di Lino Palanca

Lo spunto per una una ricerca sulla presenza del mare nell’opera leopardiana (di cui qui pubblico solo l’essenziale) è nato dalla lettura del passaggio a cavallo dei pensieri 1827 e 1828 dello Zibaldone. Eccolo: A quello che altrove ho detto dell’effetto che fa nell’uomo la vista del cielo, si può aggiungere e paragonare quello del mare, delle egloghe piscatorie, e d’ogni sorta d’immagine presa dalla navigazione ec. Le idee relative al mare sono vaste e piacevoli per questo motivo, ma non durevolmente, perché mancano di due qualità, la varietà, e l’esser proprie e vicine alla nostra vita quotidiana, agli oggetti che ci circondano, alle nostre assuefazioni rimembranze ec. (dico di chi non è marinaio ec. di professione) ed anche alle nostre cognizioni pratiche; giacché la cognizione pratica, almeno in grosso, l’uso, l’esperienza, una tal quale familiarità con ciò che il poeta ha per le mani, è necessaria all’effetto delle immagini e sentimenti poetici ec.; ed è per questo che piace soprattutto nella poesia ciò che spetta al cuore umano (che è la cosa della quale abbiamo più cognizione pratica), siccome nella pittura, scultura, ec. l’imitazione dell’uomo, delle sue passioni ec.

Dunque non c’è piacere vero nella mancanza di varietà: La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose , non per altro se non perché nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole (Zibaldone 1028). Il mare, proprio perché non è certo la varietà il suo principale documento di identificazione, sembra perciò presentarsi come un soggetto poetico ricco di limiti; esso non ha invece mancato di offrire a Leopardi la materia prima per la costruzione di immagini di straordinaria forza di penetrazione. Ma qui siamo a discorrere di un uomo che trasformava in oro poetico tutto quel che veniva in contatto con i suoi sensi traendo ispirazione da ciò che sentiva, che odorava, che vedeva. Come il suo Simonide (All’Italia, v.80) al quale basta guardare l’etra, la marina e il suolo dall’alto del colle d’Antela per prendere a cantare la gloria di Leonida e dei suoi trecento spartani. 

MARE E CAMPAGNA

È il caso di dire, con una dose di paradosso, che il mare di Leopardi affoga nella campagna recanatese, dove il poeta si abbandona a malinconiche nostalgie e al rimpianto per il tempo in cui, popolata dagli esseri fantastici generati dalle angosce e dalle fole umane, essa straripava di vivida energia vitale, densa nelle piante e guizzante nei ruscelli, radiosa nei fiori,  palpitante negli animali: Che bel tempo era quello nel quale – è il pensiero 64 dello Zibaldone – ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i famosi silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come appunto i fanciulli.

Leopardi viveva a contatto della campagna, la praticava  con  fedeltà e trasferiva in versi immortali gli effetti della sua frequentazione. Basterebbe ricordare quante volte, e con quanto calore e sentimento, le immagini dei campi popolati di villani, delle colline, dei monti, con i loro pastori e greggi, occupano gli sfondi e i primi piani del paesaggio leopardiano. La campagna è, assai più che qualunque altra parte della natura, oggetto e strumento di poesia.

Ecco perché il mare appare spesso nella sua opra come una sorta di ornamento. Significativo, per esempio, l’impiego del verbo adornare ne “La storia del genere umano” (Operette Morali): Dio osserva la terra appena uscita dalla sua opera creatrice e a un certo punto… ben gli parve conveniente propagare i termini del creato, e di maggiormente adornarlo e distinguerlo: e preso questo consiglio, ringrandì la terra d’ogn’intorno, e v’infuse il mare, acciocché, interponendosi ai luoghi abitati, diversificasse la sembianza delle cose, e impedisse che i confini loro non potessero facilmente essere conosciuti dagli uomini. I verbi adornarlo e distinguerlo sembrano giustificare l’impressione iniziale, ma dall’espressione v’infuse il mare spira un soffio di vitalità potente, che nobilita la presenza delle acque sulla terra: il verbo, infondere, è lo stesso che nelle tradizionali versioni italiane della Genesi viene adoperato per illustrare il momento in cui il soffio di Dio crea la vita umana. 

MERAVIGLIOSE FOLE

Fra gli anni 1809 e 1815, dall’undicesimo al diciassettesimo della sua vita, il mare di Leopardi è popolato di mostri e ricco di miti e leggende. Cioè, di fole. Di spiriti e fantasie che rispunteranno, a tratti, anche in età matura. Nel Leopardi dell’infanzia e dell’adolesenza i riferimenti più frequenti si trovano nella “Storia dell’astronomia” e nel “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”.

Nella prima (capo I) si ricorda come l’imperatore Chin-Nong… assiso su un carro tirato da sei dragoni, misurò il primo la figura della terra e determinò i quattro mari; e poi si cita Pitea : Questi avea detto, che al di là dell’Islanda non vi era né aria, né terra, né mare; ma un luogo, sul quale la terra e il mare erano come sospesi, e che serviva di una specie di legame per congiungere le parti tutte dell’universo (II). E con Pitea altri antichi, convinti che le maree fossero dovute alla inspirazione ed espirazione delle narici del mondo poste nei profondi abbissi dell’Oceano (IV). Così viene presa d’infilata una serie di credenze, voci, paure che non possono reggere al paragone della ragione, arma con la quale il giovanissimo pensatore combatte superstizioni di ogni tipo.

Leopardi accenna, in più occasioni, alla curiosa convinzione circa lo spegnersi, la sera, del sole sfrigolante nel mare osservando che questo era uno dei sogni che denotavano un’Astronomia bambina (V), sorride sulla credenza in mari e fiumi come quelli terrestri esistenti sulla Luna (V) e deride benevolmente le varie scuole di pensiero relative alla “fame” degli astri, che sarebbe spesso soddisfatta nel mare e dal mare.

Sulla fantasia del sole, e anche di altri corpi celesti, che di notte trovano rifugio nelle profondità degli oceani, Leopardi torna nel “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”, per ironizzare sulla volgare opinione degli antichi piuttosto certi che il sole, al suo tramontare, anelante per il caldo, andava a rinfrescarsi nell’acqua del mare (IX). Poche righe dopo insiste: …alla sera tuffatosi nel mare, si estingueva e.. alla mattina una quantità di particelle ignee si riuniva per formare un nuovo sole… Non è dunque meraviglia che dalla parte di Ponente, quando il sole tramontava si udisse una specie di stridore, cagionato dalle fiamme di questo corpo luminoso, che si tuffavano e si spegneano nell’acqua (IX).

Il poeta non smette di fare riferimento alle leggende e ai miti e agli esseri divini o semi divini del mare nelle opere della prima e poi della piena maturità intellettuale. L’approccio, certo, è diverso. Adesso il quadro nel quale appaiono le creature del sogno è quello della presa di coscienza del solido nulla e del male che ci circondano.

Valga a sostegno di quanto ho appena affermato il tono sarcastico con il quale accenna alla teoria dell’immortalità dei pesci, accreditata dallo scienziato olandese Leeuwenhoek (1632-1723); in un passaggio del “Dialogo di Fisico e Metafisico” (OO.MM.) l’autore fa dire al secondo …non solo io non mi curo dell’immortalità, e sono contento di lasciarla a’ pesci, ai quali la dona il Leeuwenhoek….ed è una osservazione che sembra messa lì come per incidente e che, invece, proprio da quest’aria négligée trae la sua forza distruttrice. 

IL MARE A MISURA DELLA SCIENZA

Negli stessi anni nei quali la fantasia cavalca i tritoni e lascia quasi sentire lo stridìo delle acque mentre il sole si immerge nell’oceano, il precocissimo adolescente non trascura di avvicinarsi al mare con interesse scientifico. Si tratterà di una conoscenza in gran parte “letta”, basata per la quasi totalità su quanto ha appreso dai libri o su quanto ha, forse, inteso da qualcuno che con il mare aveva avuto direttamente a che fare.

L’argomento che più sembra interessare Leopardi è il flusso e riflusso delle onde marine. Vi accenna già nella “Dissertazione sopra l’attrazione” per poi dedicarvi più spazio in quella sull’Astronomia. Lo studio del fenomeno è quindi ripreso nella “Storia dell’Astronomia” (IV) con una citazione degli studi di Cristoforo Sabbadino nella seconda metà del XVI secolo e soprattutto con l’esame di quelli di Newton (ancora nel capo IV).

Flusso e riflusso del mare, maree: Leopardi offre un panorama praticamente completo dello stato delle conoscenze su tali questioni, non preoccupandosi solo di esporre le conclusioni che altri hanno maturato, ma formulando pure la sua opinione al riguardo, come fa, per esempio, a proposito delle osservazioni sulle idee di studiosi quali il conte Papini e il philosophe  D’Alembert. 

LA FURIA DEL MARE

Ciò che però lo ha affascinato di più è lo spettacolo del mare in tempesta, manifestazione di potenza incontenibile e cieca, nata nel mistero profondo degli abissi. Molti i riferimenti, a cominciare dalla primissima produzione letteraria.

Nelle “Prose puerili”, mentre dimostra come la buona educazione sia da preferirsi ad ogni altro studio, Leopardi, venuto a parlare degli uomini di mare, annota: Sul lor dorso - dei mari - vengono spesso a combatter fra se gli austri furiosi, e l’euro, e il noto, e l’Affrico, e l’aquilone, ed innalzano fino alle stelle le onde spumanti: piovono allora dal cielo veloci folgori, terribili, e strepitosi tuoni rumoreggiano orrendamente, rotte sono da spessi lampi le folte tenebre dell’aere oscuro,  tutto è orrore, tutto è spavento…

Vale la pena di ritenere l’immagine delle onde spumanti, la bianca schiuma che orna la cresta dell’onda mostruosa, perché sarà di rado assente dai quadri leopardiani del mare in collera. Il quale suscita un sentimento di paura mista ad ammirazione per la forza immane della natura scatenata; qui il mare ritrova la varietà richiesta da Leopardi al soggetto poetico, è spettacolo non uniforme, dinamico, coinvolgente.

Viene in mente un passaggio  del capitolo XVIII di un trattato di Denis Diderot (non certo ignoto a Leopardi), De la poésie dramatique (1758), dove il creatore dell’Encyclopédie si chiedeva se il poeta dovesse preferire le spectacle de la vie tranquille à celui des flots agités, domanda alla quale dava subito risposta in termini inequivocabili: La poésie a besoin de quelque chose d’énorme, de barbare et de sauvage.

Il motivo del mare nemico, ostile e infido rispunta nelle poesie classificate come “varie” nell’edizione Newton del ’97, che sto seguendo. Ci vuole coraggio a rischiare la vita sul vasto mare (“Inno a Nettuno”, 1816, vv. 5/7) percorso dai flutti spumeggianti, anzi, canuti, come è scritto con felicissima scelta sinestetica al verso 83. Nell’inno la voce del mare indomito si leva suscitando terrore: è il romoroso pelago del verso 155, sono le onde romorose (v. 200); e poi, ne “L’appressamento della morte”: l’urlar tra l’onde (III, v. 105) e il continuo cupo ululo (V, v. 150) del mare. 

MARE CHIAMA CORAGGIO

Altri messaggi di morte sono lanciati con vigore di argomentazioni e di immagini nelle Operette Morali. Ne “La scommessa di Prometeo” le inondazioni del mare vanno a braccetto con terremoti, temporali e diluvi mentre il ghigno di Thanatos guizza dai sepolcri, giù nel fondo del mare, evocati nel “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie”

Il mare è una tomba per i coraggiosi e gli amanti dell’avventura nell’ignoto, è spazio per azzardi mortali dove si vive a fianco dell’orrido, tra le tempeste spaventevoli (“Dialogo della Natura e di un Islandese”) e in istato incerto e rischioso quanto si voglia (“Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez”).

È pure luogo che accoglie e spegne nel suo freddo seno la disperazione di vivere, come quella degli amanti infelici che si gettano dal promontorio di Leucade, ricordati dallo stesso Colombo, o di Saffo vittima dell’indifferenza di Faone.

Nello “Zibaldone” si susseguono i richiami alla necessaria virtù del coraggio di chi decide di navigare sfidando l’arcano. Il filosofo Pirrone (3534) invita i suoi compagni a restare imperturbabili nel mezzo della burrasca perché mantenersi lucidi è il solo modo di scampare all’affondamento e quindi alla morte, come Leopardi spiega nel pensiero successivo: Quando poi si tratti di pericolo dove l’uomo ha qualcosa a fare per ischivarlo, per impedirlo, o per mandarlo a vuoto, per tornarlo in bene, come il nocchiero e i marinai nella tempesta, il capitano e i soldati nella battaglia; allora la indifferenza esteriore e l’operar non altrimenti che se il pericolo non fosse, non è debito del coraggio, anzi all’opposto; ma è bensì debito del coraggio la perfettissima calma interiore, la quale lasci le facoltà dell’anima pienamente libere di attendere quello che fa bisogno contra il pericolo, senza che alla cura che si dee porre in combatterlo, si mesca neppure il menomo turbamento per la dubbiosa aspettativa del successo.

Per il poeta, dunque, mettersi in mare è non piccola prova di coraggio, ché l’elemento è infido, i suoi pericoli improvvisi, il rischio della vita alto. Nel pensiero 3646  il navigare è definito un ardire tanto contro natura, anzi, così evidentissimamente contro natura (3657) che quanto ci si deve attendere nel farlo è, minimo, tanto rischio di sommergersi (Ardita è pure la prora del nocchiero nei “Paralipomeni”, VII, v. 36). Anche nei “Canti” si trovano riferimenti alla sfida eterna tra l’uomo e il mare (sarebbe qui interessante un confronto con Baudelaire) a partire da “Ad Angelo Mai”, ai versi 76/78 dedicati a Cristoforo Colombo, ligure ardita prole. 

L’INFINITO

Il sentimento dell’immensità, comune quando si pensa al mare, non viene subito sviluppato nell’opera leopardiana. Forse, appunto, perché troppo comune, tanto che in un primo tempo potrebbe essere apparso al poeta financo banale.

Ma il mare possiede una forza propria di fascinazione, giusto in virtù della sua smisuratezza, alla quale non è facile per nessuno di sottrarsi. Né lo è stato per Leopardi che, anzi, ne ha saputo sfruttare con pienezza il richiamo poetico.

Ben più consistente sarà la presenza di questa vastità a partire dal 1815, nelle “Poesie varie” e nelle opere successive. Con sempre maggiore frequenza si incontra il vasto mare, l’immenso mare, l’azzurro Dio che circonda la terra (“Inno a Nettuno”); nell’Epistolario è evocato il mare infinito e immenso (lettere del 20 novembre 1820 e del 5 marzo 1825); è comunque nelle Operette Morali che il mare viene consacrato ispiratore di sentimenti legati al desiderio di infinito; ne “La storia del genere umano  è infatti definito una viva similitudine dell’immensità.

Un passaggio ancor più significativo si trova in quel luogo dello Zibaldone, a cavallo dei pensieri 1827/28, già riportato all’inizio di questo lavoro dove Giacomo dilata e limita al tempo stesso i confini dell’immaginazione che nasce dalla visione delle distese marine.

È vero, tutto ha il suo limite: l’universo come la terra, il cielo come il mare. In fondo, l’infinito è un’illusione. Ma perché abbandonarla?

E così l’immensità delle acque rivive nei “Canti” dove siamo invitati a seguire un percorso che dagli infiniti flutti dei vv. 80/81 della canzone “Ad Angelo Mai” conduce al mare posto a sigillo della visione de “L’infinito” e ai pensieri sconfinati richiamati ne “Le ricordanze”: percorso che conduce a una trasfigurazione tutta interiore dell’azzurro senza confine visto o immaginato da Leopardi. Non più la presa diretta dell’occhio sull’onda lontana, ma dall’occhio la visione si trasferisce nel cuore come un flusso di magia; e qui il mare esiste ormai soprattutto nella mente e nel sentimento del poeta.  È così che Leopardi naviga incontro all’infinito. 

IL MARE È VITA

Tranne il tedio, non c’è nulla di definitivo e inamovibile nel moto perpetuo del pensiero leopardiano. Perciò non meraviglia davvero che il mare sia anche fonte di vitalità, persino di gioia per il nostro poeta.

Già una volta, nelle “Prose puerili” (L’Amicizia), Giacomo aveva osservato che le acque del mare, mai stagnanti, …mai si corrompono, con ciò facendone risaltare i vantaggi, ma in seguito le considerazioni sulla “positività” del mare diventano più ragionate e più intime nelle opere di maggior fortuna. Lo si osserva, per esempio, nel dialogo di Colombo e Gutierrez (OO.MM.): Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione. Andar per mare può essere un modo di scampare al “tedium vitae”, sia pure per poco.

È comunque nei Canti che troviamo materiale più interessante sull’argomento. Ne “Il Risorgimento” il mare concorre a sostenere il ritorno del poeta alla speranza di vita (…meco favella il mar…,v. 100) insieme alla campagna, agli alberi, al monte e ai ruscelli; è un momento positivo nella vita del poeta al quale accade di sentirsi in pace con il mondo. Passerà fin troppo presto. In altri luoghi poetici famosi la grande distesa liquida appare come una delle meraviglie del creato, la sua vista commuove e suscita sentimenti che la lingua mortal non è in grado di manifestare degnamente (“A Silvia”), è capace di ispirare dolci sogni (“Le Ricordanze”), sa essere delizioso (“Sopra il ritratto di una bella donna”), è benefico perché rende più confortevole la vita di chi ne abita le rive (“La ginestra”, vv.223/24). 

ANDAR PER MARE

Della navigazione Leopardi ha più volte sottolineato i rischi, l’essere una tale attività contro natura, ché l’uomo è animale terrestre. Di sicuro il poeta non avrebbe fatto di quella marinara una scelta di vita.

Nei “Versi puerili”, e quindi in giovanissima età, mostra di essere stato impressionato da quel che si diceva, o si leggeva, sulla velocità delle navi; esse fuggono sulla superficie dell’oceano nel “Catone in Affrica” (IV, 9) mentre nell’“Inno a Nettuno” (ma siamo già nel 1816) compare il nocchier fatichevole che corre/ su veloce naviglio il vasto mare. Credo si tratti di un’esperienza comune a molti.

Che in Leopardi, però, lascia quasi subito il posto alle considerazioni e alle riflessioni del giovane dai mille, incalzanti perché, al ragionatore implacabile, al sempre insoddisfatto esploratore di quegli spazi dell’anima in cui un aspetto della vita e della conoscenza si lega a tutti gli altri. Ecco, perciò, che già nell’introduzione alla “Storia dell’Astronomia” viene rilevato il legame tra la navigazione e le altre scienze, quella di cui l’autore sta trattando in particolare. Leggiamo: Come sarebbesi potuta perfezionare la navigazione senza l’aiuto della scienza degli astri? E così ancora sono sottolineati i vantaggi del navigare in relazione al commercio, alle comunicazioni, alla conoscenza.

Leopardi ce ne parla nel capitolo V dell’opera appena citata; grazie alle imprese dei popoli navigatori, Greci e soprattutto Fenici, le coste dell’Africa e dell’Asia si aprirono al commercio e …Così i popoli escono dalla loro oscurità, si riuniscono dopo il lungo allontanamento cagionato dalla dispersione, si comunicano scambievolmente i prodotti delle loro terre, ed i frutti delle loro fatiche.

Non sfugge al poeta come tutto ciò abbia un prezzo, un pegno inevitabile da pagare per la conquista del sapere e, quindi, del potere.  La navigazione, non va dimenticato, è per Leopardi,  un ardire contro natura (Zibaldone, 3646) ed è altresì pericolosissima (3657). Il rischio è connaturato alla vita del marinaio, ma ciò non significa certo che chi naviga abbia la vita in minor pregio di chi la passa con i piedi sempre a contatto, rassicurante, del suolo. Anzi: Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria, che non fanno gli altri della loro. Io per lo stesso rispetto giudico che la vita si abbia di molto poche persone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e soldati.  Questi beni che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non hanno pur nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo per esserne privi! Chi pose mai nel numero dei beni umani l’avere un poco di terra che ti sostenga? Niuno, eccetto i navigatori….(OO.MM. “Dialogo di Colombo e Gutierrez”). 

LA STAGIONE DEI BAGNI

In una lettera a Pietro Giordani del 26 settembre 1817, Leopardi rivela di non aver mai nuotato (in mare). Non lo scrive in maniera esplicita, ma credo che il significato di quel che segue non possa essere frainteso: Il cavalcare che mi consigliate certo mi gioverebbe, ed è uno dei pochi esercizi che io potrei fare, dei quali non è né il nuotare né il giuocare a palla né altro tale che non molto fa  mi avrebbe dato la vita ed ora mi ammazzerebbe, quando io mi ci potessi provare, che è impossibilissimo.

All’epoca lo scrivente aveva 19 anni: ammette che, forse, in passato, nuotare gli sarebbe stato utile, ma adesso sarebbe un suicidio: …quando io mi ci potessi provare; secondo me significa che tale prova, ora del tutto improponibile, tuttavia non è mai stata affrontata nemmeno in passato.

Al tempo di Giacomo non esisteva certo una stagione balneare al Porto di Recanati. Forse qualcuno che poteva permetterselo scendeva dal colle alla marina per provare l’ebrezza di una nuotata, ma non penso che le condizioni ambientali del borgo marinaro dell’epoca abbiano attirato troppe persone. Però, è vero che nel 1855 il vicario capitolare Anastasio Adriani promulgò un editto relativo ai bagni di mare, che iniziava così: Onde evitare li gravi scandali che sogliono accadere nella spiaggia marittima del nostro Porto in occasione dei bagni. Dunque, ci sono scandali che sogliono accadere; vuol dire che tali fatti si ripetono da tempo; e poi si scrive di bagni in un modo che da l’impressione (non posso andare più in là) di qualche cosa di ormai abituale. Potrebbe significare che anche negli anni di Leopardi ci fosse una specie di stagione turistica.

Un’altra piccola prova indiziaria si rileva dalla presenza di una gran quantità di osterie nell’incasato del Porto, di numero quasi pari a quelle in attività a Recanati, pur tanto più popolata: un segnale di attività turistica oppure solo della gran sete dei pescatori, alimentata dalla salsedine?

In definitiva, comunque, non c’è nessuna prova che Leopardi abbia mai imitato  quei suoi concittadini della Città Alta che probabilmente qualche rapida “puntata” estiva al Porto la facevano.

Egli tornerà sull’argomento dei bagni di mare nella sua corrispondenza con Fanny Targioni Tozzetti (16 agosto 1832) alla quale fa i suoi rallegramenti per i benefici che la dama sembra trarre dai bagni di Livorno, per quanto essi non gli sembrino senza qualche pericolo. Mi pare l’atteggiamento tipico di chi non ha alcuna confidenza reale con il mare.

IL LONTANO MAR

Peraltro il mare di Leopardi è spesso “lontano”. Voglio dire lontano dai suoi occhi, indeterminato, vago. L’elemento della lontananza prende spessore nella produzione del Leopardi dopo l’adolescenza.

Sono squarci di mare colti dal poeta che li osserva dall’alto del colle, che l’Adriatico sia scosso dall’urlo del vento o immobile nella  piatta luminosità del mattino.

Così, ne “Le rimembranze”, ….saliva il sole in cielo e la marina/ di lontano splendea, mentre nell’“Appressamento della morte” (I, vv.47/48) non è certo da presso che si descrive l’ingrossarsi della nube che calava ver la marina, sì che l’un suo lembo/ toccava i monti e l’altro il mar toccava..

E poi, i “Canti”. Indimenticabili il verso 25 di “A Silvia”: …e quinci il mar da lungi e quindi il monte.. e i dolci sogni ispirati dalla vista di quel lontano mar (Le Ricordanze, v. 21); e neppure il verso 13 nella rielaborazione dell’ “Appressamento”…” : limpido il mar da lungi..

Questa marcata preferenza per la visione lontana del mare non meraviglia chi abbia presenti i passaggi dello “Zibaldone” dedicati alla poeticità della lontananza (nel tempo, ma anche nello spazio).

Già la parola “lontano” è poeticissima per Leopardi perché suscita idee vaste e indefinite, e non determinabili e confuse (1789). Fanno poesia (1928) il canto in lontananza o uno che si vada appoco appoco allontanando (Una suggestione magnificamente sfruttata da Salvatore Di Giacomo nel suo celebre “Nu pianefforte”). 

GERGO MARINARO

Non credo che Leopardi abbia mai visto dei pescatori al lavoro, almeno quelli del Porto di Recanati; forse, a Napoli potrebbe averne avuto l’occasione, ma insisto nel credere che il rapporto del poeta con il mare non si sia mai tradotto in vero contatto fisico.

Però, di chi ci lavorava immaginava certo la grande fatica. Le traduzioni non dovrebbero far testo nella definizione del pensiero di un Autore che ad esse si sia dedicato (in quanto vi si manifesta, in un idioma diverso, il sentimento di un'altra persona), ma va pur detto che quando si tratta di Leopardi un tale lavoro è compiuto sempre con ragguardevole libertà rispetto al testo originario. È il caso degli idilli di Mosco. Nel quinto, Giacomo ha così reso i versi del poeta della Magna Grecia: Oh quanto è trista/ del pescator la vita, a cui la barca/ è casa, e campo il mar infido, e il pesce/ è preda incerta…

In soli tre versi, un quadro preciso, e toccante, della pena di vivere dei pescatori. Forse entrano per qualche cosa nell’atteggiamento di Leopardi le preoccupazioni che il gonfaloniere suo padre aveva sovente manifestato sulle miserabili condizioni di vita della vicina gente di mare. 

IL MARE DI CASA

In realtà ho trovato dei riferimenti abbastanza precisi al mare di casa sua, che poi è quello di Porto Recanati. Anche qui non è il caso di parlare di abbondanza, ma nemmeno di grande penuria, dato che di “documenti” al riguardo se ne trovano sparsi un po’ dappertutto nell’opera di Leopardi. Il loro esame, ahimé, non conduce a una risposta positiva alla domanda se Leopardi abbia mai messo piede al Porto.  Pare proprio di no, comunque, almeno allo stato delle conoscenze.

Nelle “Prose puerili” (1809), a proposito della buona educazione che è da preferirsi ad ogni altro studio, il giovanissimo contino annota: Vero è che non sempre regnan sulle acque gl’impetuosi venti, e gonfi sono i flutti, ma non per questo mancano pericoli e timori. Barbari e corsari infestano talora le placide marine…

Giacomo non può non avere avuto notizia, dal padre o da altri, di quanto accadeva fin troppo spesso laggiù, nella spiaggia del Porto, proprio a proposito di corsari. Il castello sul mare era stato oggetto in passato di diversi assalti dei pirati barbareschi e nel suo tempo le incursioni di costoro erano ancora numerose e micidiali. Costituivano una delle paure costanti della popolazione costiera e il delegato di sanità nonché rappresentante del Comune nel Porto, Crispino Valentini, ne dava periodicamente notizia ai colendissimi Priori di Recanati. Ancora qualche anno dopo, tra il 1815 e il ’16, i pirati riuscirono a catturare non pochi pescatori.  Franco Foschi, che della questione si è  occupato in un suo lavoro del 1978, ha scritto di ben 39 compaesani  deportati in Algeria e Libia in stato di schiavitù (vedi anche “Potentia – Archivi di Porto Recanati e dintorni” – n°5).

Insomma, se Leopardi cita i corsari è perché l’argomento delle loro gesta nefaste sulla costa di Recanati non gli era davvero estraneo; perciò l’accenno ai  barbari e corsari non può essere considerato solo frutto di letture di Giacomo

Ci sono poi altri luoghi nell’opera leopardiana in cui si ha l’impressione, ma non la certezza, che il poeta faccia riferimento a un mare a lui familiare dato che si tratta di versi o brani in prosa tutti composti a Recanati

Si veda, per esempio, la descrizione dell’incontro tra le acque del mare e quelle del fiume che vi sbocca, nei versi 80/85 de “Il diluvio universale”: Mugge sconvolto il mar da l’imo fondo,/ e gonfio incalza l’un co l’altro i flutti,/ che da le sponde usciti ai fiumi incontro/ si lanciano spumosi, e insiem ritornano/ la piena ad ingrandir, che già scorrevole/ sui vasti campi rigonfiante domina…

Lo scontro delle acque sconvolte dalla natura e l’effetto di piena nei campi da esso provocato, è fenomeno che a Porto Recanati si conosce fin troppo bene: e quell’ effetto Leopardi lo riproduce pari pari, con la straordinaria vivezza che gli è propria.

Trovo poi, in un passaggio de “L’Appressamento della morte” (mi riferisco alla redazione del 1816) un’osservazione che mi pare troppo precisa per essere solo il frutto di una reminiscenza letteraria o del racconto di qualcuno. È nel canto secondo, versi 4/6: come d’istate dopo ‘l nembo pare/ sul mar la notte luce di baleno/ che lambe l’acqua e l’ombre fa più rare…; la precisione accennata sopra è nel particolare del lampo, che, in effetti, quando di notte balena sul mare ne lascia intravedere la superficie.

Chi non si ritrova sulla spiaggia, infine, alla lettura del pensiero 258 dello “Zibaldone”, ad osservare il lento scemare della forza del mare una volta esauritasi la tempesta, reso dal poeta con il solo verbo mareggiare? Il mare prima si scatena in una furia incontenibile e distruttrice, poi l’ira si spegne a poco a poco, le onde si fanno sempre più basse, meno aggressive. Il mare, proprio come si dice in gergo marinaro, mareggia. Leopardi inserisce la scena nel corpo del suo ragionamento con una tale naturalezza che l’osservazione sembra proprio il frutto di un fenomeno verificato di persona.

Dove il riferimento al mare di Porto Recanati è fuori discussione è senza dubbio nei celebri versi, già citati, di “A Silvia” (vv. 25/58) e de “Le Ricordanze” (vv. 19/21). La localizzazione è precisa: Leopardi dichiara di essere a Recanati in entrambi i casi e di volgere lo sguardo, da lì, al mare lontano, che non può essere altro che il mare di Porto Recanati.

Possiamo congratularci con noi stessi per il fatto che il poeta ci abbia regalato due tra i più bei momenti della sua poesia.

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