi artesiani, pompe accoppiate con motori a scoppio, innaffiatura degli ortaggi a scorrimento, con tubazioni in ferro molto pesanti, lasciate dagli alleati.

Arrivano i primi trattori per le trebbiature e le arature dei terreni, le trebbiatrici sono più moderne e più grandi, la produzione del grano aumenta di molto come anche gli altri raccolti. I contadini sentono la necessità di creare delle organizzazioni che tutelino i loro diritti.

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di Sanzio Flamini

Nella nostra storia non si parla troppo spesso delle donne, relegate nella mitologia del matriarcato. Sanzio Flamini ce ne ricorda una, Maria Boyer, di cui si è già scritto in ‘A Marcello non piacciono le fave’ (Recanati 1999), a proposito del suo energico intervento in favore di un ragazzo che stava per essere fucilato dai tedesch nel marzo 1944 (pp.49/50). L’episodio che segue riguarda un momento critico della vita del ragazzino Flamini nel quale la signora Mazza mostrò ancora una volta di essere figlia del colonnello dei Bersaglieri Andrea Boyer, uno di quelli che entrarono a Porta Pia nel 1870.

Ricordate la signora Mazza? Sì, proprio lei, la moglie dell’indimenticato dottor Mazza. Anche la cicatrice dei cinque punti di sutura alla mano sinistra me lo ricorda ogni tanto, specialmente quando tira ‘el vento de leante’ (il vento caldo-umido, est-ovest).

Abitava laggiù, in fondo al paese, a ‘Sammarì’, vicino al campo di Trucchia, praticamente estrema periferia di allora. Erano piazzate lì le ultime abitazioni, il fiume Potenza sembrava assai lontano e Leopardi insisteva “..e chiaro nella valle il fiume appare..”. Lo era effettivamente a quei tempi.

Dunque, la signora Mazza, circa duecento metri da casa mia in via Garibaldi. Venuta a conoscenza che i miei genitori avevano programmato di mandarmi tra i ‘discoli’, cioè in riformatorio, affrontò come mi è stato riferito, mia madre, donna mite e suggestionabile, talvolta vittima caratteriale di ‘Battinello’ (Giovanni Battista, n.d.r.), mio padre (soprannome non dedotto da qualità fisiche o morali, ma dovuto all’uso scriteriato di mutare la naturale etimologia in senso più che altro comico o grottesco. Ne sanno qualcosa i nostri poeti dialettali).

Lo scontro-incontro avvenne in mezzo alla strada, tra via Garibaldi e viale Lepanto, di fronte a uno dei rinomati ristoranti locali. Il classico brodetto, è sottinteso. Quasi un alterco. La signora del Dottore, alta, snella, elegante, di ottima famiglia borghese, si ricompose com’era nel suo stile di donna ben educata. Disse a mia madre, tra l’altro, che stava commettendo un grosso sbaglio. Sanzio, il sottoscritto, non era certo da considerare un delinquente sciolto o a pacchetti, e nemmeno i suoi compari di cordata, ragazzacci della banda cui si accompagnava quotidianamente.

Eravamo vivaci, forse anche troppo, rompiscatole senza apriscatole, disturbatori della quiete pubblica, quiete forzosa nel periodo ventennale fascista; vandali in sedicesimo per gioco, assolutamente innocui se raffrontati con i ‘mostri’ dei giorni nostri.

Dopotutto, che facevamo? Lo sparo col botto: carburo dentro barattoli di conserva Cirio, specialmente davanti le porte dei palazzi e nelle pubbliche piazze; si rubacchiava qualcosa nelle campagne vicine, per fame, purtroppo; i lampioni di viale Lepanto presi a fiondate, così i vetri di alcuni finestroni di case abbandonate e diroccate.

Da annotare le rincorse disperate e buffe sopra biciclette sgangherate del capo guardia Salvioni e di Giggio Fabbracci, l’altro pizzardone portolotto.

La faccenda dei ‘discoli’ fu archiviata. Buon per me. La signora Mazza, fervente religiosa, fuori dal bigottismo comune, aveva diffuso, pressappoco lo strano messaggio: “Chi frequenta i Salesiani non esce mascalzone!”

Dal mio armadio di scheletri, zeppo di rimembranze e riferimenti infantili riemerge sempre con affetto rispettoso la signora del Dottore che dietro le inferriate del piccolo giardino ci vedeva passare, mezzi stracciati, scarpe di cartone, visi veramente pallidi, quasi tutti i pomeriggi verso le nostre bravate e scorribande dentro e fuori il paese.
Dapprima sorniona, con malcelata simpatia, poi sorridente a tutto spiano. Faceva del tutto per evitare il gestuale saluto con la mano.

Benché razionalista e scettico blu, non c’è dubbio che oltre don Bosco c’era di riserva altra protettrice autorevole.

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Sentenza Cintioni-Scalabroni  

L’amico e socio Vincenzo Rosati ha risolto il nostro dubbio sul destino di Tommaso Cintioni e Crispino Scarafoni, entrambi giudicati autori dell’assassinio di Biagio Budini, avvenuto al Porto l’11 febbraio 1849, come narrato nel primo numero di Potentia (Inverno 2000 – pp.12/19).
Nell’Archivio di Stato di Roma infatti, Vincenzo ha trovato la risposta al quesito che ci eravamo posti, già supponendo un esito non esiziale, un anno e mezzo fa: Scarafoni e Cintioni erano stati davvero giustiziati come sentenziato dal Tribunale della Sacra Consulta?
No, e Rosati, che qui ringraziamo vivamente, ce ne ha portato la prova.

Fascicolo 236/484 Anno 1861. (I documenti che riportiamo sono tratti dai fascicoli A e C).

Sentenza del 20 maggio 1851

Sagra Consulta – Martedi 20 maggio 1851. Il secondo turno del Supremo tribunale….si è adunato nelle solite stanze del Palazzo Innocenziano in Monte Citorio per giudicare in merito, ed in forma di legge, la causa intitolata Macerata-Recanati ossia Porto, di omicidio contro Tommaso Cintioni di Liberato, in età di anni ventisei, coniugato con figli, nato e domiciliato in Porto Recanati di professione falegname e Crispino Scarafoni del vivo Bonaventura di anni ventisette celibe, nato a domiciliato come sopra di professione calzolaio. Viste e ponderate le risultanze degli atti processuali. Inteso il rapporto della causa fatto dall’Ill.mo e R.mo Monsig. Luigi Fiorani Giudice Relatore. Scoltate le conclusioni Fiscali e le deduzioni verbali del Difensore, che ebbe per ultimo la parola dichiarando di non avere altro da aggiungere. Chiusa la discussione e rimasti soli i Giudici per deliberare. Invocato il Nome SS.MO di DIO, il Supremo tribunale ha reso e pronunciato la seguente SENTENZA

(seguono la descrizione dei fatti e le varie considerazioni)

Visto e Considerato quant’altro era da vedersi e considerarsi
Visto il disposto degli articoli 275 e 103 del Regolamento sui delitti e sulle pene

Il Secondo Turno del supremo tribunale della S.Consulta ha dichiarato e dichiara constare in genere di omicidio con animo deliberato a danno di BIAGIO BUDINI avvenuto la sera degli undici Febbraio milleottocentoquarantanove e che in specie ne furono, e sono, colpevoli per spirito di parte TOMMASO CINTIONI e CRISPINO SCARAFONI, ed in applicazione degli articoli duecentosessantacinque e centotre dell’Editto Papale a maggioranza di voti li ha condannati e condanna all’ultimo supplizio, avendo uno dei Giudici ritenuto la semplice provocazione. Inoltre li ha condannati alla rifazione dei danni verso la parte offesa, al pagamento delle spese processuali ed al rimborso degli alimenti a favore del pubblico Erario da liquidarsi a forma di legge.

Però, la mancata unanimità diede luogo a una revisione del processo, stabilendo così il regolamento organico e di procedura criminale in vigore nel Regno Pontificio. Il 17 febbraio 1852 la sentenza, questa volta pronunciata dai due turni riuniti del Supremo Tribunale, venne confermata con nove voti contro tre. Nel documento relativo si legge comunque, sul lato sinistro della facciata di copertura del fascicolo la dicitura COMMUTAZIONE, e poi:

Dall’Udienza di Nostro Signore del 4 maggio 1852 – Sua Santità si è degnata per grazia speciale di commutare a TOMMASO CINTIONI e CRISPINO SCARAFONI la pena dell’ultimo supplizio in quella della galera in vita sotto stretta sorveglianza.
Condanna definitiva e commutazione furono comunicate ai due, rinchiusi nelle carceri di Recanati, il 15 luglio 1852 a cura del Tribunale di prima istanza di Macerata. Da Recanati, Scarafoni e Cintioni dovettero essere trasferiti nella casa di pena di Ancona come risulta da una Tabella di condanna allegata agli atti del processo e datata 25 maggio 1852.
Fin qui le nostre due ormai vecchie conoscenze. Ma dai documenti scovati da Vincenzo Rosati risulta che nel febbraio 1849 il Porto di Recanati fu funestato non da uno bensì da due delitti. Ne diamo conto trascrivendo una lettera del 24 agosto 1851 indirizzata al segretario della Sacra Consulta. La lettera partì da Ancona, a firma, sembra (è quasi illeggibile), di un certo avvocato Gorga, difensore dei procedimenti politici. Eccola.

Ec.za Re.ma.

Nella prosecuzione del processo di omicidio di CAMILLO BUDINI, avvenuto al Porto di Recanati negli ultimi tempi della Repubblica ad opera di SILVESTRO BOCCI carcerato, è risultata qualche prova, indizio o delucidazione sugli autori correi e causa dell’altro omicidio avvenuto pure per spirito di parte il dì 11 febbraio 1849 parimenti in detto Porto, di BIAGIO BUDINI fratello di quello. Questa causa trovasi già in stato di decisione, se pure non sia già stata risoluta da Codesto Supremo Tribunale (in effetti la sentenza di condanna è del 20 maggio 1851). In qualunque modo ho creduto espediente di far eseguire un transunto del deposto di quei testimoni che nell’attuale processura per il secondo avvenuto omicidio incidentalmente hanno pur deposto circostanze relative a quello di BIAGIO, subordinarlo a V. Ecc.za Re.ma ma per quell’uso che se, e come, crederà poterne fare in vantaggio della punitiva giustizia.

Quindi, mentre Scarafoni e Cintioni avevano già subito la prima condanna si stava svolgendo (in Ancona?) un altro processo all’uccisore di Camillo Budini, fratello del povero Biagio, ammazzato poco dopo di lui da questo tale Silvestro Bocci.
Abbiamo così nuovo materiale di ricerca sulle insospettate sanguinose giornate portorecanatesi della Repubblica Romana.

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Soprannomi 

Non esiste nella letteratura relativa alla storia del Porto una documentazione  storica sui soprannomi. Di quelli più recenti si può trovare un lungo e ancora incompleto elenco nell’appendice de ‘FATTU PE’ DESCURE’, il vocabolario del dialetto portorecanatese (pp. 297/301), disponibile presso la sede del CSP. Tuttavia, nel corso delle nostre ricerche, ci siamo imbattuti qua e là in soprannomi dei quali oggi non si ha più traccia, almeno per la maggior parte. Ne diamo un elenco nella speranza che in futuro se ne possano presentare altri. In parentesi, l’anno in cui è attestato il soprannome.

TANFANO (1685) – è il più antico che conosciamo. Attribuito a Domenico di Nicola di Domenico, anni 32, componente dell’equipaggio della barca di Domenico MEZZALINGUA (anche questo è certo un soprannome). Di lui ha dato notizia Antonio Eleuteri nella sua relazione al primo seminario sulle fonti per la storia della civiltà marinara del Piceno svoltosi a S. Benedetto del Tronto nel 1995. La moglie, 31 anni, si chiamava Maria: la coppia aveva sette figli, di cui due maschi.

SCIALACQUATO (1713) – Era un tale Simone, caduto prigioniero dei pirati nel 1713. Citato nel nostro Dizionario del Porto, inedito.

GABRIELLINO       (1802) – Se ne ignora il nome vero, citato nei documenti relativi al processo contro Crispino Valentini (Carte del CSP), accusato di ‘delinquenze’ varie in qualità di Deputato di Sanità del Porto.

PITTORETTO       (1806) – Stessa fonte, ma di lui si ignora tutto. Forse era un anconetano.

SGRANONE          (1807) – Di nome Domenico, stessa fonte che il precedente.

CIANFRONE         (1807) – Domenico Bufalari, ancora nei documenti del processo Valentini. Era incaricato di pesare il pesce per conto della dogana. IL soprannome ha resistito fino ai nostri giorni.

DROGHETTO        (1831) – Domenico Paoltroni, citato nei documenti relativi alla commisssione istituita nel Porto nel 1831 per fronteggiare l’epidemia di colera (Carte del CSP).

SPORTOLONE       (1831) – Angelo Lucangeli, iniziatore della fortuna della famiglia, all’epoca commerciante. Citato in E con la pelle dei Monsignori, in Potentia – Archivi di Porto Recanati e dintorni, n° 1.

VINCENINA          (1849) – Vincenzo Budini, citato in Potentia c.s., fratello di Biagio Budini, ucciso l’11 febbraio 1849 durante il breve periodo della Repubblica Romana.

PULENTINO         (1849) – Citato in Potentia c.s.; di lui non si sa altro.

PORTUCCHIO       (1849) – Bonafede Onofri, Potentia c.s., sospettato di aver partecipato all’assassinio di Biagio Budini o di aver istigato gli autori.

FERRETTO           (1849) – Citato in Potentia c.s.; nessun’altra notizia.

CAGNA’               (1850) – Giovanni Leonardi, chiodarolo (Carte del CSP tratte in fotocopia dalle Carte della Parrocchia di san Giovanni Battista).

BOTTIU’              (1853) – Vincenzo Braconi. Soprannome valido anche per la moglie Vincenza. Carte CSP c.s.

SBICICCHIATO      (1858) – Ferdinando Solazzi di Fiore. Carte del CSP c.s.

PIGNOCCO           (1858) – Gino Salerni. Carte del CSP c.s.

CARDINALI           (1858) – Antonio Fanesi, carraio. Carte del CSP, c.s.

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Rame per la Patria

Il documento che riproduciamo risale al maggio 1941 ed è una testimonianza dei sacrifici richiesti agli italiani in sostegno delle necessità della guerra. Ci è stato fornito da Elvira Pasqualini. La fotocopia tratta dall’originale è conservata tra le Carte del CSP.

                4.parte (da rilasciarsi a chi cede il rame)        

ENTE DISTRIBUZIONE ROTTAMI

Sezione metalli non ferrosi
Corso del Littorio n. 10 – MILANO- tel. 76562/76572/76582
Raccolta del rame (RDL 13 dic. 1939 – XVIII, n. 1805)
Bollettino di consegna – Serie D - N° 119087

Il Sig. Pasqualini Francesco
Comune Porto Recanati           Prov. Macerata
Indirizzo …………………………………………………………………………

ha consegnato al sottoscritto negoziante di rottami autorizzato
Kg. 2,100 di rame, di cui manufatti kg. 2,100.

Ai sensi dell’articolo 6° del RDL 13 Dicembre 1939 – XVIII n. 1805 il Ministero delle Corporazioni ha fissato i seguenti prezzi:
-    per i manufatti L. 20 il kg (al netto di manici, chiodi, bordi ed altre parti che non siano di rame)
-         
per i rottami L. 12 il kg. (per merce scelta e pulita).

Sono state consegnate parti non in rame come segue:
-         
ferro k. 0.900 al prezzo di L. 0,30 il kg.

Il regolare documento di vendita verrà redatto dai contraenti.

Porto Recanati 30 maggio 1941 – Anno XX.

 Il Rappresentante del Comune               Il Negoziante
                                                      
(timbro e firma)
         (illeggibile)                            Ditta Balestra Gelasio

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Una lettera per Gigli

Beniamino Gigli dovette difendersi, dopo la seconda guerra mondiale, dall’accusa di collaborazionismo con i tedeschi, accusa dalla quale fu ampiamente assolto. Lo fece anche con un opuscolo di 35 pagine di cui il CSP possiede copia, stampato in 50 mila esemplari dalla Società Tipografica Editrice Italiana di Roma (nel ’45?), in vendita al prezzo di 20 lire (ricavato devoluto in beneficenza).
Nell’inviarcelo, l’amico e socio Sanzio Flamini, che qui ringraziamo per il dono, ha allegato una lettera inviata a Gigli da Leningrado, su carta intestata della Corvetta Danaide (il che è certo oggetto di curiosità) dopo il 1947, probabilmente all’inizio degli anni Cinquanta, e che è stata ritrovata tra le carte di Paolo suo fratello (di Sanzio), cameriere di Gigli a Roma nella casa di via Serchio proprio in quel periodo.
È una lettera scritta a macchina, firmata Nikolajeva, il che fa supporre che si tratti di una donna. Crediamo sia inedita. Eccola riprodotta esattamente come è stata scritta (errori compresi).
 

Corvetta Danaide (con disegno della nave)

Compagno Gigli,

di voi vorrei dire parafrasando il nostro grande poeta Puschin:
“v’innalzate un monumento.
Verso di Lui si chiuderà il sentiero Popolare.
Egli s’innalza con la cima Indomita:
più in alto del  monumento... di Alessandro.”         

Il sentiero popolare non si chiuderà per voi, signor Gigli vi ho sentito per la prima volta nell’estate del 1947 in un film musicale; un impressione sbalorditiva! E’ difficile esprimere la gioia che voi procurate con la vostra apparizione; come se nel teatro fosse apparso il sole con la sua luce, ed il suo calore avesse scacciato le tenebre notturne e la fredda nebbia.

Ora la vostra voce canta ovunque. Se mi trovo nel bosco, nelle vie della città, a casa sul lavoro, dappertutto una meravigliosa voce canta nell’animo. Voglio di nuovo vedervi e risentirvi: per questo i film con la vostra partecipazione si vedono venti volte. Non vi sono ora dischi di vostra esecuzione, perciò l’unico modo di sentirvi sono i film.

Nella stupidaggine sentimentale dei film, Voi rimanete sempre un semplice e grande uomo, perché non solo vi si ascolta con massimo godimento, ma vi si vede anche con grande piacere. Forse in questo è il segreto del vostro invincibile fascino.

Se voi sapeste come ci sono necessarie le cose veramente belle, veramente umane. Abbiamo sofferto l’assedio della città, abbiamo visto e sofferto tante cose terribili, ed ora noi lavoriamo molto, moltissimo: è per questo la vostra incomparabile arte solleva le forze e dona fiducia nel bello.

Vi si ama con amore illimitato, si crede senza reticenze alla vostra verità; ci si abbandona alla vostra arte con la fedeltà e felicità con la quale ci si abbandona ai grandi artisti.

Di voi non si può discutere, si può solo godere del vostro canto. La necessità di vedervi e sentirvi e d’amare la vostra arte, diventa tanto naturale ed inevitabile, come la necessità di respirare l’aria vivificatrice della primavera e riscaldarsi ai raggi dorati del sole estivo.

Voi forse non amate i russi, perché non avete onorato di una visita il nostro paese. Forse questo non dipende da voi, e certamente non da noi. Se per vedere i vostri film ci sono sempre file, potete immaginare, cosa succederebbe se ci fosse un vostro concerto.

Voglio credere che siate vivo e vivrete ancora a lungo, voi che date tanta felicità agli uomini, dovete essere sempre felice; per questo, mai una ruga dovrà essere sulla vostra fronte e mai una piega amara sulla vostra bocca.

                                                                                                           NICOLAJEVA

LENINGRADO Via TOLMACIOV 18

All’Illustrissimo tenore
Beniamino Gigli
Cappella SISTINA:  S. PIETRO
VATICANO   (ROMA) - ITALIA
  
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 di Aldo Biagetti

MAGGIO

     SABATO 19

-          Presentazione, al Teatro Kursaal, dell’evento culturale di maggior rilievo di questi ultimi anni, la Mostra sui reperti archeologici dell’antica “Potentia”, dal suggestivo sottotitolo “Quando poi scese il silenzio…”, che si potrà ammirare fino al 26 ottobre nei locali al piano terra del Castello Svevo. 

 LUGLIO

     DOMENICA 1

-          Il romano CLAUDIO ANGELINI, con la poesia “Lente voci”  vince la XVI^ Ediz. del Concorso Internazionale di Poesia “Città di Porto Recanati.

     SABATO 14

-          Organizzata dal Centro Sociale “Anni d’Argento”  dall’Associazione Culturale Coro a Più Voci si apre la XXV^ Ediz. della Marguttiana Portorecanatese, nello slargo delle Scuole Elementari, a margine di Corso Matteotti. Nell’arco dei tre cicli espositivi, che avranno termine il 30 agosto, esporranno 38 artisti.

     SABATO 21

-          All’Arena Gigli, organizzata dal Centro Studi Portorecanatesi e dalla locale Croce Azzurra e con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale, AZZURRA 2000, cerimonia di premiazione dei vincitori della 1^ Ediz. del concorso di poesia dialettale marchigiana “Emilio Gardini”, cerimonia impreziosita dal concerto della Banda Dipartimentale della Marina Militare di Taranto. Risulta vincitore, con la poesia “A lume de cannela”, Aldo Leoni di Apiro (ritira il premio la figlia Liana, perché purtroppo l’autore è deceduto). Secondo Franco Ferri di Pesaro, terzo Elio Morelli di San Benedetto del Tronto.

AGOSTO                                                                       

     SABATO 11   

-          Alla palestra Diaz inaugurazione della Mostra Antologica di GABRIELLA MINGARDI SENIGAGLIESI, che presenta 150 tele, a testimonianza di un percorso artistico che ha ricevuto lusinghieri consensi da critici, riviste d’arte e pubblico. Presenta Donatella Donati che ha anche curato il catalogo della mostra.

     SABATO 25

-          All’Auditorium all’aperto (Cortile Sud delle Scuole Elementari) cerimonia di premiazione della IV^ Ediz. del Premio di Pittura Estemporanea “Porto Recanati e dintorni”. L’apposita giuria proclama vincitore SAVERIO MAGNO di Grottammare, secondo classificato Oscar Gricia di Roma.

OTTOBRE

    DOMENICA 7

-          All’Auditorium della Scuola Media presentazione del volume monografico della rivista “Potentia” del Centro Studi Portorecanatesi su “LA SCIABICA”. Ricorrendo, in tale giorno, il 430° anniversario viene ricordata la Battaglia di Lepanto, relatore Aldo Biagetti.

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(1/5/2001 – 31/10/2001) 

I fatti e i giorni

-         Il 30 maggio, in consiglio comunale, viene conferita una onorificenza civile ai carabinieri Vito Cappilli e Nicola Centonze per aver salvato la vita di una bambino in procinto di cadere da un balcone.

-         Il 24 giugno, a cura del Comitato degli ex dipendenti, si inaugura una lapide a ricordo dell’attività del cantiere navale Gardano & Giampieri nella facciata dell’edificio che ospitava gli uffici.

-         Alla data del 30 giugno risultano residenti al Porto 5089 maschi e 5007 femmine, per un totale di 10 mila e 96 persone.

-         Il primo luglio, il concittadino Marcantonio Trevisani è promosso Ammiraglio di Divisione.

-         Primi di agosto: muore Goffredo Jorini, sindaco di Porto Recanati dal 1946 al 1959.

-         18 agosto: Castelnuovo vince il Palio di san Giovanni per la quarta volta.

-         Agosto/Settembre. La General Electric decide la vendita del Pignone Porto Recanati a un privato osimano. Contestazione delle maestranze e scioperi.

-         11 ottobre. A cura dell’Ammistrazione Comunale due alberi sono piantati in piazzale Europa a ricordo dei gravissimi attentati terroristici  di un mese prima a New York.

-         Ottobre. Si rinnovano le proteste dei residenti in zona S. Maria in Potenza: l’aria, dicono, continua a essere irrespirabile. 

Lo sport

-         Mese di maggio, fine dei campionati nelle diverse discipline sportive: la Conad Electa sfiora la promozione nella B2 di pallavolo; la Tennis Tavolo Quadrifoglio è promossa in C2; buono il campionato dell’Adriatica Basket, che partecipa agli spareggi per la C1; seconda retrocessione della squadra di calcio dalla prima categoria.

Ordine pubblico

-         Tra la metà di maggio e la fine di giugno assistiamo preoccupati a una serie di incendi dolosi: ristorante Brigantino, un’auto parcheggiata di fronte a un ristorante di Scossicci,  una roulotte e due cantieri edili nel centro cittadino. Le forze dell’ordine individuano e arrestano il piromane.

-         17 giugno: furto con scasso dalle suore del Prez.mo Sangue.

-         31 luglio: svaligiato il supermercato dell’Hotel House. Prelevata merce per un valore di circa 60 milioni di lire. Pizzicati i ladri dalle forze dell’ordine.

-         27 settembre: tre sconosciuti penetrano di notte nell’albergo Mondial e picchiano la portiera. Rubano 300 mila lire.

-         Ottobre. I Carabinieri di Ascoli e di Porto Recanati recuperano, in località in provincia di Ancona, tre delle cinque tele sparite anni fa dalla pinacoteca Moroni. Sono: ‘Canale con Barche’ di Celso Baldassarri, ‘Presentazione di Gesù al Tempio’ di Francesco Maffei, ‘Mandorlo fiorito’ di Dante Ricci.

Vita sociale

-         14 maggio: la sezione leopardiana del CSP propone la collocazione di due lapidi con versi di Giacomo Leopardi relativi al mare di Porto Recanati.

-         Giugno: esce il numero 5 di questa Rivista.

-         21 luglio: cerimonia di pemiazione del primo concorso di poesia dialettale marchigiana ‘Emilio Gardini’. All’Arena Gigli si esibisce la Banda Dipartimentale della Marina Militare di Taranto.

-         Ottobre: viene diffuso il sesto numero di Potentia.

Dialetto in pillole

Due analogie con usi linguistici e sociali della nostra tradizione, che abbiamo riscontrato là dove era davvero difficile aspettarselo. Liete sorprese, dunque, che testimoniano come tutto il mondo sia sovente paese.

Nelle nostre ricerche sulle strutture scolastiche al Porto abbiamo letto che un tempo, parliamo della prima metà del XIX secolo, i maestri delle scuole elementari avevano tra i loro obblighi anche quelli di provvedere alle pulizie dell’aula dove insegnavano e poi di prestare alcuni servizi al parroco. Eravamo nello Stato Pontificio; nessuna meraviglia.

Stupore invece lo abbiamo provato scoprendo che lo stesso avveniva nella laica Francia della Terza Repubblica. Lo racconta Jean Anglade, scrittore nato e cresciuto nell’Auvergne, regione del Massiccio Centrale, nel suo Les ventres jaunes – Saint Amand, 1981 – p. 39, un libro nel quale viene raccontata la vita dura dei celebri couteliers di Thiers, antagonisti di quelli di Toledo per la raffinatezza della loro produzione di lame di ogni genere. Scrive Anglade (la traduzione dal francese è nostra): A quell’epoca (1883, n.d.r.) in molte piccole parrocchie il maestro delle scuole comunali doveva anche suonare le campane, spazzare in chiesa, spolverare il mobilio…

Un’altra usanza nostrana è che i giovani chiamano, o meglio chiamavano, zi’ (zio) le persone più anziane, le quali rispondevano dando loro del nepote.

Bene, ecco quanto si legge in un libro dello scrittore inglese Arthur Clarke, l’autore di Odissea nello spazio:  a pagina 96 del romanzo Voci di terra lontana, scritto nel 1986 e edito in Italia da Rizzoli tre anni dopo, c’è scritto: ‘Davvero non vuoi cambiare idea, zio?’ chiese Kumar sorridendo. Loren fece di no con la testa. Le prime volte l’appellativo l’aveva imbarazzato, ma ora si era abituato al modo che avevano tutti i giovani di Thalassa di rivolgersi agli adulti…Nel romanzo, Thalassa è un lontanissimo pianeta colonizzato dai terrestri; nella realtà, chissà da dove Clarke ha tratto spunto.

Canzoni

Bruno Benedetti continua nella sua preziosa ricerca di vecchie canzoni popolari, di stornelli e dispetti e di quanto è ancora possibile recuperare dagli angoli della memoria canora collettiva della nostra comunità. E mentre lui ne ‘ricostruisce’ la musica imprigionandola in cassette che saranno disponibili nella sede del CSP, qui pubblichiamo i testi come ci è possibile, sempre invocando l’aiuto di chi se li ricorda meglio di noi.

Al Porto si raccontava, in una canzone di tipo narrativo, la storia del giovane soldato che torna a casa e scopre che la sua fidanzata è morta. La chiameremo La canzone di Giulia anche se, probabilmente, il titolo è un altro. E’ un tema presente nella tradizione popolare nazionale, vedi La sposa morta, che si canta a Volterra, oppure la veneziana C’era un dì un soldato. Ecco il frammento di cui disponiamo:

Il cielo è una coperta ricamata,

la luna con le stelle fa l’amore.

Cerco la Giulia, dove dormendo sta,

angelo del cuor mio, angelo di bontà.

Le undici di notte e l’aria oscura,

tutti in silenzio dormono gli augelli.

Oh Giulia, Giulia, dove dormendo stai,

angelo del cuor mio, angelo di bontà.

La chitarra, fedele compagna dell’innamorato canterino. La chitarra, però, anche come metafora che introduce doppi sensi non sempre eleganti. Nei versi che seguono, se un significato nascosto esistesse, esso potrebbe essere solo quello, malinconico, del venir meno della giovanil virile baldanza. Le corde si spezzano una dopo l’altra con il passare del tempo, finché non ce ne saranno più. Addio, perciò, ai piaceri della vita; tutto passa.

Viene in mente lo sbalordimento del poeta François Villon, che si chiedeva dove fossero le nevi dell’anno scorso (mais où sont les neiges d’antan?); svanite, dissolte, proprio come svanisce e si dissolve il tempo:

Sona chitarra, sona,

che me s’è rotta ‘na corda;

se pure l’altra se scorda

ho finito a sonar.

Amici cari, bona notte;

le corde si son rotte,

non si può più sonar.

Da notare, come succede abbastanza spesso, che il dialetto convive con l’italiano. Riteniamo che ciò sia l’effetto del tentativo di conferire un tocco di raffinatezza al testo in questione. 

Appello

Nel luglio 1901, Vincenzo Pio Rossi, fermano di origine, ma residente nel Porto, venne accusato di aver cantato una canzone sovversiva istigante alla violenza di classe e rimandato a giudizio davanti al regio pretore di Recanati. Il quale, al termine di un clamoroso processo (Rossi fu difeso dal deputato socialista di Iesi, Lollini), assolse l’imputato dall’accusa. La canzone incriminata, dove si minacciava di affondare il pugnale nel petto dei ricchi, era La canzone di Peppino Amato.
Da qui l’appello ai lettori: c’è qualcuno che può dircene qualche cosa di più del semplice titolo?

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