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      Presentazione 
      La Rivista è giunta al suo
      quinto numero, riscuote un consenso che ci onora e conforta mentre
      comincia davvero a meritare il "dintorni" del titolo. 
      Nelle pagine che seguono ci sono, infatti, importanti
      articoli di amici "forestieri": Franco Foschi, direttore del
      Centro Nazionale di Studi Leopardiani; Giuseppe Santarelli, direttore
      della Congregazione Universale della Santa Casa; Carlo Pesco, sindaco di
      Camerano. 
      Buona
      lettura, quindi, sempre con l’invito a starci vicino e ad arricchirci
      con proposte, suggerimenti, critiche (oneste e competenti, ché delle
      altre facciamo senz’altro a meno). 
      Approfitto
      di questa pagina per alcune comunicazioni: 
      
        
          il
          nostro numero di telefono, con segreteria telefonica, è 071/7590087; 
          Il
          nostro E-MAIL è: c_s_moroni@libero.it 
          l’orario
          di apertura della sede, nel periodo di ora legale, è dalle 18.00 alle
          20.00; 
          chi
          di voi volesse iscriversi al CSP o rinnovare la tessera, può servirsi
          del modulo di conto corrente allegato (n° 11434628 intestato a Centro
          Studi Portorecanatesi) o versare la quota (20.000 lire) direttamente
          nella sede di via degli Orti 57 (non vale per chi si è già iscritto
          nel corso del 2001); 
          la
          cerimonia di premiazione del primo concorso di poesia dialettale
          marchigiana intitolato a Emilio Gardini avrà luogo sabato 21 luglio
          nell’Arena Gigli, nel corso del concerto della banda Dipartimentale
          della Marina Militare di Taranto. 
         
       
      
      Porto Recanati, estate 2001.                             
      Il Direttore                                                  
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       Attilio
      Valentini, giornalista.   (di
      Lino Palanca) 
      
      Quello che segue è solo la traccia di un lavoro sulla
      vita di Attilio Valentini, che anni fa il professor Attilio Moroni mi fece
      promettere di compiere; lo farò, nella speranza di riuscire finalmente a
      reperire i documenti necessari per non lasciare zone d'ombra troppo vaste
      in un percorso che di ombre, come sarà facile constatare, è piuttosto
      ricco. Il CSP possiede copie di un buon numero di edizioni dei giornali
      diretti da Valentini dalle quali sono tratte le citazioni da me riportate. 
      Attilio Valentini nasce il 5 luglio 1859, qui da noi.
      Non so dire con esattezza in quale casa; l’ho chiesto negli uffici
      anagrafe dei Comuni di Recanati e del Porto, ma l’informazione non è
      ancora disponibile. Presumo, tuttavia, che l’evento sia accaduto in una
      delle case che i Valentini possedevano nelle vicinanze dell’incrocio
      delle attuali vie Garibaldi e Gardini. Il padre, Valentino (era un
      medico), discendente in linea diretta di quel Crispino creatore e
      distruttore della fortuna della famiglia più importante del nostro borgo
      marinaro nel XIX secolo fino all’arrivo dei piemontesi, aveva sposato
      Annunziata Valentini, probabilmente una parente, e dall’unione erano
      nati Elvira, Rosa (1858?), Attilio, Emilio (1863) e Cesilde (1864). 
      In quell’anno 1859, mentre al Nord è in corso la
      seconda guerra di indipendenza, è nato anche Giuseppe Ridolfi, che sarà
      vescovo di Todi e di Otranto nonché delegato apostolico in Messico; nelle
      vie del centro urbano giocano Enrico Volpini, nato nel ’55, futuro
      sindaco (1895/1911) e Alberto Cittadini, di due anni più
      "vecchio", che sarà il capo dell’opposizione
      repubblicano-radical-socialista: fra poco verranno al mondo Enrico (1862)
      e Giovanni Lucangeli (1863). Tutta gente di cui abbiamo assai discorso nel
      numero 2 di questa rivista. Come che sia un decennio davvero fecondo
      quello dal 1853 al ’63. 
      Attilio dovrebbe aver frequentato le elementari al
      Porto (non si dispone dei registri scolastici precedenti gli anni
      Settanta) mentre il ginnasio lo ha fatto a Recanati, come ricordava il
      fisiologo recanatese Mariano Luigi Patrizi in un suo scritto del 1928, Due
      poeti minori della città e del secolo di Leopardi, edito presso la Tipografia
      Simboli di Recanati: "Condiscepolo di costoro (cioè di
      alcuni illustri recanatesi, come Giovanni Falleroni), forse nella
      camerata dei piccoli, era un altro giovinetto, segnalato fin da allora per
      le caratteristiche cerebrali, Attilio Valentini, del Porto, arrivato
      presto alle file primissime del grande giornalismo, che per fermezza di
      pensiero e drammatiche vicende ebbe con Falleroni somiglianza…"
      (p.36). 
      Le tre classi di Liceo Attilio le ha frequentate a
      Macerata, al Leopardi, scuola della quale Carducci, che la visitò nel ’76,
      disse che ci si studiava bene. Non so se si sia trasferito con la famiglia
      nel capoluogo di Provincia; certo vi abitava al momento dell’accesso
      alla facoltà di Legge (viveva presso la famiglia, come si legge
      nel libretto di iscrizione conservato nell’Archivio di Stato di
      Macerata, fondo Università, Busta n°9, in piazza De Vico, civico 2,
      credo la moderna piazza Battisti), ma è probabile che il movimento
      mare-collina sia avvenuto in corrispondenza dell’inizio dell’avventura
      liceale. 
      Che alunno era Valentini? I voti ottenuti in prima
      liceo non sono di uno studente modello; nel quinto bimestre gli avevano
      assegnato solo 6½ in italiano, 6 in storia e geografia e addirittura 4 in
      matematica; però, aveva avuto 9 in latino, 7 in greco, 8 in filosofia,
      chimica e fisica e storia naturale (il voto si calcolava già in decimi).
      I professori annotavano nel registro degli scrutini che Attilio era negligente
      nelle Matematiche, pigro, indisciplinato. 
      L’anno successivo gli rimane l’indisciplina, ma i
      voti sono ben altri: 8 in italiano, latino, matematica e filosofia; 7 in
      greco; 9 in storia e geografia con menzione onorevole; idem in fisica e
      chimica come in storia naturale. Il nostro otterrà la maturità liceale
      il 16 luglio 1879, più o meno con gli stessi voti dell’anno prima, ma
      con un bel 9 in italiano; avrà 9 pure in Disciplina. 
      Ciò non può giustificare appieno quanto abbiamo
      trovato scritto, a firma del preside del Leopardi, nella succitata Busta
      9, il quale presenta così, il 2 novembre ’79, il suo ex alunno al
      Rettore dell’Università: …Attilio Valentini frequentò questo
      Regio Istituto e ivi compì gli studi liceali appalesandosi di sveglissimo
      ingegno, e mantenendosi assai sempre studiosissimo e disciplinato, onde il
      sottoscritto lo crede ben meritevole d’aiuto e protezione. 
      Va bene per l’ingegno (ne darà ben ampia prova!), ma
      studiosissimo e disciplinato….E poi non si capisce bene il
      perché dell’invito ad aiutare e proteggere il Valentini; forse è un
      riferimento a condizioni economiche famigliari non floride. 
      Il giovane portorecanatese dovrebbe essersi laureato
      nel dicembre ’83, almeno è quel che si deduce dai Registri n° 66 e
      67, Carriera Scolastica, Archivio di Stato Macerata: ha sostenuto gli
      esami previsti ottenendo in genere buoni voti, spesso buonissimi, tranne
      che in Diritto Romano, superato con soli 18/30, il che contribuisce ad
      abbassargli la media, tanto che il risultato finale sarà di 108/120. 
      Durante gli anni dell’Università, Attilio ha
      prestato la sua opera a diversi giornali locali, manifestando così fin da
      giovanissimo il suo amore per la professione giornalistica. E’ quanto
      scrivono alcuni suoi colleghi commemorandone la memoria, in particolare su
      La Provincia di Mantova, nell’ottobre 1912, a venti anni dalla
      morte. 
      Non so davvero dire quali fossero quei giornali; visti
      gli orientamenti repubblicani e democratici di Valentini è possibile, ma
      solo possibile, che abbia collaborato a fogli come La Vedetta e
      L’Educatore, che quegli orientamenti difendevano e propagandavano.
      Fatto sta che tra la laurea (dicembre 1883) e il suo arrivo a Mantova,
      alla direzione de La Provincia di Mantova (primo maggio 1887),
      corrono quattro anni difficili da ricostruire. 
      Nell’appena citato giornale, sempre in occasione del
      ventennale della morte, si legge che fresco di laurea andò a insegnare
      latino nel Liceo Classico Paolo Diacono di Cividale del Friuli, ma le
      ricerche presso quell’Istituto e presso il Provveditorato agli Studi di
      Udine hanno dato esito del tutto negativo. Riacciuffiamolo, allora, mentre
      si presenta a Dario Papa, direttore de L’Italia di Milano, con
      una lettera di raccomandazione niente meno che di Filippo Turati. Come
      aveva conosciuto il futuro leader socialista riformista? Tramite chi? 
      Papa aveva fatto del quotidiano lombardo, fondato nel
      1883, un giornale di tipo anglosassone, che conduceva una campagna in
      favore di Francesco Crispi, antico garibaldino, ora assai critico nei
      confronti del leader della sinistra liberale Agostino Depretis, capo del
      governo dal 1876; in più, il direttore non disdegnava aperture
      democratiche e filorepubblicane ( Valerio Castronovo, Stampa e
      opinione pubblica nell’Italia liberale, in La stampa italiana
      nell’età liberale, Bari, Laterza, 1979, p.103). 
      Dario Papa non dispone di posti liberi nell’organico
      del giornale; tuttavia cede alle insistenze di Valentini e lo manda a La
      Spezia, dove c’è il colera, con la città isolata da un cordone
      sanitario formato da reparti militari. Il nostro entra in città
      spacciandosi per infermiere e da lì invia in redazione pezzi già
      degni di un grande inviato speciale, padrone della tecnica moderna del reportage;
      tornerà a Milano nascondendosi in un treno merci diretto nella capitale
      lombarda. 
      Subito dopo lo troviamo a Roma, impegnato a inviare a L’Italia
      le sue Lettere Romane e titolare delle Chroniques de La
      Riforma, foglio della sinistra liberale. Questo giornale, fondato, tra
      gli altri, da Crispi, Benedetto Cairoli, Agostino Bertani nel 1867, era
      trainato per la via di una graduale adesione alla Monarchia e di un fermo
      unitarismo, che poi era la stessa percorsa da Francesco Crispi e che
      condurrà l’uomo politico siciliano a diventare il successore di
      Depretis. 
      Non molto diverso, forse con qualche spruzzatina di
      radicalismo, si presentava Il Messaggero (fondato nel 1878), al
      quale pure Valentini collaborò. La vita da pendolare tra Roma e Milano,
      con i famigliari lontani, nelle Marche (al Porto o a Macerata o altrove?)
      finì, come ho accennato sopra, con l’assunzione della direzione de La
      Provincia di Mantova. 
      Chi era, politicamente, il ventottenne direttore, che
      nell’aprile 1887 sbarcava nella città dei Gonzaga? 
      Il bisnonno Crispino era stato un servitore fedele,
      oltre che di se stesso, del governo del Papa, così come suo nonno Simone.
      Il prozio Biagio, addirittura, aveva seguito san Gaspare Del Bufalo nelle
      missioni in tutto il territorio del Regno Pontificio diventandone il
      successore alla direzione della Congregazione del Prez.mo Sangue.
      Valentino, suo padre, era stato anche lui commissario del governo
      pontificio. 
      Attilio, invece, nato e certamente cresciuto nella fede
      degli avi, era uscito dal seminato, probabilmente in età liceale o, al
      massimo, universitaria. E la famiglia si ritrovò in casa un
      anticlericale, impulsivo e senza misura nella polemica contro la politica
      della Chiesa, giudicata reazionaria; un repubblicano amico di Arcangelo
      Ghisleri, del radicale Cavallotti e del padre del socialismo riformista
      italiano, Filippo Turati. Il Vessillo delle Marche, giornale
      maceratese di orientamento moderato, lo definì addirittura, nell’ottobre
      ’92, a pochi giorni dopo la morte, un socialista convinto (la tradizione
      famigliare di fedeltà all’ordine costituito fu salvata dal fratello
      Emilio, che scelse la carriera militare fino a raggiungere il grado di
      generale di brigata nell’Esercito). 
      Credo si possa pensare a Valentini come a un
      democratico convinto della necessità di grandi riforme sociali (in ciò
      assai vicino al pensiero turattiano), ma lontano da tentazioni anarchiche
      o rivoluzionarie; vale a dire, le stesse caratteristiche de La
      Provincia di Mantova di cui egli fu il rifondatore. Creata da Alberto
      Mario, una delle penne più prestigiose del giornalismo italiano dell’epoca,
      la testata ebbe un primo breve periodo di vita dal 1872 al 1874 e nel 1887
      arrivò Attilio Valentini a resuscitarla. 
      Mantova era territorio socialmente procelloso: nel 1885
      vi si era svolta l’agitazione contadina nota come la boje, dal
      grido degli scioperanti: la boje, la boje e de boto la va de fora (bolle,
      bolle e tutto a un tratto scoppia) e nel dicembre di quello stesso anno
      aveva ospitato il congresso di fondazione del Partito Operaio Italiano
      (POI). 
      La leadership politica di Depretis, come del resto la
      sua vita, sono agli sgoccioli mentre la questione sociale esce dai salotti
      e dai casolari per deflagrare nelle campagne come nelle piazze e persino
      nella letteratura. 
      Francesco Crispi sta per inaugurare la sua prima
      stagione a capo del governo (1887/’91): avrà l’appoggio, più o meno,
      dei liberali di destra e di sinistra; gli si opporranno radicali,
      repubblicani e la nebulosa anti-sistema comprendente anarchici, operaisti,
      internazionalisti, protosocialisti. 
      Il primo maggio 1887, dunque, Valentini firma l’editoriale
      del giornale che dirige dagli uffici di via Orefici, civico 13: nell’editoriale
      di saluto scrive che il giornale sarà profondamente democratico, aperto
      al nuovo, aderente alla realtà; non starà con coloro che vogliono tutto
      e subito, ma accetterà meglio l’uovo oggi che la gallina domani,
      sosterrà il metodo sperimentale, difenderà la massima libertà in
      politica, il massimo decentramento, sarà nemico della reazione. E poi: …La
      Provincia non dimenticherà mai che gli interessi locali devono premerle
      sopra ogni altra cosa. Essa se ne occuperà con alacrità e abnegazione.
      La sua ambizione sarebbe di poter conciliare quanti non rifuggono dal
      progresso, quanti vogliono andare avanti senza la podagra della reazione e
      senza le convulsioni delle utopie… 
      
      Carattere generoso, tenero addirittura secondo i suoi
      amici, Valentini era comunque incapace di governare la sua impulsività
      nella polemica con gli avversari, tanto che si trovò a sostenere più di
      un duello prima di quello fatale in Argentina. 
      A Mantova, per esempio, se la vide con Giovanni
      Mastuzzo, ventunenne campano di Vico Equense, ufficiale del 69° fanteria,
      il quale aveva giudicato offensive alcune frasi rivoltegli da Valentini.
      Il duello ebbe luogo, alla spada, il 24 gennaio 1888 e i due protagonisti
      si procurarono reciprocamente lievi ferite. Il regio pretore mantovano,
      però, non intese ragioni e giudicò Attilio e il suo avversario colpevoli
      di aver infranto la legge che vietava il duello condannandoli al pagamento
      di 50 lire a testa (Archivio di Stato di Mantova, sentenze penali 1887-’88,
      busta 64). 
      A fine maggio ’88, Valentini si trasferisce a
      Cremona. Egli risulta iscritto all'anagrafe del Comune (Impianto 1865,
      foglio 1070, come ci ha comunicato l’Archivio di Stato della città
      lombarda) il 26 maggio 1888 proveniente da Mantova insieme alla madre
      Annunziata e al fratello Emilio; il 2 giugno arriverà da Macerata anche
      la sorella Cesilde. 
      Cremona non è più tranquilla di Mantova. Anche qui
      non manca di forza il movimento contadino, protagonista di agitazioni
      importanti; alle elezioni politiche del 1886 il Partito Operaio ha
      registrato un successo ottenendo 3.359 voti. Ed è qui che Valentini viene
      a far nascere Il Democratico, che dirigerà per qualche mese, prima
      di trasferirsi di nuovo, questa volta a Genova. 
      Il giornale debutta il 2 giugno; nell’editoriale di
      indirizzo il direttore ribadisce la sua posizione progressista, ma non
      rivoluzionaria, si dice fautore della scienza positiva, della cooperazione
      nel lavoro, del diritto allo sciopero, all’emigrazione, all’impiego e
      sottolinea la necessità di riforme burocratiche. Questa volta, Valentini
      evidenzia anche il suo anticlericalismo manifestando l’avversità alla
      conciliazione con il Vaticano (parla addirittura di …mala pianta del
      cattolicismo…), attacca di nuovo quelli del partito del tutto e
      subito, predica il suffragio universale, accusa l’Italia ufficiale
      di aver rinunciato agli ideali del Risorgimento, attacca il trasformismo
      politico, sopravvissuto a Depretis, mette in guardia contro la china
      spaventosa dei debiti, delle imprese folli (Africa) e delle alleanze
      nefaste (Triplice Alleanza). Per lui, il sistema di governo è senza
      principi, reso possibile solo da una coalizione di interessi
      privati, mentre il Parlamento è tisico. Niente male. 
      Il direttore de Il Democratico si occuperà
      della polemica tra il POI e i radicali di Cavallotti, invitando tutti alla
      moderazione e alla solidarietà; avrà parole di fuoco nei confronti di
      Ruggero Bonghi, padre della legge sulle guarentigie per il Vaticano, e del
      vescovo Bonomelli, tessitori della trama conciliatorista; si dichiara
      evoluzionista anche in rapporto al problema istituzionale
      (monarchia/repubblica); definisce il giornalismo una scuola, una missione
      e, soprattutto, un tribunale in cui regnano il coraggio e la sincerità;
      scatena una campagna contro i professori clericali, usciti ..da quella
      grande fabbrica di sfruttatori dell’insegnamento pubblico che è la
      sagrestia.. (anima del prozio Biagio!!). 
      Nel settembre ’88 gli avversari del giornale moderato
      di Cremona, Il Minuscolo, lo querelano; non è improbabile che
      abbia trasceso in qualche scontro verbale o scritto. E non è nemmeno
      improbabile che abbia fatto seguito un duello, sul quale, però, al
      momento non sono documentato. 
      Secondo quanto risulta all’Archivio di Stato di
      Cremona, Valentini lascia la città il 21 aprile 1889, senza famigliari,
      diretto a Genova. C’è un problemino circa la data della partenza di
      Valentini. Roberto Beccaria, responsabile della sezione periodici della
      biblioteca Berio di Genova, scrive che Valentini (I periodici genovesi
      dal 1473 al 1899 – Genova 1994 – p.203) ha diretto il genovese L’Epoca
      dal n. 32 del 1 febbraio 1889 al n. 164 del 13/14 giugno successivo. Ed è
      senz’altro così: le copie del giornale in nostro possesso lo attestano.
      Può anche essere che la data del 21 aprile si riferisca solo all’atto
      ufficiale di cambio di residenza mentre Valentini era già a Genova da
      quasi tre mesi. 
      Come che sia, nel capoluogo ligure il nostro si trova
      alla testa di un giornale di tradizioni democratiche, che raggiunge anche
      gli emigrati nelle Americhe, lotta contro il militarismo e la triplice
      alleanza, è assertore della lotta passo per passo, critica la politica
      crispina, il Parlamento pecorone e lo scrutinio uninominale. Insomma,
      anche a L’Epoca (fondato da L. Lavagnino e Enrico Arisi nel 1877,
      30 mila copie di tiratura) Valentini conferma le convinzioni già espresse
      e propugnate nelle precedenti esperienze di direzione. 
      Breve, l’esperienza di Genova. Dopo quattro mesi e
      mezzo, a metà giugno, Valentini saluta i lettori. È in partenza per l’Argentina
      dove è stato chiamato a dirigere un importante giornale per gli emigrati,
      La Patria degli italiani, fondato nel ’76 (fino al 1883 si
      chiamò solo La Patria) da Basilio Cittadini, che lo ha diretto per
      tredici anni e che adesso vuole tornare per un po’ in Italia. 
      Attilio si imbarca sul piroscafo Regina Margherita, a
      Genova, salutato da amici e colleghi. Di là dell’Atlantico, la grande
      Repubblica sudamericana vive uno dei rari periodi di tranquilla
      prosperità della sua storia. Dopo la sanguinaria dittatura del generale
      Rosas, il Paese è stato governato da presidenti che hanno pensato, pur
      tra mille difficoltà e contraddizioni, più a costruire che a sparare:
      Urquiza, Derqui, Mitre (1862/’68, amico di Garibaldi), Sarmiento (1868/’74),
      Avellaneda (1874/’80), Roca (1880/’86). Nel 1889 il presidente è
      Juàrez Celman, che dovrà però dimettersi nel ’90 a causa di una grave
      crisi economica, seguita da una rivoluzione, domata, contro gli uomini di
      governo. 
      Gli emigrati italiani cominciano ad essere piuttosto
      numerosi; stanno anzi avviandosi a costituire la colonia straniera
      quantitativamente più consistente in Argentina. Nel 1884 sono già 280
      mila; gestiscono una florida banca, una cassa per il rimpatrio e un
      ospedale in Buenos Aires, hanno costituito una sessantina di società di
      mutuo soccorso e istruzione, associazioni filarmoniche e filodrammatiche.
      Gli agricoltori sono circa 35 mila, nelle colonie agricole di Santa Fé e
      10 mila, in quella di Entre Rios. 
      Nella capitale federale hanno impiantato molte piccole
      industrie; il 68% delle somme introitate dal fisco nella metropoli
      proviene dagli italiani, il cui capitale immobiliare ammonta a 60 milioni
      di scudi mentre assommano a una decina di milioni di lire i depositi nelle
      banche. 
      I giornali in lingua italiana sono La Patria degli
      italiani, diretta da Basilio Cittadini, L’operaio italiano da
      Annibale Blosi, Il Maldicente da Carlo Allara e L’amico del
      popolo da Gaetano Pezzi. 
      L’opinione pubblica argentina alternava momenti di
      sostegno e solidarietà nei confronti degli emigrati ad altri in cui
      emergevano sentimenti xenofobi. A ciò si aggiungevano episodi di tensione
      tra emigrati di diversa nazionalità (parecchi tra italiani e francesi),
      tensione che rispecchiava quella esistente tra i rispettivi governi
      nazionali in Europa. Non fa perciò meraviglia che i nostri fossero
      protagonisti dei non pochi fatti di cronaca conseguenti, che spesso
      consistevano in duelli; capitò a Cittadini e Blosi tra gli altri e,
      purtroppo, anche a Valentini. 
      In attesa di disporre delle copie dei pezzi di
      Valentini ne La Patria degli Italiani, che ho richiesto alla
      Biblioteca Nacional di Buenos Aires, mi devo accontentare di segnalare la
      presenza del nostro concittadino in alcuni momenti importanti della vita
      della colonia italiana nella capitale argentina. Lo posso fare grazie a
      quanto riportato nel volume di Giuseppe Parisi, Storia degli Italiani
      nell’Argentina – ed. Voghera – Roma 1907. 
      Qui leggo che al primo congresso delle società
      italiane, tenutosi in Baires nel settembre 1891, al quale aderirono 130
      società con 667 delegati, Valentini intervenne su alcune questioni
      procedurali (p.471) e sulla questione dell’istruzione: …Il
      dottor Valentini dice che l’istruzione delle Società di Mutuo Soccorso
      dev’essere eminentemente popolare, ché l’introduzione di scuole
      superiori o di licei potrebbe anche generare sospetti verso l’autorità
      Argentina che già in altre circostanze si mostrò gelosa delle nostre
      scuole, oltreché dal lato pratico il titolo che lo studente potesse
      ottenere in questo liceo non sarebbe poi valido per questo paese e neppur
      per l’Italia; propugnerebbe quindi maggior moderazione in questi
      desideri per stare nei limiti del possibile e dell’efficace. 
      Non conobbe moderazione, Valentini, quando si trattò
      di difendere l’onore nazionale a suo avviso offeso da un certo sig.
      Herminio Torre, un argentino. Sulle cause di quel tragico duello, sappiamo
      solo, per il momento, quanto scrisse vent’anni dopo, in una
      commemorazione su La Provincia di Mantova un collega di cui sono
      riportate le sole iniziali O.Z.: Morì il 5 ottobre 1892 in
      duello per una sciocchezza: per una parola sottolineata in un verbale di
      chiusura nel quale egli era stato secondo. Le condizioni di quello scontro
      erano terribili: pistola a sette metri di distanza. E questo, ripetiamo,
      per una parola sottolineata! (probabilmente riferita all’Italia).
      Fu colpito da una palla, quattro dita al di sopra della mammella sinistra.
      La cronaca racconta che dopo un istante da che fu colpito, si toccò il
      cuore esclamando: Toccato! Poi sorridendo e battendo le mani aggiunse:
      Bravo, Bravo! e cadde fulminato. 
      
      Il quotidiano La Prensa rivelò, il giorno dopo,
      che il duello si era svolto en la Colonia (R.O.), credo una
      località di Baires, alla presenza di due padrini per parte: i soccorsi
      prestati da alcuni medici a Valentini furono inutili poiché il proiettile
      aveva reciso di netto l’aorta procurando la morte istantanea. 
      Il giorno 7 ci furono i funerali. Grandiosi. Le
      cronache parlano di migliaia di persone che vi parteciparono (pare fino a
      20/30 mila), compresi i tanti colleghi della stampa italiana e no di
      Buenos Aires, l’ambasciatore e il console italiani, gli amici, la Banda
      (musicale?) sannitica, i Reduci delle patrie battaglie, rappresentanti
      della massoneria e di varie associazioni. Tra i parenti figurò un Biagio
      Valentini di cui non so nulla se non che rinnovava nel nome il celebre
      prozio prete di Attilio. 
      Nel luglio del ’93, il signor Felice Oddone (?) vide
      soddisfatta dal Prefetto di Macerata la sua richiesta di rimpatrio della
      salma di Valentini, che giunse a Genova, a bordo della nave Andrea Doria,
      il 27 o 28 di quel mese e a Porto Recanati col treno di mezzanotte del 28
      (se non abbiamo letto male le date nei documenti relativi); fu accolta dal
      presidente del comitato per le onoranze funebri Alberto Cittadini. Il
      giorno dopo ebbero luogo i solenni funerali, con l’intervento del paese
      intero, delle autorità, delle associazioni democratiche del Porto e delle
      località vicine, della banda musicale locale e di quelle di Loreto e
      Montegranaro. Il tutto sotto lo sguardo attento del delegato di polizia di
      Recanati e dei regi carabinieri. 
      Valentini è sepolto in una tomba sul lato sinistro,
      per chi entra, del viale centrale del civico cimitero (parte vecchia). La
      tomba è abbandonata a se stessa, il che non ci fa davvero onore. 
      Di lui si sono ricordati, almeno fino al ventennale
      dalla morte, La Provincia di Mantova, Olindo Pantanetti ne L’Esposizione
      Marchigiana del 1905, il Comune di Porto Recanati che gli ha dedicato
      una lapide sulla facciata del castello svevo, scoperta nel 1912 con
      discorso di Mariano Luigi Patrizi, alcuni autori di volumi sull’emigrazione
      italiana in Argentina; e poi, Attilio Moroni con una sua conferenza al
      Porto nel 1986 e il C.S.P. in ripetute occasioni e pubblicazioni. 
      La lapide, dettata da Patrizi, recita così: Attilio
      Valentini di Portorecanati/ onore della stampa e della fede repubblicana/
      ebbe la sdegnosa anima forte quanto l’ingegno/ cadde in tragico duello a
      Buenos Aires/ con lo stoicismo dei combattenti per l’ideale. 
      
      C’è anche una testimonianza diretta della vita
      condotta in Argentina, pubblicata su L’Epoca nei giorni
      immediatamente successivi al duello. Rivolgendosi a un amico di Roma,
      Valentini scriveva, in data non precisata, da Buenos Aires: Avrei una
      voglia matta di venire al più presto a passare due o tre mesi in Italia.
      Finora l’unica America che io ho fatto è stata la cambiale per conto
      altrui. Parecchie e pregate garanzie per conto altrui mi hanno messo in
      bolletta. Pazienza; torneremo a lavorare e ad ogni modo…vivremo. Io non
      voglio chiedere niente alle Società di navigazione, tu però potresti
      farmi avere un biglietto di andata e ritorno per e dall’Italia. Con
      questo in saccoccia, assai probabilmente fra cinque o sei mesi, verrei in
      Italia a farmi passare un po’ di quella nostalgia e ipocondria che tanto
      mi fanno pentire di essere nato… 
      
      È tornato, pagando un terribile prezzo. 
      
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       L’intervento
      di restauro del Biagetti sugli affreschi lauretani del Maccari 
      
      di
      Giuseppe Santarelli 
      
      E' noto che Biagio Biagetti, artista dalle molteplici
      espressioni, si occupò in maniera consapevole anche di restauro tanto sul
      piano teorico quanto su quello pratico. Qui si vuol prendere in esame la
      sua opera di restauratore degli affreschi della cupola della basilica di
      Loreto, eseguiti da Cesare Maccari.
       
      
      Gli antefatti 
      
      
      La cupola lauretana fu elevata fino al tamburo da
      Giuliano da Maiano e voltata nella calotta da Giuliano da Sangallo dal
      settembre 1499 al maggio 1500. Tra il 1610 e il 1616 fu affrescata da
      Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio, con una "gloria
      celeste" calata nell'ampio invaso. Deperiti quegli affreschi e
      staccate alcune loro porzioni ad opera di Ottavio Ottaviani nel 1888-1890,
      la cupola fu nuovamente decorata da Cesare Maccari di Siena. Questi, dal
      1890 al 1895, affrescò la calotta con emblemi e figurazioni simboliche
      delle Litanie Lauretane, e dal 1895 al 1907 dipinse le pareti del
      tamburo con grandiose scene della Storia del dogma dell'Immacolata,
      decorando anche i contigui sottarchi e arcate con episodi devozionali e
      con immagini di santi e di pontefici. 
      La cupola nel secolo XX ha subito due incendi: uno nel
      1926 per corto circuito, durante il quale si adoperò per lo spegnimento
      del fuoco il celebre aeronauta Umberto Nobile, e l'altro, assai più
      grave, nel 1944, in periodo bellico, per un pesante bombardamento.
       
      
      Il bombardamento
      del 1944 
      
      
      Il santuario di Loreto, in applicazione dell'articolo
      29 del Concordato tra l'Italia e la Santa Sede (1929), era tornato a
      essere proprietà pontificia. Di conseguenza, durante il secondo conflitto
      mondiale, come Roma, anche Loreto fu considerata città aperta,
      vietata a ogni stazionamento di truppe combattenti. Il maresciallo
      Kesselring aveva fatto affiggere manifesti in questo senso, nei quali
      spiccava un marcato Achtung!. Ogni quindici giorni il comandante
      tedesco della piazza di Ancona, residente a Osimo, si portava al santuario
      per informarsi dal rispettivo rettore se gli ordini venivano osservati. 
      Dopo lo spostamento delle truppe tedesche verso Ancona,
      Loreto fu occupata dalle truppe alleate il 1° luglio 1944. Per tre giorni
      si sviluppò una lotta accanita nelle adiacenze di Loreto, fino a che, il
      4 luglio non fu espugnato Castelfidardo da parte degli alleati. Il peggio
      per Loreto sarebbe arrivato nella notte tra il 5 e il 6 luglio successivo
      con un gravissimo bombardamento. 
      Le cause del funesto avvenimento non sono chiare.
      Secondo testimoni oculari ancora viventi, si andava dicendo che le truppe
      alleate usavano la città di Loreto come base di operazioni belliche,
      mettendo un posto di osservazione perfino nel campanile, smantellato poi
      per le vive rimostranze di Mons. Gaetano Malchiodi, amministratore
      pontificio del santuario. Il comando tedesco era al corrente di tutto
      questo perché alcune radio clandestine lo tenevano continuamente
      informato. Probabilmente, quindi, si trattò di una rappresaglia da parte
      dei tedeschi che avevano rispettato Loreto quale città aperta,
      mentre le truppe alleate giudicarono di non doversi impegnare a tanto. 
      Le prime avvisaglie di un attacco aereo si ebbero alle
      ore 21,30 del 5 luglio quando alcuni aerei tedeschi, rombanti lungo la
      costa adriatica, sganciarono spezzoni incendiari presso la stazione
      ferroviaria e lungo la Scala Santa. Il bombardamento iniziò alle ore 23 e
      centrò la cupola della basilica che andò in fiamme. Il fuoco trovò esca
      nel legname al di sotto delle lastre di piombo che colavano liquefatte. Un
      vento di poppa favorì l'espandersi dell'incendio che sfiorò persino la
      statua bronzea della cupola. 
      Cominciarono i primi tentativi per spegnere le fiamme,
      ma l'impianto antincendio di cui disponeva la cupola risultò
      inutilizzabile per mancanza di acqua corrente e l'improvvisata
      attrezzatura delle pompe e dei motori risultò inadeguata al caso. 
      Alle ore 3,45 del 6 luglio ci fu una seconda incursione
      aerea. Una bomba squarciò il tamburo della cupola dalla parte ovest per
      un' estensione di 15 mq di superficie. Così descrive la scena un
      testimone oculare: 
      
        
          
          
      "Nella basilica un polverone enorme; detriti
          ovunque, le oscure sagome dei confessionali trasformate in bianchi
          fantasmi. In alto sulla cupola occhieggiava sinistramente una grande
          buca. Tuttavia la Santa Casa era in piedi. Ci recammo là per la
          porta, l'unica porta aperta, vicino al santo camino. Da fondo ci viene
          incontro p. Remigio da Cavedine, il custode della Santa Casa, che
          aveva passato la notte lì dentro, in cotta e stola, pregando alla
          luce delle candele accese davanti alla Madonna. Bianco ed emozionato,
          disse semplicemente: - La Santa Casa è salva, ringraziamo la Madonna
          -". 
           
         
        
      Spegnimento della
      cupola e bilancio dei danni 
        
      
      
      L'opera di spegnimento delle fiamme che divoravano la
      cupola riprese dopo lo sgancio della micidiale bomba, ma risultò
      laboriosissimo. Vi si impegnarono arditamente i soldati polacchi, corsi a
      Loreto da Macerata con pompe antincendio. L'acqua però poteva essere
      attinta solo dalle cisterne poste sotto la pavimentazione della Piazza
      della Madonna, perché l'acquedotto era stato fatto saltare dai tedeschi
      qualche settimana prima. Alcuni soldati stavano in Piazza addetti alle
      pompe, altri stendevano la tubatura verso la facciata, altri erano saliti
      sul tetto della basilica con l'intento di spruzzare l'acqua dove divampava
      l'incendio. I tubi però erano di tela e non reggevano alla pressione. Una
      soluzione efficace fu quella di salire sulla cupola con le scale e di
      tagliare il piombo per isolare le fiamme. 
      All'opera di questi generosi soldati, che è stata
      immortalata da Arturo Gatti nella vetrata della cappella polacca, si
      aggiunse l'efficace soccorso portato dai muratori della basilica di
      Loreto. Uno di loro, Genuino Maccaroni, nel 1984 rilasciò questa
      dichiarazione:
       
      
        
          
          
      " Verso le 5 [del 6 luglio] andai al santuario
          [...] Salii sopra il tetto della basilica per tentare di raggiungere
          la cupola attraverso l'apposita scaletta, ma le fiamme ardevano da
          tutte e due le parti della stessa. Allora, con una scala di legno
          tentai di salire fino al cornicione della cupola. Ebbi un attimo di
          esitazione, ma poi mi feci coraggio e andai avanti. Constatata la
          situazione, scesi, presi i tubi dei pompieri e risalii. Con me
          salirono altri, come Gigino Marta e Vincenzo Rocchetti, il quale per
          tutta la notte aveva vigilato intorno alla basilica, durante i
          bombardamenti. Con i tubi cominciammo a smorzare le fiamme ancora alte
          e dure a spegnersi, perché erano penetrate tra i legni.
          Successivamente, con lattine di benzina riempite d'acqua dell'orto dei
          frati, avemmo più successo. Leonello Montanari portava le lattine a
          me che poi le trasportavo dal tetto della basilica fino alla cupola. E
          così, a poco a poco, riuscimmo a domare le fiamme".
       
           
         
      
      
      Il muratore loretano fa rilevare con malcelato
      compiacimento l'efficacia della opera sua e dei compagni quando osserva:
      " I polacchi dal cornicione interno della cupola con sifoni
      inefficienti poterono ben poco contro l'incendio". 
      I danni provocati dal bombardamento furono assai gravi.
      Lo squarcio di 15 mq aperto nella cupola dalla bomba provocò uno
      spostamento di detriti, che precipitarono in gran parte intorno all'altare
      del coro o cappella tedesca. Il rivestimento marmoreo non subì danni di
      rilievo, salvo la perdita di minuscole sezioni in qualche statua, come
      l'alluce del Profeta Balaam. Si disse che fu una fortuna il fatto
      che la bomba avesse colpito la parte più robusta del tamburo e che fosse
      scoppiata lassù, limitando i danni. Comunque sia, la decorazione della
      cupola fu seriamente compromessa. Scrive un testimone dell'epoca:
       
      
        
          
          
      "Pareti, intagli, sculture, pitture, tutto ha
          preso il tono uniforme di polvere lattea. Le macerie violentemente
          proiettate nella parete opposta hanno completato la rovina del
          mirabile ciclo pittorico del senese Cesare Maccari. Accanto alla Santa
          Casa cumuli di rovine: lampadari, vetri istoriati, rottami di ogni
          genere".
       
           
         
      
      
      Anche le vetrate della cupola subirono danni
      irreparabili. Cinque di esse andarono definitivamente perdute. 
      Osservò il Biagetti che i danni all'esterno della
      cupola furono causati principalmente dai numerosi spezzoni incendiari,
      mentre quelli all'interno si dovettero a un'unica bomba che, abbattutasi
      con grande violenza su una parete esterna del tamburo, verso ovest, vi
      procurò un grande squarcio ellissoidale di circa 20 metri quadrati.
       
      
      La fasi preliminari
      del ripristino della cupola 
      
      
      Già dal luglio del 1944 decine di operai e di tecnici
      specializzati diedero inizio a un primo restauro della cupola,
      "risanando le ferite che in un primo tempo non sembravano di così
      complessa portata". Si trattò di lavori in muratura, richiesti
      dall'urgenza del caso per rendere stabile la cupola. 
      Nel maggio del 1945 si pose mano a un restauro
      sistematico della stessa, sotto la direzione dell'ingegnere
      dell'Amministrazione Pontificia Amerigo Staffolani. In un primo momento fu
      procurato un notevole quantitativo di legname per l'impalcatura, che fu
      subito avviata. Mons. Gaetano Malchiodi, però, paventando un altro
      incendio per il materiale infiammabile, preferì sostituire i pali di
      legno con tubi metallici. La messa in opera della seconda e definitiva
      impalcatura durò più di un mese. Vi fu allestita una scala a ripiani,
      schermata con cannicciata, che dalla parte superiore della Santa Casa
      raggiungeva il lanternino. Furono acquistate anche diverse tonnellate di
      piombo grezzo per la copertura esterna della cupola a lastre, lavoro
      preliminare indispensabile. Fu necessario rinnovare e ricoprire di lastre
      di piombo tre spicchi della cupola. Vennero eseguite riparazioni anche nei
      tetti, con la sostituzione di non poche capriate e di un ingente quantità
      di tegole, in quel momento quasi irreperibili, come annota il Biagetti.
       
      
      Il restauro
      pittorico e decorativo ad opera del Biagetti 
      
      
      Biagio Biagetti fu incaricato a dirigere le operazioni
      del restauro pittorico e decorativo della cupola. Nel primo semestre del
      1946 egli promosse ed eseguì studi ed esperimenti preparatori prima di
      dare inizio al restauro vero e proprio. Il Biagetti anzitutto rilevò che,
      attraverso lo squarcio sul lato ovest del tamburo della cupola, una
      congerie enorme di frantumi laterizi, di calcinacci e di polvere fu
      violentemente scaraventata sulle pareti interne opposte, "rendendo
      irriconoscibili le pitture sotto un densissimo strato di polvere, e
      piagando in numerosi punti la malta su cui è dipinto l'affresco, composta
      di calce e sabbia e avendo uno spessore di centimetri quattro; dei quali
      uno d'intonaco e tre di arricciato". E annota ancora: "Nella
      parete squarciata dalla bomba, oltre a danni consimili della malta, si
      debbono lamentare gravi danni agli stucchi e la completa distruzione di
      circa quaranta metri di affresco". 
      Il Biagetti, negli assaggi preliminari al restauro,
      verificò anche un fenomeno preoccupante. I danni provocati dal
      bombardamento erano stati favoriti da "un difetto originario della
      malta". Ecco le sue parole testuali che si leggono in una sua
      relazione pubblicata nel settembre-ottobre 1946 negli Annali della S.
      Casa:
       
      
        
          
          
      "[La malta] al momento della preparazione
          dell'affresco è stata applicata sulla costruzione laterizia quasi
          liscia e ricoperta di idrofugo grasso, che ha impedito alla malta di
          far salda presa sul muro. Si aggiunga che la malta è riuscita
          friabilissima e si polverizza al semplice stropicciarla con un dito.
          Tutto ciò fa temere, purtroppo, che i danni subìti dagli affreschi
          non siano da imputarsi esclusivamente alle bombe tedesche, e fa
          balenare la necessità di una revisione totale dell'opera maccariana,
          per constatare se - il che non è improbabile - la difettosa
          preparazione iniziale abbia influito, anche prima del bombardamento,
          sulla debole adesione della malta nel muro. In tale deprecabile caso,
          si dovrà procedere al graduale risarcimento di tutti gli affreschi
          con l'identico sistema che si sta attuando con indubbia efficacia
          nelle tre pareti del tamburo, verso oriente, dove sono rappresentati:
          la V sezione del Concilio di Trento; la definizione del dogma
          dell'Immacolata; la cacciata dei protoparenti dall'Eden e la
          presentazione di Maria al Tempio".
       
           
         
      
      
      Purtroppo, il timore del Biagetti era fondato, perché
      l'11 agosto 1946, mentre si stava lavorando al ripristino della
      decorazione, cadde dall'intradosso della cupola una porzione d'intonaco di
      circa 1 metro quadro. Annota il cronista del santuario:
       
      
        
          
          
      "Ciò che sembrava solo un'induzione del
          professore direttore dei lavori divenne una dura e costernata
          certezza: l'intera superficie pittorica, dal tamburo alla volta,
          presentava gli stessi difetti tecnici constatati nella parte
          principale. Una generale revisione e un successivo consolidamento
          degli affreschi si imponevano con caratteri d'urgenza".
       
           
         
      
      
      Il sistema adottato dal Biagetti consisteva in una
      serie di operazioni, che egli lucidamente illustrò nella citata
      relazione. 
      1 - Anzitutto procedette all'asportazione del denso
      strato di polvere che ricopriva gli affreschi, con il ravvivamento della
      superficie del colore, irrorandovi con il polverizzatore un'appropriata
      miscela liquida. 
      2 - Con un sistema appositamente studiato per questi
      affreschi maccariani, il restauratore, prima di sostituire le parti
      mancanti, applicò numerose grappe metalliche a vite per assicurare il
      blocco della malta a muro. Usò viti in ottone con borchia allargata. 
      3 - Praticò, quindi, numerosissime iniezioni a base di
      caseina sulla malta, applicando subito sulle singole zone uno speciale
      congegno atto a comprimere e ad assicurare l'adesione della malta sul muro
      e capace di impedire che la materia iniettata formasse pericolose borse o
      aggravasse i distacchi. Questo lavoro, condotto con estrema precauzione
      per non allargare le piccole brecce operate in numero impensato dalla
      proiezione dei vari rottami, fu portato a termine nell'ottobre 1946. 
      Il Biagetti osserva a riguardo di questo procedimento:
       
      
        
          
          
      "Questo sistema di consolidamento - salvo
          talune varianti consigliate dalla natura particolare della malta degli
          affreschi del Maccari - è in uso da molti anni nel Laboratorio
          vaticano per il restauro delle pitture murali, al quale, come è noto,
          sono affidati, tra l'altro, i celeberrimi cicli affrescati che
          ammiransi nel Palazzo vaticano".
       
           
         
      
      
      Dopo il consolidamento della malta, il Biagetti
      intervenne sul restauro vero e proprio secondo questo criterio:
      "integrando scrupolosamente le piccole mancanze, e limitando a
      semplici tinteggiature le più vaste zone, nelle quali la completa
      ricostruzione pittorica potrebbe risultare arbitraria e inesatta". Fu
      guidato, quindi, da un saggio criterio conservativo. 
      Nessuna pubblicazione accenna alla difficoltà
      incontrata dalle autorità del santuario per ottenere dai parenti del
      Maccari i cartoni necessari al rifacimento della scena del Capitolo
      francescano a Pisa del 1263 e di quella contigua con la Curia
      romana che celebra la festa dell'Immacolata nel secolo XII. La
      tradizione orale però, confermata da testimoni oculari ancora viventi,
      attesta che i parenti del pittore senese pretendevano diritti d'autore
      esorbitanti per l'uso di quei cartoni, per cui fu necessario rinunciarvi. 
      Un cronista del santuario, nel maggio del 1947,
      annotava che in questa sezione della cupola i restauri si limitarono
      "a delineare rapporti cromatici tonalmente intesi per mantenere
      l'equilibrio con le parti esistenti. Le pristine figure [...] si
      presentano ora sfumate e non prive d'interesse per gli attuali gusti di
      modernità". Non è difficile scorgere in questo linguaggio i
      suggerimenti del Biagetti all'anonimo cronista, il quale, con empito
      letterario, così conclude:
       
      
        
          
          
      "Le scene tornate a comparire tra le
          smaglianti rappresentazioni sorelle in veste di povere cenerentole,
          velate di mestizia e di pianto e ammantate di lutto, diranno più
          eloquentemente ai posteri la jattura subìta, e nel linguaggio dei
          muri - meglio che delle parole - alzeranno la loro voce di protesta e
          d'ignominia sulla [in]civiltà e sulla insensibilità del nostro
          tempo". 
         
       
      
      Dopo il restauro degli affreschi il Biagetti diede mano
      al ripristino degli stucchi dorati, per i quali egli non previde grandi
      difficoltà, perché si trattava di una riparazione quasi materiale di
      sbocconcellature e di contusioni prodotte dai frammenti laterizi,
      scagliati violentemente dalla bomba, senza che fosse stata compromessa
      peraltro la saldezza dei rilievi e l'integrità delle parti essenziali. 
      Delle cinque vetrate andate perdute, quattro furono
      sostituite dal Biagetti con altrettante vetrate adornate da semplici
      motivi geometrici e illeggiadrite da una bordura esornativa a colori, e
      una fu decorata con la figura dello Spirito Santo, disegnata dallo stesso
      Biagetti - che si ispirò all'analoga immagine di una vetrata della
      basilica di S. Pietro - e dipinta a fuoco da Mario Di Nunzio, il quale,
      insieme ad altri esperti restauratori, fu a fianco del maestro
      portorecanatese durante le operazioni di ripristino della cupola. 
      Tanto le autorità del santuario, quanto il
      restauratore si imposero di portare a termine i lavori di restauro per la
      fine di aprile 1947, in vista dell'arrivo dei pellegrini, compresi quelli
      dei treni bianchi unitalsiani. E in effetti fu così, perché la rivista
      del santuario nel maggio 1947 avvertiva i lettori che i lavori erano
      terminati e che tutto era "tornato normale". 
      L'apprezzamento per l'opera del Biagetti è fortemente
      dichiarato nella stessa rivista, che parla di "esperto occhio del
      direttore dei lavori" e di "processo originale e sicurissimo di
      risanamento".
       
      
      Il giudizio del
      Biagetti sugli affreschi del Maccari 
      
      
      In questo discorso è utile conoscere la valutazione
      critica del Biagetti sul ciclo pittorico del Maccari. A riguardo va subito
      distinto l'approccio con la decorazione maccariana del Biagetti
      restauratore e quello del Biagetti pittore e critico d'arte. 
      Nel primo caso il suo giudizio, come è comprensibile,
      appare positivo, anzi entusiasta. Scrive il restauratore:
      
       
      
        
          
          
      "L'opera di Loreto è senza dubbio la più
          vasta e complessa del Maccari, ed una delle più eccellenti del secolo
          XIX. Qui l'artista - nel pieno vigore delle sue forze - ha cantato con
          precisione di forma e con squillanti sinfonie cromatiche l'apoteosi
          della Madonna, trattando particolarmente, con alata profondità di
          concetti, le Litanie Lauretane, il culto e la definizione del dogma
          dell'Immacolata".
      
           
           
         
      
      
      In un'ultima analisi, l'eccellenza dell'opera pittorica
      da restaurare finiva per esaltare la stessa bravura del restauratore. 
      Ben diversa invece è la valutazione del Biagetti
      critico nei riguardi del complesso ciclo maccariano. Egli se ne occupò
      nel 1927 con un scritto apparso nella rivista del santuario di Loreto. Da
      un lato apprezza nel Maccari l'eccezionale capacità nella tecnica
      dell'affresco che gli consente di "inondare vaste superfici murali di
      rutilanti sinfonie cromatiche", ed elogia la sua "padronanza
      assoluta delle leggi del disegno e della prospettiva". Dall'altro
      lato però gli nega la capacità di muovere i sentimenti. Scrive:
      "non seppe sussurrare al cuore dei devoti la parola sommessa, ma
      profonda e toccante, che val più di ogni gesto declamatorio". 
      E muove critiche al pittore senese anche sul piano
      delle esigenze decorative, quando parla di "irrazionale partito
      decorativo di quel terreno - su cui si sviluppano le grandiose scene - che
      turba le buone norme della pittura murale, le quali esigono assoluto
      rispetto delle superfici costruttive". 
      Il Biagetti definisce le scene del tamburo "opera
      slegata, episodica, soprattutto antidecorativa e teatrale", perché
      il pittore, rotto ogni freno, si compiace dei "contrasti più
      violenti", tentando di amalgamare idealismo e verismo, sacro e
      profano, scene all'aria aperta e scene al chiuso. 
      Il Biagetti apprezza di più, invece, i dipinti della
      calotta. Scrive:
      
       
      
        
          
          
      " Qui il profondarsi delle lontananze, la
          luminosità delle scene, la vigoria cromatica dei drappeggi, la
          precisione delle forme, la sontuosità delle fogge, l'arditezza dei
          contrasti sono quanto di meglio abbia prodotto il Maccari e
          rappresentano un insieme pittorico di altissimo valore, oltre che uno
          sforzo poderoso di tecnica d'affresco".
      
           
           
         
      
      
      Tuttavia, conclude che, "a trattare ancor più
      degnamente l'altissimo tema bisognava aver avuto il coraggio di liberare
      il pennello da ogni intemperanza e di munirlo d'ali". 
      Respinge il giudizio riduttivo del Biagetti il pittore
      Arturo Gatti, devoto discepolo del Maccari, come emerge in un suo articolo
      del 1952, dove parla - con implicita allusione all'artista portorecanatese
      - di "certi puristi intransigenti", secondo i quali "i
      dipinti non debbono sfondare le rispettive pareti", dato che
      "nella pittura murale bisogna rigidamente rispettare l'organismo
      costruttivo architettonico delle pareti medesime" .
      
       
  
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    La pineta di
      Volpino Volpini   di
      Giuseppe G. Perfetti 
      La pineta di Porto Recanati è un luogo ben definito
      nella sua ubicazione che i portorecanatesi e non conoscono, di cui tutti,
      chi più chi meno, hanno goduto l’ombra e il fascino e che per molti
      potrebbe essere lì da sempre. 
      La ricordiamo sempre lì mentre si deteriora e si
      riprende spontaneamente poi ancora viene rovinata, ripiantumata e cosa
      altro ancora, ma così non è sempre stata, anzi in molti sanno che agli
      inizi del secolo XX al suo posto non c’era altro che sabbia. Ma quei
      molti non sono ascoltati, sono quegli anziani che si lamentano delle
      trasformazioni del Paese rispetto a quell’ideale rappresentato dal loro
      vissuto. 
      La Pineta è nata perché c’è stato chi l’ha
      voluta, chi gli ha dedicato cinquanta anni della propria vita a contatto
      con i coloni che prestavano la loro opera e professori le loro idee
      riuscendo a tirare fuori il meglio dalle sabbie sterili dei relitti di
      mare sperimentando continuamente, non abbattendosi di fronte a sconfitte
      temporanee perseguendo sempre l’idea di dover e poter fare qualche cosa
      che potesse insegnare ad altri, primi fra tutti i suoi amati nipoti e
      pronipoti, che con la tenacia e sacrificio si ottengono grandi cose, belle
      e positivamente economiche. 
      Non si è quindi formata spontaneamente ne tanto meno
      facilmente come invece facilmente se ne sta andando dopo anni di incuria. 
      Non ricordo però di qualcuno che me ne avesse parlato
      o che avesse fatto cenno all’azione continua di un uomo che appunto
      quella pineta e non solo pineta aveva voluto se non in una lettera scritta
      alla redazione della "Tartana" dove appunto
      compare il nome dell’Ingegnere VOLPINO VOLPINI…….membro della
      famiglia Volpini, fratello di Enrico sindaco di Porto Recanati dal 1895 al
      1911. 
      Pochi mesi fa dagli scaffali di quei nipoti e pronipoti
      su accennati sono usciti due libri che proprio della nascita della Pineta
      parlano, delle fatiche di quell’impianto e della realizzazione di un
      sogno deriso un po’ dai molti, che era appunto COLTIVARE LE DUNE MARINE
      (1930) passando poi ai particolari nei FRANGIVENTI NELLA REDENZIONE DELLE
      SABBIE MARINE corredate da foto interessantissime dove compare
      frequentemente il colono Fortunato Torregiani e solo sporadicamente l’autore
      ing. Volpino Volpini. 
      Perché nulla di quanto fatto vada perduto riproponiamo
      la lettura del primo libro intervenendo il meno possibile per non alterare
      lo spirito e il desiderio dell’autore nel senso di colui che ha fatto
      (operato) e non solo scritto. 
      Chiaramente scritti in epoca fascista a parte un paio
      di riferimenti al regime e alla frase finale dove si afferma che "La
      parola difficoltà è sparita dal vocabolario fascista; ora si deve
      credere, obbedire, combattere", lo spirito è quello dello
      sperimentatore che vuole sì il riconoscimento di un lavoro fatto nella
      bonifica, ma offre anche questo lavoro, i risultati di una sperimentazione
      a quanti vogliono ripercorrere questa strada del recupero all’agricoltura
      di terre altrimenti non sfruttabili. 
      Titolo: COLTIVATE LE DUNE MARINE (Le mie sabbie
      marine verdeggiano 1895-1929) su sfondo di Pino Marittimo e pineta con
      scritto sulle radici "TENACIA" e il nome dell’Autore, edizione
      Simboli Recanati. 
      Libri ritrovati con dedica ai "nepoti"
      Michele e Francesco perché sappiano che Volere è potere.
      
       
      L’Autore si rivolge al lettore direttamente, meglio
      se appassionato agricoltore, perché ciò è indispensabile per valutare e
      capire la portata tecnica e spirituale del lavoro svolto, e indispensabile
      cioè l’essenza della mentalità del rurale : attesa per lunghi mesi o
      anni, nascita del seme e gioia del vedere il germoglio, felice nella sua
      semplicità, nella sua sapiente e provvidenziale tenacia. Seguono le foto
      e le biografie dei genitori Giovanni Volpini e Michelina Zaccagnini a cui
      questo libro viene dedicato e l’espressione del desiderio che quanto
      detto e fatto possa essere un contributo non vano al buon nome della
      famiglia con la speranza che i componenti di essa ne calchino le onorate
      orme.. convinto che tutto si conquista, in modo stabile, soltanto con
      lento e faticato lavoro e con sani e tenaci propositi . 
      Seguono un indice alfabetico dei capitoli e l’indice
      delle 29 fotografie, si arriva così al terzo sottotitolo VOLERE Ė
      POTERE. 
      A destra del fiume Potenza come in tutta la costa vi
      era una grande distesa di sabbia di 15 ettari, calcarea, silicea, sterile,
      completamente incolta: RELITTO DI MARE arida duna a tre metri sul livello
      del mare di proprietà dei Volpini che l’avevano acquistata dai
      Cingolani (1879), Brunacci (1894), Borghese (1906). 
      Prime colture effettuate per rendere la sabbia
      discretamente fertile furono, sulla ,erba medica e favette, seguì un
      piccolo canale e la piantumazione di numerose viti maritate ad acer
      campestris, pioppi di vari genere e pini protetti dalle piene del fiume
      con argine di terra rivestito da canneto; la parte in golena fu rafforzata
      con salici, pioppi, acacie, tamerici ed altre la cui forza e vigoria è
      visibilmente degradante dal monte al mare. 
      Vi sono poi paralleli al battente del mare, due argini
      robusti, uno quasi al confine con la proprietà demaniale litoranea ed un
      altro a monte, rafforzati tutti da canne e tamerici. Fra i due argini una
      superficie di tre ettari, messa a coltura ordinaria, ad ortaglie, file di
      viti basse, frutta. Ma la difesa della siepe di tamerici non è
      sufficiente contro il vento salato e le acque del mare che filtrando
      danneggiano in parte i prodotti del suolo. Nel 1917 il mare arrivò a
      coprire tali territori per alcuni giorni e per risanarli si dovette
      incanalarvi dell’acqua dolce abbondante. 
      Vicino a questo terreno vi è una casa, definita
      ordinaria, con capanne ed accessori ad uso del mezzadro e li vicino una
      palazzina molto comoda, Villino Potenza tenuta come centro agricolo per l’Amministrazione
      dove si radunano piante secche, sementi da selezionare e tenere in
      osservazione e vi si mettono in incubazione circa cento once di seme di
      bachi. 
      Togliere quindi al mare e all’azione dei venti
      salmastri questa zona di dune sembrò impresa ardua ed insuperabile tanto
      da stimolare la sfida dell’ing. Volpino Volpini oltre che i sorrisi di
      molti che osservavano i primi piantamenti con scetticismo. Risero in molti
      allora….; oggi, all’ombra di saluberrime piante, allietato dal
      canto di molteplici uccelli, svagandomi coi piantamenti, colla caccia e la
      pesca, OGGI RIDO IO, ed è naturale la mia viva
      soddisfazione di godervi la sana, semplice invidiata vita campestre e
      potervi raccogliere frutta belle e saporite. (Ricorda una pronipote
      che proprio i frutti venivano offerti ai suoi piccoli ospiti in quello che
      giustamente riteneva il suo giardino). Certo i risultati sono stati
      migliori delle aspettative, ma occorse superare anche le difficoltà
      paventate dal vecchio contadino. 
      Simpatica fu la messa in opera di cassette sui pini per
      i piccioni che si avvicinano alle mani dell’ingegnere per mangiare ma
      che sono anche preda di gufi, falchi e barbagianni ora tenuti a bada da
      una sicura canna di fucile. 
      Gli unici a sostenere ed incoraggiare nella lotta
      contro la sabbia sterile, siccità venti ed altro furono i fratelli Enrico
      e Attilio che da affittuari della tenuta di S.M. in Potenza avevano
      tentato la messa in opera di una piccola pineta fin dal 1880. I risultati
      di quell’esperienza: stentata vegetazione, il parziale e graduale
      deperimento furono prezioso insegnamento ed aiuto nella lotta successiva
      ingaggiata per il rimboschimento della più estesa zona adiacente. 
      Prima cosa da fare, l’analisi del terreno: sabbia
      lavata dal mare priva di ogni più piccola traccia di materia organica che
      si estende fino alla profondità di tre metri e mezzo al livello dell’acqua
      freatica alternando strati di sabbia e ghiaia , secolare lavoro delle
      acque e del vento. Materiali utili per costruzioni, ottimo per cemento. 
      A questo proposito si fa cenno all’emancipazione del
      Porto da Recanati nel 1893 e all’elezione del fratello Enrico quale
      sindaco nel 1895 il quale incaricò il cementista Gabellini a fare la
      fognatura bianca per l’acquedotto pubblico, oltre che dotare il paese di
      energia elettrica, edificio scolastico, riordinamento delle strade con
      contratti tali da fornire utili per altre opere pubbliche (con la luce fa
      l’acqua e con questa la fognatura). Proprio al Gabellini cedette
      gratuitamente le sabbie per il cemento armato per le opere pubbliche
      perché prive di sostanze organiche, ma hanno il pregio di mantenere più
      a lungo le piante ivi allevate, senza bisogno di concimarle e lavorarle
      profondamente in antitesi alle leggi per le colture dei campi ordinari.
      Spiegazione possibile: la forte permeabilità all’aria all’acqua e la
      facilità con cui le radiaci si nutrono, moltiplicano e approfondiscono.
      Però il trapianto non è cosa facile e per ovviare a tale inconveniente l’ingegnere
      mette sotto la sabbia terreno buono dove le radici si fortificano e
      diventano adatte al trapianto con pane. 
      Ma un altro malanno si presentò subito nella
      moltiplicazione sorprendente delle lumachelle che distruggevano fin le
      più piccole tracce della vegetazione tanto da dover ingaggiare una lotta
      secondo un serio programma di applicazione. 
      Ad un chilometro a monte del terreno vi era una sorgiva
      d’acqua (portata litri 12 alla temperatura di 8°C) ed un fosso di scolo
      che arrivava alle sabbie. Acqua provvidenziale ma il fosso, 1,3 m.
      profondo, permetteva il rapido assorbimento dalle prime sabbie filtranti.
      Pertanto prima cura fu sollevare il più possibile il letto e far giungere
      l’acqua dove meglio poteva servire e grazie proprio a quelle acque
      torbide e ai suoi sedimenti naturali sparsi dentro i fossi che questi si
      impermiabilizzarono. A trenta anni da tali interventi, il sistema di fossi
      e di piccoli canali viene alimentato a rifolta ed a rotazione, specie in
      estate mentre d’inverno sono tenuti pieni per creare e depositare fango.
      Ai fossi principali si diede forma di trincea con banchine laterali dove
      furono impiantati canneti che diventati robusti fungevano da frangivento.
      Ma dato che le canne perdevano le foglie, dovevano essere tagliate
      annualmente e si lasciava campo libero ai venti di Greco-Levante durante
      la primavera seccandosi le giovani gemme od avvizzendo i rami più alti
      e teneri ritardando lo sviluppo regolare delle piante. Si è cercato
      di formare ripari con le canne legate ma fu vano, e la sperimentazione
      continua con nuove prove. 
      Lo scopo infatti che si vuole raggiungere è quello di
      preservare le piante dai venti salati che dal Conero a San Benedetto
      rendono la vegetazione vicino al mare "misera". Tale effetto
      sembra essere prodotto dai suddetti venti, i più salati, che deviati dal
      Conero risultano più violenti a Porto Recanati e Porto Potenza Picena. I
      maggiori danneggiati risultano comunque essere i pini più bassi rispetto
      a quelli alti ma ci si chiede: se entrambi sono stati investiti dal salso
      depositato nelle foglie e nei rami, perché solo i pini più bassi sono
      danneggiati? E perché risultavano danneggiate le foglie verso il mare se
      la densità salina si trovava attorno alla pianta allo stesso livello?
      Occorreva individuare altra causa che doveva aggiungersi alla prima per
      rendere sensibilissimi i danneggiamenti nelle parti più basse. 
      Dal pulviscolo accumulato dopo forti venti, al piede
      delle piante, specie dalla parte di mare, fu naturale dedurre che questo
      doveva ferire le foglie (smeriglio) e se nella ferita si inietta il sale
      questo fa seccare le foglie lacere. Tale ipotesi fu confermata dal Prof.
      Dott. Vittorio Racah nel giornale L’Italia Agricola del giugno 1927.
      Perciò vennero adottati mezzi per fermare le sabbie, usando specie di
      erbe più comuni lungo il nostro mare o altre fatte venire da fuori (dal
      ProF. Borzì, direttore del Giardino di acclimatazione di Palermo ebbe il Saccarum
      Spontaneum) ma pochi cespi dei tanti venuti da Milazzo distribuiti
      nelle divese posizioni e condizioni ambientali resistono ancora. La
      sperimentazione con la Psama suggerita dal Ministero dell’Agricoltura,
      anche se migliore di quella del Saccarum non fu positiva sia riprodotta
      per seme che per rizoma. 
      Dopo vari tentativi con diverse specie come cardo delle
      sabbie, timo, scotano, salvia, serpillo, trifoglio, crocetta, finocchio
      selvatico, erba medica, un beneficio inaspettato si ebbe con alcuni
      ramoscelli e piantine d’edera e delle piante di rovo che compiono un
      lento ma incessante lavoro nella trasformazione graduale delle sabbie
      mantenendo la desiderata verdura ed umidità. Il rovo migliora detti
      effetti riparando dal sole e dai venti le piccole e tenere piante nate
      sotto di esso. Si è così potuto creare in luogo elevato a piena
      esposizione dei venti una bella siepe di sempreverdi, hevonium, lauri,
      ginepri, laurine e ligustri. L’edera ferma le sabbie mobili, le ricopre
      di verde modificandone la composizione e nello stesso tempo rende
      movimentato ed artistico l’ambiente. 
      Ma l’edera danneggia le piante di essenza dolce per
      cui viene strappata da esse e lasciata soltanto nei pini e nelle acacie.
      Stressa cosa fu fatta con i rovi divenuti forti a danno di altre essenze:
      tagliati profondamente nella stagione calda perché neppure i polloni
      potessero vivere. Non si può certo permettere a questi di espandersi
      liberamente e a farla da padroni anche se è doveroso ed utile segnalare
      ad altri agricoltori la loro opera. 
       Da tali ragioni ebbe origine la seguente lapide: 
      INCULTA ET STERILIS VENTISQUE AGITATA MARINIS 
      DENSIS SEPTA RUBIS CULTAQUE ARENA VIRET 
      QUESTO VOLLERO 
      FIN DAL 1895 
      I FIGLI 
      DI GIOVANNI VOLPINI E MICHELINA ZACCAGNINI 
      Questo perché la famiglia sappia che il rovo
      contribuì fortemente alla bonifica delle sabbie desertiche come
      fortemente vollero i fratelli Enrico, Attilio e Volpino con opera costante
      e tenace in memoria delle parole del padre Giovanni che diceva: " le
      tribolazioni, le spine fanno gli uomini grandi. Figli imparate a penare…
      chè a godere farete presto ". 
      Il terreno fu solcato da sei fossi principali paralleli
      al mare e da sette perpendicolari a questi. In tutti, per i sedimenti
      depositati, possono scorrere le acque con relativa velocità e distribuita
      alle vicine piante sitibonde. 
      All’alba del 24 maggio 1915 cinque navi austriache
      bombardarono la costa tentando di distruggere il ponte in muratura della
      provinciale e quello ferroviario quando ancora la popolazione non sapeva
      della dichiarazione di guerra. Nessun danno alla ferrovia e lievi a quello
      viario ma raso al suolo il casello ferroviario con le prime vittime
      innocenti della 1° Guerra Mondiale. A Macerata si riteneva bombardato e
      distrutto tutto Porto Recanati, dopo di che furono organizzate squadre di
      volontari come vigilanti notturni sulla torre del castello di Federico II,
      fu inoltre impedita la pesca a vela e limitata al solo giorno quella delle
      sciabiche. Disoccupazione e miseria in gran parte delle famiglie anche per
      la mobilitazione dei cittadini nelle navi da guerra o inviati al fronte.
      Per tutto questo parve opportuno all’ingegnere adibire allo scavo di un
      fosso tutti i volenterosi cittadini dai piccoli ai vecchi. La retribuzione
      fu uguale per tutti e superiore alla paga normale. Una elemosina natalizia
      sarebbe stata umiliante. Quindi dal 15 al 24 dicembre 1915 fu scavato un
      fosso maggiore e più vicino al mare lungo quasi un chilometro e la sabbia
      gettata solamente a monte formò un secondo argine di difesa (definita
      trincea di guerra). 
      Nel marzo successivo venne piantato il solito canneto
      nella banchina verso mare e le altre piante abituali, nell’argine
      migliaia di talee di tamerici che non attecchirono mentre fra le canne
      verdeggiano pini, sanguinelle, olivelle ecc. ecc.. Fu sparso quasi in ogni
      punto della località un quintale di seme di ginepro croccolone che
      germoglia anche dopo 5 anni con accrescimento lentissimo, Solo alcuni
      esemplari sono cresciuti di 1,5 m. dopo 12 anni ( il maggior numero è
      ancora basso) grazie al fatto che hanno spinto le loro radici in sito
      umido e ne fu riprova il trapianto di alcuni esemplari lungo un fosso dove
      divennero presto alti, filosi e diritti. Il trapianto è possibile ovunque
      perché attecchisce facilmente anche senza zolla, resiste bene alla
      siccità anche se trapiantato grandicello. Prime bacche dopo 150 mesi e da
      queste ci si aspetta un ripopolamento spontaneo e più sollecito. 
      Il ginepro comune all’inizio della bonifica sembrava
      non volesse attecchire, ora con seme ottenuto in sito è presente ovunque
      nelle sabbie eccetto nei posti fronteggianti il mare per la poca
      resistenza ai venti salati, il ginepro croccolone invece non li teme
      diventando sentinella avanzata e resistente alla siccità spingendo
      profondamente le sue radici.
      
       
 
      Nel 1925 il capo del Governo S.E. Mussolini intese
      incoraggiare ed intensificare la più naturale e redditizia industria
      italiana, l’Agricoltura. Ingaggiò la battaglia del grano abbracciando
      tutto il complesso degli svariati prodotti agricoli, successivamente
      proclamò la Bonifica Integrale, volle che i campi e lo sport fossero
      sempre meglio coltivati. Fu allora che fra il coro di lodi un numero di
      incensatori e cortigiani approfittò per gridare spesso più forte in
      ragione diretta della propria ignoranza dimenticando che le esigenze dei
      campi e delle piante variano per ogni clima ed ambiente. Parlarono molti,
      troppi, di tutti i sistemi di irrigazione ciascuno doveva essere il sana
      totum ovunque. Non si badò alla convenienza economica ne alla mentalità
      dell’agricoltore diversa da quella dell’industriale, per cui una
      disillusione può ritardare per anni ed anni il vero remunerativo e
      duraturo progresso. 
      
      Tali indicazioni non lasciano indifferente lo
      sperimentatore che da 30 anni cerca di sfruttare al meglio il sole e l’acqua
      e volle provare l’irrigazione a pioggia e quella sotterranea. Per la
      prima con pochi tubi di ferro zincato mandò acqua in un serbatoio, posto
      alla piattaforma dell’aeromotore per farla riscaldare prima di
      adoperarla e per la seconda costruendo una condotta con mattoni a tre fori
      cementati dove far scorrere acqua a pressione. 
      Dopo vari esperimenti durati alcuni anni, l’irrigazione
      per assorbimento risulta la più indicata con minori pericoli per le
      piante dato che l’acqua attraversa il suolo riscaldandosi per giungere
      alle radici facendole sviluppare ed approfondire. Prove particolari furono
      fatte con il grano del quale si stimò una resa di 10 quintali per ettaro
      senza concimazione. 
      Gravi difficoltà di attecchimento di solito si
      incontrano nel trapianto dei pini, ma così no è stato per l’ing.
      Volpino che ottenne anzi un attecchimento rigoglioso del 93% anche se i
      pini non erano stati allevati con cure particolari che anzi davano
      risultati del 3-4%. 
      Come tutto questo? Con una semplice economica trovata
      (l’uovo di Colombo), togliendo tutta la sabbia dalle radici, si troncò
      il fittone e le radici più profonde lasciando le superficiali
      raccorciandole tutte meno tre, si distanziarono con un sasso le parti
      tagliate del fittone e si pose della terra vegetale per pane nella buca
      scavata. Dopo un anno dai tagli delle radici nuove ed abbondanti
      radichette vennero fuori. L’economicità del rimpianto fu individuata in
      bosco di pini tropo fitto che doveva essere diradato permettendo il
      recupero di piante fin da 25 cm. di diametro da abbattere. Ma anche qui il
      lavoro sarebbe stato vano se non ci fosse stata acqua abbondante che
      facilita l’emissione ed il rafforzamento delle radici. 
      Incoraggiato da questi buoni risultati e preso dall’idea
      di far verdeggiare la zona prima desolata, si provò con simili trapianti
      di ogni specie utilizzando i non pochi soggetti imperfettamente riusciti
      nei vivai privati. Fra questi due querce da sughero da sacrificare ad una
      strada pubblica che con lavoro di binde, carrucole e operai. Una di queste
      fa bella pompa di sé nelle sabbie. Anche qui fattore importante fu l’acqua
      che anche se adoperata per parecchi giorni di seguito non reca qui nelle
      sabbie danni che si verificherebbero in terreni ordinari dato che il
      sistema radicale è molto sviluppato in esteso in senso orizzontale. L’acqua
      opportunamente adoperata e non la sabbia fanno vivere le piante. 
      
      Fra le numerose specie di pini messe in prova attenzione
      maggiore è posta sul Marittimo che cresce più facilmente, si adatta
      meglio qui e resiste abbastanza bene ai venti salati. Ma già negli anni
      30 qualche campione presenta delle anomalie: la foglia ingiallisce, cade e
      la pianta qualche volta muore. L’istituto di Patologia vegetale di
      Verona escluse l’esistenza di crittogame o insetti micidiali senza poter
      indicare cause plausibili. 
      Il pino di Aleppo cresce molto bene se riparato dai
      venti che facilmente lo schiantano. L’ideale sembra essere quello da
      pinoli che cresce lento ma forte e resistente purché sia giunto all’altezza
      di tre metri, e produce buona legna e abbondante frutta da qualche anno
      vendute con profitto. 
      La semina può essere fatta in autunno o primavera,
      quest’ultima preferita per far si che le piantine nate dopo dodici
      giorni segue la vegetazione e sfugge alle sferzate del vento invernale
      trovandosi con radici profonde per l’estate. La semina va fatta a
      spaglio denso ed il seme poco interrato. È proprio in occasione della
      semina che un illustre Ispettore forestale volle assistere ad una semina
      partecipando con consigli attivamente a questa, ma dopo parecchi anni di
      quei pini sono vivi solo pochi esemplari. La teoria insegnava tali
      pratiche, l’esperienza locale indicava altre vie, prima fra tutte il
      troncare i rami laterali bassi, concentrata quindi la linfa verticalmente
      con sviluppo delle gemme terminali che sfuggono alle smerigliature radenti
      (vale più un pazzo in casa sua che cento savi in casa altrui, rida
      pure chi vuole). La tecnica agraria va conformata all’ambiente, si
      legge pertanto malvolentieri gli scritti di quei sapientoni, che tutto vogliono
      regimentare e generalizzare nella nostra bella Italia di suolo
      svariatissimo e che simili a se gli abitator produce. 
      
      Si sono sperimentati otto semi forniti dal Prof.
      Pirotta presi dal giardino del Kaiser prima della guerra che hanno dato
      esemplari bellissimi con rami flessibili ed aghi sottili. 
      Per fermare le sabbie si sono impiantate abbondanti e
      rigogliose siepi di rosmarino che periodicamente vanno degenerando ma che
      sono preziosissime per allevare fra esse i piccoli pini o ginepri. 
      Difficoltà si incontrano con l’Aylanthus (americano)
      che appena giunto a grandezza di 10-12 cm di diametro sembra colpito da
      malattia anche se ripullulano dalle radici propagandosi in quantità
      infestante e disordinata per seme ma mai diventano grandi. Che siano i
      pini a minacciarne l’esistenza?! 
      Le canne fra i tanti pregi hanno pure quello di formare
      nelle banchine e nei fossi una fitta rete di rizomi rassodanti gli argini
      e un discreto reddito considerevole perché sono necessarie per i vivai ed
      altrimenti se ne dovrebbero acquistare parecchie ogni anno. Stessa cosa
      dicasi per i vimini che si riproducono lungo i fossi solo se ben riparati
      dal salso ma non vivono a lungo. 
      In un avvallamento del terreno da dove era stata
      estratta molta sabbia per lavori summenzionati e che serviva come fossa di
      assorbimento e il mare libero di entrarvi rendeva impossibile ogni
      bonifica e non vi regnava che la cannuccia delle paludi, unico uso era la
      caccia. Facendo un cunicolo con tavole prima e tubi di cemento poi, questo
      servì egregiamente come scolo delle acque piovane che si richiudeva con
      le sabbie portate dalla onde. Il canale lungo una quarantina di metri fu
      rinnovato dopo 20 anni nel 1926. 
      Con tutti questi accorgimenti ed espedienti diversi, la
      estesa, brulla radura di 30 anni prima produce ora ricchezza crescente
      anche se gradatamente. Produce già legna, canne, vimini, semi e inoltre
      questo bosco non è fine a se stesso, ma come folto frangivento parallelo
      al mare lungo più di un chilometro e largo 150 metri porta vantaggi alle
      terre retrostanti di sua proprietà. Ecco il bosco protettore, veramente
      benefico. E considerando che buona parte delle coste marine formate
      esclusivamente da sabbie fossero in tal modo bonificate quale immenso
      vantaggio ne verrebbe alla Nazione?! 
      Ci si augura che il nuovo Ente Forestale possa
      estendere e sollecitare i lavori privati e pubblici alla luce di questa
      esperienza, là dove fosse possibile usufruire di acque abbondanti ed
      economiche per bonificare estesi banchi di sabbia. 
      Ma fermare le sabbie, riparare dai venti sarebbe stato
      lavoro inutile, se un più temibile essere, l’uomo, fosse stato libero
      di invadere questa zona. Quindi uno studio speciale fu necessario per
      recingere di siepi l’appezzamento, dato che il libero ingresso di
      uomini, donne e ragazzi aveva già portato danni rilevanti e diversi non
      potendo da profani rispettare quelle piccolissime piante ed erbe varie che
      erano in osservazione e studio. 
      Anche la gramigna speciale offerta dal prof. Borzì di
      Palermo usata come ferma sabbia venne distrutta per farne cibo per asini.
      Un villeggiante non trovò di meglio che tagliare una siepe di rosmarino
      fin alle radici ( che vendeva ad una rivenditrice di verdure). Un fante
      durante la guerra incaricato di costruire una trincea, pieno di zelo
      tagliò piante faticosamente allevate, ed un drappello della Milizia
      Territoriale in sorveglianza notturna costiera sentendo freddo bruciò per
      parecchie sere pini alti tre metri. 
      Il recinto pertanto era necessario e fu fatto con filo
      spinato su pali di cemento e in alcune parti con rete metallica. Ma non
      bastarono a fermare i ragazzi in cerca di nidi e frutta e pesca abusiva di
      anguille e tinche nel laghetto artificiale. Siepe senza spine sarebbe
      stata inutile e quindi le jucche che crescono bene furono le piante
      elette a tale scopo, attecchiscono tutte anche senza radici, provengono
      tutte dal giardino di Santa Maria in Potenza dove un vento le aveva
      abbattute. Portate sulle sabbie facilmente attecchirono e divennero
      robuste. Furono moltiplicate, servendosi di polloni e di pezzi di fusto,
      tanto da poter in tre ani recingere tutto i fronte verso il mare impedendo
      l’ingresso a chi non possiede buoni calzari…e questi solitamente
      mancano ai nostri sciabicotti, assidui ricercatori dei rifiuti del mare. Non
      è chiusura ottima non l’ideale ma l’unica resistente alla
      smerigliatura della sabbia. 
      Per il recinto lungo l’Aprutina più lontano dal mare
      dopo vari tentativi inutili fu individuata la maclura conosciuta 25
      anni prima al Lido di Venezia ed acquistata a Marano, rimasta per 15 anni
      sulla sabbia senza svilupparsi molto ma fu solo colpa della mancata
      potatura stagionale sviluppando poi più precocemente dei comuni spini da
      siepe ostacolando con le loro spine ladruncoli e malviventi. Fra questi
      furono collocati fichi d’India ed Agavi, i primi riprodotto dai
      pescatori che credendo di distruggerlo, ruppero le pale che toccando le
      sabbie emisero le radici e formarono infinite piantine. Le seconde seccano
      se il gelo le coglie con radici umide ma muore solo la parte sopra la
      terra, ma sorgono intorno molti figli come quando danno il fiore. 
      Uno dei tanti flagelli che ritardano la redenzione
      delle dune fu la enorme quantità di lumachelle che si riproducono con
      incredibile celerità ed entità. Queste divorano quasi tette le tenere
      erbe anche pseudo sparto e cardi. Per sfuggire i forti calori poi si
      incuneano e stringono a forma di grossi grappoli fra le ascelle dei teneri
      rami e più spesso intorno alle gemme terminali. I vari mezzi adoperati
      per diminuire la intensità e violenza di queste furono vani: calce viva
      sfiorita, solfato di rame e ferro al 20%, anitre domestiche, nemici
      endofagi e coleotteri vari. 
      I lumaconi senza guscio furono distrutti quasi
      completamente con un gruppo di galline faraone acquistate appositamente a
      Reggio Emilia. Ma la lotta alle lumachelle era impari e costosa data la
      immensa riproduzione e la grande zona da risanare, fino a che non balenò
      un’idea : cingere le piante con carta imbevuta da veleno. Fu provato il
      giorno successivo ottenendo un buon risultato dopo di che fu preparata una
      funicella imbevuta con lo stesso veleno chiamata Ferma Lumache 
      Essa le ferma sotto di essa e ne facilita la raccolta (interessante
      il metodo di studio frutto di osservazione e sperimentazione).
      Le lumachelle fermate furono numerate, riportate ai piedi della pianta per
      quattro volte e ad ogni operazione sempre meno salivano sulla pianta fino
      a non tentare più la salita, sparivano ma non se ne trovavano morte. In
      questo modo furono salvate molte piante. 
      Tale corda viene preparata con facilità e relativa
      economia, ma non se ne dà la ricetta perché il ricavato della vendita va
      alla Colonia degli Orfani di Guerra che ne fa la vendita. Il primo incasso
      è stato di qualche centinaia di lire inviate dal Principe Aldobrandini di
      Roma che lo ha usato e richiesto. Certo che, se si ottiene una fitta
      vegetazione, le lumachelle diminuiscono a vista d’occhio e prendono il
      loro posto le lumache mangerecce che recano danni minori e non si
      arrampicano sulle gemme alte. 
      Fu fatto un Coclearium recingendo con un canale di
      cemento dove scorre continuamente acqua ma non riuscì perché molte
      affogarono altre furono mangiate da talpe e topi. 
      Per rendere attraente il sito dopo il bosco che aveva
      come complemento la caccia, fu fatto un laghetto artificiale dove l’idea
      della pescicultura già sorta nel 1919 sperimentata in Potenza Picena
      nella colonia Zallocco sulla cava di prestito fatta dalle FFSS dove
      furono seminate centinaia di carpe e tinche. Queste ultime, si seppe poi,
      venivano vendute al mercato del paese vicino (pesca di frodo). Da detto
      laghetto l’ingegnere si fece portare carpe a specchio e tinche per
      colonizzare il laghetto della pineta e con le prime riuscì ad instaurare
      un rapporto per cui queste si avvicinavano a prendere il pane dalle stesse
      mani di chi lo offriva tanto da risultare meta gradita dei nipoti. 
      Di certo tali pesci ed altri presi dal Potenza si
      accrebbero in breve tempo. Alla prima vasca se ne aggiunse un’altra
      vicina più profonda per la caccia e per seminarvi altre carpe, tinche e
      mugelle e fare inoltre un allevamento di anatre. Dopo qualche anno attorno
      a queste si raccolgono discrete quantità di erba invernale per vacche
      lattifere. 
      
      L’acqua non è mai sufficiente come elemento
      necessarissimo per ottenere il bosco pertanto oltre ai numerosi fossi,
      i due laghetti artificiali e l’aeromotore si è voluto impiantare una
      noria (pompa) mossa da un asinello in concorrenza con l’energia
      elettrica e preferito ai motori a scoppio che possono sempre venire a
      meno. L’asino con il suo lento lavoro dà tempo alle acque fredde a
      riscaldarsi nel lungo canale di cemento. Questa servirà per far meglio
      attecchire una siepe di pini la quale poi dovrà riparare dal vento le uve
      da tavola e di una piccola vigna con 20 diverse qualità. 
      L’allevamento delle api fu tentato nel 1900
      inutilmente perché nella sabbia desertica e assolata non riparata da
      venti esse trovano l’ambiente inadatto, inoltre le arnie venivano rubate
      tanto che si ideò un alveare di otto famiglie con melario all’americana
      assicurato con muratura e tale sistema fu premiato con medaglia di bronzo
      all’esposizione di Macerata. Ora le condizioni sono decisamente diverse
      e si pensa che potrebbero essere allevate facilmente. 
      Si conclude: Ad
      ogni miglioramento agricolo, che si voglia intraprendere, le condizioni
      del sole e dell’acqua debbono essere assolutamente e ponderatamente
      studiate. 
      Segue una Rubrica delle specie vegetali sperimentate e
      coltivate nelle sabbie marine e il loro comportamento. Tali specie sono in
      numero di 184 ma non pago lo sperimentatore Ing. Volpino Volpini si
      rivolge al lettore chiedendo un regalo a questo: indicami una pianta da
      me non conosciuta e non sperimentata in queste sabbie; dammi qualche tuo
      consiglio, che risponda alle mie finalità…Grazie Anticipate.
      
       
      Con l’augurio che il suo grande amore ed
      interessamento per queste sabbie sia di stimolo agli altri per conservare
      le piante e migliorarle, ricordando il motto paterno che "volere è
      potere" .. fa presente per la storia che, ai sensi dell’art. 2 D.L.
      5 Gen. 1915 n° 60, veniva imposto nel 1919 a questo rimboschimento il VINCOLO
      DELLE PINETE. Va così riconosciuta l’utilità nazionale ed
      incoraggiata l’opera trentennale, che si è voluta assicurare per il
      futuro contro inconsulte distruzioni….
       
      
      ...e mai tanto desiderio fu disatteso cinquanta anni
      dopo. 
      
      
        
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      Ricordando Mario
      Moriconi  di
      
      Bruno Venusto 
      
      
      Testo dell’intervento di Bruno
      Venusto, letto in
      occasione dell’inaugurazione della mostra retrospettiva delle opere di
      Mario Moriconi, organizzata dal C.S.P. nel luglio 2000. 
      Non sono un critico d'arte perciò non mi permetto di
      dare un giudizio tecnico sull'opera pittorica del nostro Mario. Ma sono
      stato un Suo amico da tanto tempo e potrei essere tentato di dire: lo
      conoscevo bene. Questo concetto, quello cioè di conoscere bene un proprio
      simile o la persona che ti è accanto, è ancora più difficile che fare
      il critico. Infatti se "ogni mistero ha un segno che lo svela",
      l'animo umano è certamente il mistero più imperscrutabile che possa
      esistere. 
      Tuttavia esso può fornirci, a seconda dei
      comportamenti soggettivi, alcune indicazioni le quali dovrebbero
      contribuire a darci una idea ben precisa dei suoi valori spirituali.
      Quindi non credo di sbagliare se vi dico che Mario Moriconi era
      soprattutto dedizione ed attenzione verso "l’amico"; era
      essenzialmente comprensione e disponibilità all'ascolto dei problemi
      esistenziali altrui e metteva sempre il suo interlocutore al centro
      dell'universo mentre lui se ne restava in ombra; era indiscutibilmente un
      vero altruista nel senso più nobile della parola ed era irriducibilmente
      innamorato della natura della vita e della sua Porto Recanati. 
      In considerazione di questi pochi ma essenziali
      elementi, seppur brevemente esposti e per la ricca personalità dell'UOMO
      mi permetto di consigliare che a questa mostra il visitatore dovrebbe
      avvicinarsi con accuratezza ed attenzione cercando di vedere anche e
      soprattutto quello che non è disegnato nel quadro ma l'anima che l'opera
      stessa racchiude. Infatti come non vedere nel vecchio che aggiusta la rete
      anche il mare? Come non vedere nel Cristo anche tutta la passione di
      Nostro Signore? Ed infine come non vedere nei nudi anche tutto il colore
      ed il calore della vita? Colori e calore che non possono essere
      riproponibili da un pittore qualsiasi ma che invece brillano di luce
      propria e di calore umano nei disegni esposti. 
      In altre parole se noi diciamo soltanto che "La
      Punto" la fabbrica la FIAT non avremmo scoperto niente. Ma se invece
      diciamo che la "Punto" ha queste e quest’altre caratteristiche
      che la contraddistinguono da tutte le altre auto allora avremmo sì capito
      qualcosa. 
      Questa banale metafora vuole dire che noi ci troviamo
      di fronte ad un artista Portorecanatese del quale sottolineare soltanto
      l'indiscussa bravura e bellezza del "tratto" potrebbe essere
      riduttivo se nella Sua opera non vediamo quello che realmente contiene,
      cioè la spiritualità nei Suoi lavori suggerita dal sentimento che lo
      spingeva a creare: il desiderio e la capacità di trasmettere EMOZIONI. 
      Gli amici così ricordano Mario. Ma il CSP ha voluto
      questa mostra affinché tutta la cittadinanza possa vederlo per quello che
      realmente era: UN GRANDE ARTISTA. E per concludere vorrei dire che se è
      vero che dietro un "grande" UOMO c'è sempre una
      "grande" DONNA allora permettetemi di nominarla: MARCELLA sua
      moglie. Grazie a te Marcella ed ai tuoi figli per la vostra amicizia di
      sempre. 
      
        
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      Le opere
      pubbliche dal 1944 al 1956 (II^
      parte)  -  di Aldo Biagetti 
      All’inizio del 1951 il Comune, nell’intento di
      migliorare il decoro del paese, delibera (atto n. 54/2 del 5/3/1951) di
      completare la piantagione di alberi in alcune vie del paese (A. Caro e
      Pietro Micca), di attuare numerose aiuole da ambo i lati di Corso
      Matteotti e di collocare a dimora alberi, già di pronto effetto, in
      alcuni tratti del Lungomare e nelle vie S. Giovanni Bosco e Bramante.
       
      Poco dopo la delibera consiliare n. 32/3 del 9/4/1951
      si sofferma sui danni causati dalle mareggiate dell’8 e del 13 febbraio,
      purtroppo in concomitanza con delle piene straordinarie ed esondazioni del
      fiume Potenza e si elencano i danni causati da tali calamità. Vi è stata
      anche l’asportazione delle testate dei pennelli costruiti nel 1935 in
      difesa dell’abitato (sono 7, tutti realizzati con grosso pietrame
      contenuto e bloccato da robusti involucri di rete metallica). 
      Si è già richiesto - viene precisato nella delibera -
      l’intervento del Genio Civile di Macerata che ha presentato un progetto
      dell’importo di L.8.000.000, con il quarto della spesa a carico del
      Comune, pagabile in venti rate annuali senza interessi, a mente dei
      benefici previsti dall’art.14 della legge 14/7/1907. Con questi lavori -
      spiega il Sindaco - si ricostruiranno e miglioreranno i pennelli
      danneggiati e si realizzerà un braccio in blocchi di cemento verso mare
      al termine della sponda sinistra del Fiume Potenza, avendo così un molo
      idoneo per eventuali attracchi dei natanti. Per questi lavori, subito
      iniziati, si dovrà approvare anche una perizia suppletiva dell’importo
      di L. 1.800.000. 
      Non riguarda i lavori, è di un onere contenuto, ma è
      una delibera importante quella del 54/1951, n. 33, - Contributo alla Banda
      Cittadina per acquisto strumenti - "subordinandone" il pagamento
      alla costituzione in società della Banda stessa e chiedendo anche che la
      relativa quietanza venga firmata dal Cassiere e vistata dal Presidente
       
      La delibera n. 40/3 del 9/4/1951 tratta della relazione
      inviata dal Prof. Ing. Arch. Bruno Sbriccoli di Roma, incaricato della
      redazione del Piano Regolatore. Allegata ad un progetto di massima la
      detta relazione viene integralmente riportata nell’atto amministrativo e
      qui si stralcia:
       
      ... si è studiato a nord della città un piccolo
      porto .... ed impianti annessi ... di fronte al porto la Caserma della
      Guardia di Finanza.... e nelle zone adiacenti il Cantiere Navale,
      industrie e negozi inerenti alla pesca.
       
      Vicino il Villaggio dei Pescatori... la Pescheria non
      dovrà subire spostamenti. 
      A sud della città con lo spostamento del Cantiere
      Navale si prevede tutta una vasta zona a villini terminanti con Parco
      Pubblico verso il Fiume Potenza. 
      Tutte le attività sportive sono previste nel grande
      spazio verso il Fiume tra la Ferrovia ed il Corso Matteotti.
       
      Dopo il rinvio di un anno per non disturbare l’Anno
      Santo vengono indetti i Comizi Elettorali, si vota sempre con il
      maggioritario e vince nuovamente il Fronte di Unità Popolare (avrà 16
      consiglieri), all’opposizione la Democrazia Cristiana e partiti minori
      (4 consiglieri, che sono Luigi Rabuini e Bruno Tesei, repubblicani,
      Filippo Feliciotti, indipendente e Giacomo Grilli, democristiano).
       
      Con il Consiglio Comunale del 10/6/1951 vengono eletti:
       
      
        - Goffredo Jorini, Sindaco (con 19 voti su 20) 
        - Simone Giorgetti (socialista), Amilcare Caporalini,
        Valentino Scalabroni e Luciano Mastini (comunisti) assessori effettivi 
        - Mario Benedetti (indipendente) e Luigi Scarafoni
        (socialista) assessori supplenti
       
       
      Tra le prime delibere della nuova Amministrazione
      riportiamo:
       
      
        n. 25/3 e n.26/3 del 14/7/1951 = Esame dello Statuto
        presentato dalla Banda Cittadina e concessione di un contributo
        straordinario di £. 150.000 
        n. 29/3 del 14/7/1951 = Costruzione di una nuova
        Palestra, in Via Bramante, per una spesa di £. 3.200.000, essendo la
        Diaz sempre impegnata per gli allenamenti della nostra nazionale
        dilettanti di pugilato. 
        n. 54/6 del 6/10/51 = Monumento funebre ai Caduti in
        Mare - "... promuovere l’iniziativa di un monumento marmoreo, che
        ricordi i Caduti in mare, aprendo all’uopo una sottoscrizione" 
        n. 55/6 del 6/10/1951 = Costruzione linea elettrica
        Archi, Villa Papa e Banderuola, progettata insieme ai Comuni di Loreto e
        Recanati. Quota a ns/ carico £. 400.000.
       
       
      è l’inizio di numerosi interventi per dotare
      completamente di luce elettrica e di acqua potabile le frazioni e le case
      sparse in tutto il territorio comunale. I lavori verranno completati nel
      giro di pochissimi anni, anche con i rilevanti contributi dell’Ispettorato
      Agrario di Ancona.
       
      Tra le numerose delibere in merito si menziona solo
      quella del 10/3/1952, n.11/4, ove si approva il progetto dell’impianto
      elettrico in Contrada Montarice, per un importo di £. 3.300.000. Qui
      viene segnalato che l’UNES si accolla un onere di £. 750.000 e che per
      la metà della rimanente cifra verrà richiesto l’intervento dei
      proprietari interessati 
      Si provvede quindi al restauro delle Mura Castellane,
      all’asfaltatura di strade interne, previo ampliamento della rete idrica
      e delle condotte fognanti (il Centro Urbano si sta ora dilatando su Via
      Campanella, Via Loreto e Via Pastrengo) e con la delibera n. 62/8 del
      30/6/1952 ad un ulteriore intervento, di ampio respiro (£ 1.800.000),
      sull’argine sinistro del Fiume Potenza in esito ad una nuova alluvione
      (del 24 gennaio) e conseguente inondazione dei terreni circostanti. 
      Si costruiscono inoltre i gabinetti pubblici di Via
      Bramante (spesa £.1.500.000) e con delibera del 30/6/1952 si affida la
      pulizia e la custodia, ad un concessionario a seguito di appalto, per £.
      96.000 annue.
       
      Il Comune intanto aveva da tempo programmato una nuova
      Stagione Lirica che, pur assente Beniamino Gigli che si sta avvicinando
      alla fine di una grande carriera, affronta e gestisce con impegno ed
      entusiasmo, con il preciso obiettivo di qualificare la nostra Arena come
      polo di richiamo per gli appassionati di musica operistica e nel contempo
      quale motivo di spicco della stagione turistica. 
      Si mettono in scena, ai primi di agosto, per quattro
      sere ed intervallate, la Traviata e la Tosca; nell’opera di Verdi
      cantano Rosetta Noli ed il tenore greco Nicola Filacuridis, in quella di
      Puccini Simona dall’Argine, il baritono Giuseppe Taddei1, di
      nota valenza ed il tenore marchigiano Mario Binci che a metà dell’ultima
      recita perde completamente la voce. Il maestro Federico del Cupolo, che
      dirige tutte le serate, aveva previsto "l’incidente" che ha
      indubbiamente mortificato la recita finale della Stagione Operistica. Per
      la cronaca i cachet: Taddei £. 200.000 a sera, Rosetta Noli £. 140.000,
      Filacuridis e Dall’Argine £. 140.000 cadauno, il M.o Del Cupolo - che
      aveva diretto anche la stagione del 1950 - £. 340.000 complessive
      (compreso tre giorni di prove).
       
      Per il Comune, a parte l’esito finanziario non
      soddisfacente tale da consigliare l’abbandono di una forse troppo
      ambiziosa iniziativa, vi fu anche un momento difficile per fronteggiare
      parte dei pagamenti per il ritardato arrivo dei contributi regolarmente
      definiti. Vi fu allora l’intervento di Filippo Feliciotti, consigliere
      della minoranza, che con la sua firma di ricco possidente, e per questo
      molto apprezzata dall’Istituto Bancario, consentì di avallare una
      temporanea operazione in attesa dell’arrivo dei finanziamenti
      governativi.
       
      All’inizio del 1953 vengono eseguiti radicali
      restauri del primo piano del Castello Svevo, per una più razionale
      sistemazione degli Uffici Comunali e di parte del piano terra per ricavare
      un’ampia Sala Consigliare, il tutto per una spesa di £. 1.500.000. 
      In una riunione del 18/2/1953 i consiglieri esaminano a
      lungo un progetto generale di opere a difesa dell’abitato (importo di
      £. 60.000.000) ed un progetto di 1° stralcio di £. 14.000.000, redatti
      sempre dall’Ufficio del Genio Civile di Macerata, non essendo stato
      ancora istituito l’Ufficio del Genio Civile per le Opere Marittime (in
      Ancona), cui passerà fra qualche anno la specifica competenza per tale
      genere di lavori. Ogni decisione viene per il momento rinviata intendendo
      i consiglieri approfondire il dilemma: pennelli o scogliere, dilemma che
      sarà presto spazzato via per una categorica decisione governativa
      optante, sulla base di studi elaborati da luminari del campo, per le più
      costose scogliere.
       
      Nella riunione del 28/9/1953 il Comune affronta, sulla
      base di un progetto generale di £. 42.000.000 e di un progetto stralcio
      funzionale di £.16.900.000 (per il quale si da corso subito alle
      procedure per il finanziamento), il potenziamento del rifornimento idrico,
      mediante il sollevamento di acqua potabile dal pozzo trivellato in S.
      Maria in Potenza costruendo una idonea stazione di pompaggio a due piani,
      la sostituzione dei ponteggi provvisori sul fiume Potenza per il passaggio
      delle condotte con strutture in cemento armato e la realizzazione di un
      secondo pozzo di prelievo, per riserva.
       
      Contrastato e talvolta burrascoso il rapporto con il
      Provveditorato Regionale alle Opere Pubbliche di Ancona per ottenere la
      prescritta approvazione degli elaborati progettuali, si ritiene qui
      oltremodo elevata, addirittura abnorme, la previsione di una erogazione di
      acqua pari a litri 250 pro-capite, il Comune ne sostiene l’assoluta
      necessità e per il costante aumento della popolazione residente, su un
      centro urbano sempre più vasto, per l’esplosione già in atto del
      turismo balneare e per la previsione a lungo termine di anni di un’opera
      di tale rilevanza e costo. 
      Dopo diversi giorni di dispute ed a seguito del
      richiesto intervento di ingegneri del Genio Civile di Macerata, che in
      prima istanza avevano già approvato i progetti, si ottiene il sospirato
      nulla-osta. 
      Prima della fine dell’anno i lavori vengono
      consegnati , alla Ditta Giuseppe Papa di Loreto, per le opere murarie ed
      alla Ditta Elettromeccanica Picena per l’intero impianto di sollevamento
      questo aggiudicato con appalto concorso e dell’importo di £. 5.250.000.
       
      Dalla delibera n. 101/8 del 3/10/1953 rilevasi :
      ".. si decide di istallare i contatori con effetto dalla ultimazione
      dei lavori di costruzione dell’acquedotto sussidiario", ma solo
      alla fine del 1955 verranno istallati gli apparecchi misuratori della
      Ditta Siemens e terminerà in tale data il lungo periodo di libero
      consumo, soggetto ad un modesto canone forfettario, sorto sul termine
      della guerra in conseguenza di un momento difficile per il reperimento dei
      contatori.
       
      All’inizio del 1954 vi sono ancora problemi per una
      sensibile carenza di posti di lavoro e nella riunione del 18/1 (atto
      n.10/1) il Comune approva un progetto di lavori di manutenzione delle
      strade di campagna, per £.2.480.000, potrà usufruire di un concorso
      dello Stato per il 50% dell’importo, con la riserva che i lavori
      dovranno essere iniziati (come in effetti avverrà) subito, al massimo
      entro il 31 gennaio. 
      Con la delibera n. 14/1 del 18 gennaio si approva il
      progetto per la costruzione della Scuola Rurale di Montarice, che prevede
      un edificio nuovo con due aule e l’appartamento per l’insegnante, per
      una spesa complessiva di £. 6.700.000. Finanziamento (con il contributo
      dello Stato) e lavori avranno un iter molto rapido. I consiglieri, in
      diverse riunioni, esaminano a lungo vari studi per nuovi impianti di
      illuminazione per il Corso Matteotti, per Piazza Brancondi e per il Parco
      della Rimembranza visionano campioni in opera di vari tipi di diffusori ed
      impianti, si esprimono quindi per la soluzione più costosa (delibere n.
      46/3 e 50/5 del 54 e 46/3 del 30/4/1955) che prevede un onere di £.
      13.500.000 (£. 4.270.000 per opere murarie e £. 9.000.000 per gli
      impianti, in appalto concorso). Il nuovo impianto, simile a quelli già
      realizzati a Rimini. in Viale Vespucci ed a Montecatini, in Viale delle
      Terme, prevede la installazione di colonnine metalliche quadrangolari
      colorate, con due tubi fluorescenti da 40 watt ogni lato, schermati da
      particolari vetri in plexiglas, nella parte superiori e cavi interrati per
      le linea elettrica. I lavori vengono assegnati alla Ditta S.I.M.E.
      (Società Impianti Materiali Elettrici) di Ascoli Piceno.
      Contemporaneamente ai lavori di cui sopra vengono ristrutturate la Piazza
      Brancondi, con fontana rettangolare in botticino siciliano e getti
      luminosi d’acqua, con aiuole, panchine, calendario in fiori variabile
      secondo i giorni ed il Parco della Rimembranza con la sua fontana rotonda
      al centro. È questo un momento di passione generale per le fontane ed il
      Sindaco Perugini di Macerata avrà consensi per averne piazzate quattro
      nei punti nevralgici della città (anche davanti al Teatro Lauro Rossi) ed
      in Ancona davanti alla Stazione, quasi al centro della Piazza, viene
      realizzata un’imponente fontana luminosa.
       
      Con la delibera n. 110/8 del 31/10/1955 si definisce,
      con la T.I.M.O., dopo sei mesi di estenuanti trattative, l’automazione
      del servizio telefonico con il completo riordino e l’ampliamento della
      rete di distribuzione e con la realizzazione di una centrale automatica. 
      Condizioni a carico del Comune: contributo di £.
      300.000 (da versare a tre annualità)e cessione in uso, a titolo gratuito,
      alla T.I.M.O. di locali al piano terra del Castello Svevo per installare
      la Centrale e per il Posto Telefonico Pubblico. Con atto n. 109/10 vengono
      assegnati alla Ditta Giulietti Luigi i lavori di ampliamento e restauro
      della Palestra Diaz, per l’importo di £. 2.000.000, cifra che verrà
      poi rimborsata dal C.O.N.I. -
       
      Nel novembre del 1955 il Comune, per il sorgere di un
      nuovo quartiere nella zona sud dell’abitato, tra il Corso Matteotti, l’attuale
      Via De Gasperi e la Ferrovia amplia la rete fognante collocando anche un
      nuovo collettore a monte del rilevato stradale di Viale Europa, sfociante
      nel Fiume Potenza presso il ponte in ferro gettato dai genieri inglesi nel
      1944, durante l’avanzata e che presto verrà sostituito da quello
      esistente, ad opera del Genio Civile di Macerata. 
      Si dispone poi la costruzione di un capannone in
      muratura in Via degli Orti, da adibire a laboratorio della Scuola di
      Avviamento Professionale a tipo industriale maschile e femminile, per una
      spesa prevista di £.2.500.000, mentre per le aule si è provveduto per
      una temporanea sistemazione al piano terra del fabbricato giustamente
      denominato all’epoca Palazzo degli Studi, ora sede della Civica
      Amministrazione.
       
      Ritenuto di aver risolto tutti i principali problemi di
      prioritarie esigenze (quali acquedotto, fogne, strade, scuole, impianti di
      illuminazione) il Comune affronta - inverno ‘55/’56 - con propri mezzi
      di bilancio, un’ingente spesa per un’opera che considera di notevole
      richiamo e tale da qualificare l’intera cittadina ed il suo aspetto
      urbano. 
      È il Lungomare: mt. 700 di balaustra in travertino,
      mq. 4000 di pavimentazione con piastrelle di cemento colorato, tre
      piazzali belvedere aggettanti verso il mare, una quarantina di panchine e
      35 aiuole pure con alberi di medio fusto. Nel piazzale più a sud vengono
      collocati elementi tipici del mondo marinaro, come reti, ancore, ecc. con
      l’intento di piazzare al centro di un piccolo laghetto una lastra di
      granito con riportati in rilievo i nomi di tutti i pescatori morti in
      mare.
       
      Ma il Lungomare di Porto Recanati avrà vita breve:
      nemmeno quattro anni.
       
      
        
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    Lo
      scautismo a Porto Recanati: 35 anni di storia -
      (II^parte) 
      -  di Alberto Giattini 
      L'81 vedrà impegnati gli esploratori e le guide nel
      Campo del Dipartimento dell'Alto Adriatico al Lago di Bolsena, mentre
      nell'83 parteciperanno al 1° Campo Nazionale dell'Agesci al Lago di
      Barrea che si verificherà denso di esperienze e di scambi di idee. 
      L'83 è anche l'anno in cui don Giancarlo Manieri dopo
      13 anni di onorato servizio lascia per trasferirsi a Civitanova Marche,
      avvicendato da don Giovanni Molinari. 
      Quelli che nel '77 erano dei giovani Capi su cui pochi
      avrebbero scommesso, nell'85 si apprestano a festeggiare i 20 anni della
      fondazione ripetendo la bella esperienza del Campo di Gruppo. 
      Destinazione Lago di Suviana, scelto dopo aver vagliato
      varie possibilità, sull'Appenino Tosco-Emiliano. La presenza di una base
      scout di un gruppo di Bologna e un posto in riva al lago già collaudato
      da altri fanno propendere per questa scelta. I lupetti e le coccinelle si
      insediano in una scuola a poca distanza, dove in una cucina e un
      refettorio attrezzati sotto i tendoni Pina Zaccari con l'aiuto di due
      ragazze poi "reclutate" (Lorella Babini e Donatella Mancinelli)
      si destreggia tra i fornelli e i pentoloni con grande maestria. La cambusa
      era garantita dai coniugi Allegrini che con tutti e tre i figli al Campo
      non potevano fare diversamente che armare la roulotte e partire. La loro
      dimora diventò anche "l’angolo del pianto"dei malati che
      purtroppo, tra cento partecipanti non mancarono. Tra febbricole, un
      attacco di appendicite fortunatamente non operato ed un frattura di gomito
      ingessata, il bollettino sanitario fu molto vario. 
      Ma chi si distinse fu il vecchio pulmino FIAT 850
      dell'Oratorio, che nonostante fosse ormai in via di rottamazione, resse
      per tutto il Campo, anche se tentò pure il suicidio (cedette il freno a
      mano e si sgranò la marcia mentre era parcheggiato in pendenza, andando a
      finire sull'orlo di un baratro trattenuto solo dai rovi). Resse pure il
      viaggio di ritorno stracarico di materiale. Eroico. 
      L'esperienza maturata fino a quegli anni portò alcuni
      dei Capi ad assumere degli incarichi come quadri regionali e zonali. Nel
      1985 Rosina Zaccari fu eletta dall'assemblea regionale dei Capi delle
      Marche come Responsabile Regionale, altri erano impegnati nelle varie
      "pattuglie" (commissioni) regionali: Gianfranco Antognini,
      Teresa Zaccari e successivamente Amalia Crescenzi ed Aldo Sichetti. 
      Nel 1987 si realizza quello che per molte
      "generazioni" di scouts e di guide è stato un sogno, il
      Jamboree. Il termine viene da jam (marmellata in inglese) e boree (ragazzi
      in un idioma sudafricano), voluto personalmente dal fondatore dello
      scautismo, Lord Baden-Powell. Ebbene nel dicembre del 1987 Enrico
      Torregiani e Rosina Zaccari come Capo, quali rappresentanti del
      contingente italiano dell’Agesci, parteciparono al Jamboree in
      Australia. 
      Chi ha vissuto tale esperienza riferisce che viverla da
      ragazzo è molto più suggestivo, il mescolarsi di tante abitudini,
      usanze, culture, cucine e quant’altro dà l’idea di quanto ci si possa
      arricchire dallo scambio di informazioni, di idee e di esperienze, ma
      soprattutto di quanto ci si senta limitati dal non parlare neanche un po’
      una lingua straniera spesso vista come una mera materia scolastica. 
      Enrico confermò questa opinione, rispetto a Rosina che
      partecipando da adulta, con il peso delle responsabilità era un po’
      più legata agli aspetti organizzativi. La stessa interpretazione dello
      scautismo evidenziava la diversità di cultura ma inevitabilmente l’omogeneità
      di intenti. Dai giapponesi che effettuavano la cerimonia dell’alzabandiera
      tutte le mattine con i guanti bianchi ai tahitiani che avevano l’uniforme
      con il pareo, agli arabi che oltre all’immancabile turbante dell’uniforme
      non rinunciavano ai loro momenti di preghiera, per finire alle cerimonie
      religiose multiconfessionali. Per concludere, la calorosa ospitalità
      degli italiani emigrati in Australia. 
      Quell’anno, fu caratterizzato dalle attività
      internazionali (le uniche, fatta eccezione per l’ospitalità fatta ad un
      gruppo di scouts francesi nel 1982), in quanto Amalia Crescenzi portò
      alcune guide ad un Campo Nautico Europeo in Finlandia. Tra i ricordi
      impressi nella mente delle ragazze, oltre alle stesse sensazioni citate da
      chi ha partecipato al Jamboree, le lunghe giornate boreali di luglio
      (circa 4 ore di buio) e la temperatura marmorea dell’acqua dell’estate
      finlandese. 
      La storia del Gruppo Scout continua con altri eventi
      determinati dalla voglia di impegno degli adulti e dalla voglia di
      avventura dei ragazzi, che dal 1908 quando Baden-Powell decise di fare
      questa proposta per la prima volta a dei giovani, non smette ancora di
      esistere. 
      Altri momenti salienti si possono ricordare con il
      Campo Invernale del 1992 a Sant’Elia (Fabriano) quando nevicò per 48
      ore consecutive e tutti i partecipanti spalarono la neve con tutti gli
      strumenti possibili per una intera mattinata per liberare il pulmino fino
      alla strada e si tornò a casa nei tempi previsti solo per puro miracolo. 
      Nel 1993 i reparti maschile e femminile parteciparono
      al Campo Nazionale nautico al Lago di Bracciano; sempre in quell’anno i
      rovers effettuano una mitica Route (campo mobile) alle Cinque Terre,
      massacrante il percorso a piedi in 4 giorni da Monterosso a Porto Venere
      ma stupendo sotto il profilo paesaggistico e spirituale. 
      Il 1995 vide il Campo di Gruppo del 30° al Lago di
      Bolsena, maturato dopo una lunga preparazione. 
      
       Il resto è storia recente, il cambiamento della
      realtà giovanile e delle persone che hanno deciso di dedicarsi ai ragazzi
      comporta inevitabilmente di dovere aggiustare ogni tanto il tiro,
      modificando obiettivi e strategie ed a volte anche i mezzi. L’importante
      è che si continui nel diffondere gli ideali di pace, di fratellanza e di
      spiritualità pur nelle loro varie espressioni, considerando che fin dalle
      origini lo scautismo ha avuto caratteristiche di universalità a livello
      mondiale e tali valori hanno maggiore importanza oggi che il mondo è
      entrato praticamente nelle nostre case, sia materialmente che
      virtualmente. 
      Chi continua l’esperienza dello scautismo svolge
      sicuramente opera meritoria, perché dedicare il proprio tempo libero ai
      figli di altri, quando la società di oggi ci porta a sottrarne anche ai
      nostri è sicuramente da elogiare. 
      Questa raccolta di ricordi un po’ personali, perché
      di questo si tratta, è sicuramente parziale ed incompleta; il ruolo
      svolto dalla realtà scout a Porto Recanati merita sicuramente una
      maggiore attenzione, ed è per questo che chi scrive, con l’aiuto di chi
      vorrà, intende raccogliere le testimonianze in un libro già avviato ma
      che risulterebbe sicuramente incompleto se scritto a due mani, pur con i
      27 anni (su 35 di storia) passati con il fazzolettone al collo. 
      
        
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      Cecco Bonanotte, 
       scultore
      portorecanatese  - 
      di
      Nando Carotti 
      Tra i portorecanatesi che, residenti e non, hanno
      meritato la stima dei concittadini per quello che sono e per quello che
      fanno va annoverato Cecco Bonanotte, un artista che circostanze ed
      esigenze di vita e di lavoro hanno tenuto lontano dal luogo d’origine
      fin da quando era ragazzo. 
      Nato nel 1942 a Porto Recanati, infatti, già sedici
      anni dopo frequentava a Roma i corsi di scultura dell’Accademia di Belle
      Arti.. Erano anni, quelli intorno al ‘60, durante i quali nostri amici
      carissimi e colleghi sia nella pratica artistica vera e propria che nella
      docenza tentavano in ogni modo, peraltro non sempre riuscendovi, di far
      accettare tecniche e stili d’avanguardia al nostro mondo provinciale
      ancora piuttosto tradizionalistico; un mondo che capiva poco un linguaggio
      che distava anni-luce dal classico e che continuava ad essere riservato
      agli addetti ai lavori; linguaggio tanto più ostico quando si trattava
      della scultura che, non beneficiando del colore, doveva trovare il tono
      adatto alla penetrazione nelle menti e nei cuori di chi artista non era in
      forme nuove sì, ma non inconcepibili e nell’armonia dinamica delle
      composizioni. 
      Non so se Bonanotte abbia percorso quella strada
      faticosa arrancando e soffrendo come tanti artisti che allora ben
      conoscevo: a quei tempi non ne avevo mai visto le opere, ma adesso,
      fidandomi un poco del senno di poi, credo di non essere lontano dal vero;
      comunque ciò che scrivo è ciò che personalmente penso e deduco. Del
      resto che il lavoro di Bonanotte sia stato interessante fin dall’inizio
      è provato dai numerosi riconoscimenti, la borsa di studio, i premi, le
      commissioni, la cattedra di "modellato" nella citata Accademia
      ed al Liceo Artistico della Capitale, le importanti architetture e le
      sculture sistemate in sedi e monumenti prestigiosi, dal Museo Casa Natale
      di Michelangelo al Palazzo Madama, dal Vaticano al Giappone. 
      Da artista individuo nel dinamismo di figure e
      figurazioni della sua scultura due elementi fondamentali ricorrenti: l’eleganza
      plastica dei soggetti ridotti all’essenziale e la sofferenza. Il motivo,
      che ho già definito ricorrente, è una sorta di tendenza all’infinito
      espressa mediante voli, figurazioni aeree di non facile interpretazione ma
      emotivamente invitanti a concepire la felicità umana nello sforzo
      costante di infrangere vincoli naturali non più tollerabili ed
      arrampicarsi fin là dove dovrebbe trovarsi la libertà. Si tratta, a mio
      parere, di un motivo quasi ossessivo che diventa oggetto di ricerca di
      forme espressive essendo ormai scontato il soggetto; è l’uomo che si
      confronta con se stesso, sempre al cospetto di una specie di sole che non
      è un sole ma un mondo, "il" mondo, l’universo talvolta
      ingentilito dalla presenza di figure filiformi che di umano sembrano avere
      soltanto una specie di linea riassuntiva non diversamente attribuibile ma
      che non sono, come si usa dire, "ridotte all’osso" ma
      essenziali. Ricorre il confronto uomo-uccello, forse l’aspirazione dell’Artista
      a paragonare il desiderio dell’uomo con la reale libertà spaziale del
      volatile, invidiabile quantunque limitata dal calore del sole cui, come
      Icaro, non potrà nemmeno lui avvicinarsi mai, e dal vento, dalla
      tempesta, dalla natura stessa di un corpo comunque troppo pesante, anche
      quello dei "funamboli", per distaccarsi dalla terra. 
      A Porto Recanati Bonanotte sistema alcune delle sue
      opere meno conosciute, quelle che non compaiono nei cataloghi ufficiali
      che dell’Artista presentano i veri successi internazionali. Le porte
      bronzee della chiesetta "del Suffragio", nella zona centrale del
      corso Matteotti, sembrano, ma non lo sono, una prova per il portale della
      basilica di San Paolo in Roma, una struttura che non può non colpire l’attenzione
      del passante purché dotato di un minimo di spirito di osservazione e di
      curiosità anche quando sia privo di cultura artistica. Così la scultura
      che decora il centro della fontana di piazza Brancondi che, più delle
      altre, ripete il motivo ricorrente già accennato del
      "confronto", una sorta di firma depositata in pubblico dall’Artista
      alla presenza di un monumento di grande valore storico qual è il Castello
      Svevo. Così anche la decorazione dell’angolo della parete di fondo
      della sala al piano terra dell’istituto bancario che, affacciandosi anch’esso
      sul Corso, in pieno centro cittadino, costituisce un valido supporto per
      una di quelle rappresentazioni aeree leggerissime, estremamente dinamiche,
      che sembrano appartenere allo spirito dell’Artista senza riuscire,
      tuttavia, a soddisfarlo. Più severa, adatta alla sacralità della
      Cappella dedicata ai Caduti di tutte le guerre, quasi schematica, è l’opera
      eseguita in omaggio al bisogno istintivo e tradizionale di inchinarsi al
      sacrificio di uomini e donne quasi disarticolati, scheletriti, perché
      così lo scultore simboleggia la rinuncia, l’offerta estrema, ed eleva
      al cielo, cioè al massimo raggiungibile, quanto di più nobile esista
      nella storia di un popolo. Infine la piccola "tavola", a nostro
      giudizio di ottima fattura, apposta nella cappella funeraria della propria
      famiglia: modeste le dimensioni, come si conviene in uno spazio ristretto
      ove il decoro è dedica, non abbellimento né arricchimento, perché lo
      spazio è e deve rimanere d’Altri; significativo il disegno sintesi del
      "volo" ben più arduo cui l’Artista ha ispirato tante opere
      più importanti; bronzeo il colore qua e là dorato, non incupito né
      marcito come gli altri dal salmastro catturato dal vento. 
      In tutte queste opere c’è, a ben guardare senza
      ignorare la contemporaneità di tutte le altre (contemporaneità intesa
      naturalmente secondo il metro della storia dell’arte), di quelle
      distribuite nel mondo, il tema fisso di Bonanotte che ne fa il soggetto
      costante del proprio lavoro. Ci convinciamo, man mano che approfondiamo l’esame,
      che Bonanotte non si distacchi mai dalla terra; né quando commemora, come
      nel caso del famedio nel piccolo cimitero portorecanatese o nel portale
      della chiesetta lungo il Corso, o quando decora, come nell’interno della
      banca o al centro della fontana, o dedica, come nella cappella familiare. 
      Forse allora è consentito anche a noi il tentativo di
      spiccare il volo: la ricorrenza dei motivi dominanti della scultura di
      Cecco Bonanotte ci pare finisca per legare la sua città natale al resto
      del mondo in una identità di pensiero che è significato e testimonianza
      dello spirito dell’Artista. E vogliamo augurarci di avere visto giusto,
      che il nostro non sia soltanto un fantasioso volo pindarico che, in ogni
      caso, nulla toglierebbe alla validità dell’Artista. 
      
        
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      Album
      del Porto
       
      
      
        
          
           Foto n°16.  La busta paga di Giovanni Pierini,
          impiegato della Montecatini, nel settembre 1948. Il documento ci viene
          dal figlio Giovanni. 
          
          
        
          
          
          
          
          
          
         Foto n°17. Clara
        Riccetti e Franco Medori impegnati nella rivista musicale "La vera
        felicità", rappresentata nel 1939. Foto fornita da Bruno
        Benedetti. 
          
          
        
          
          
 
         Foto n°18.
        Particolare
        del portale in bronzo della chiesa del Suffragio a Porto Recanati, opera
        di Cecco Bonanotte. Foto di Luciano Monarca. 
          
          
        
          
          
          
          
         Foto n°19. Un’istantanea
        della torretta, capanno (ora abbattuto) per i bagni del vescovo
        di Loreto lungo il litorale a nord dell’incasato urbano (provinciale
        per Numana). Siamo negli anni Cinquanta. La foto è stata scattata dal
        colonnello Giacomo Cantalamessa e l’abbiamo avuta dalla moglie
        Giuseppina. 
          
        
         Foto n°20. I quattro
        fratelli Solazzi in partenza per l’Argentina dal porto di Genova, nel
        1946. Sono, da sinistra a destra: Pasquale, Marino, Vincenzo e
        Francesco. La foto è di proprietà di Vittorio Solazzi. 
          
        
         Foto n°21. Quinto
        Cavallari. La foto, di proprietà di Jole Fabbrizzi, risale
        probabilmente al 1914-15. 
         
       
      
        
      
        
          
          
          
          
          Foto n°22. La
        carovana del Giro d’Italia del 1946 mentre transita in Corso
        Matteotti. In basso la nota:  "Guida il gruppo Conti".
        
          
          
        
         Foto n°23. Pietro
        Alessandrini e il suo cane Bibì. Foto scattata a Pola il 12 ottobre
        1942. 
        
        
 
          
        
          
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      Monaldo
      Leopardi Gonfaloniere e le sue idee riformatrici 
      - 
      di Franco
      Foschi
       
      
      Circa trenta anni fa cominciai a raccogliere i
      documenti relativi all’attività di Monaldo Leopardi amministratore.
      Quelli in particolare che sono conservati presso l’Archivio Storico del
      Comune di Recanati, ma anche quelli che cortesemente la contessa Anna
      Leopardi mi ha consentito di consultare e quelli che ho potuto reperire in
      varii altri archivi pubblici e privati, fino a quelli che da ultimo è
      venuto raccogliendo il CNSL, su aspetti diversi della complessa attività
      di Monaldo. 
      Ho raccolto così un migliaio di manoscritti di
      Monaldo, quasi tutti inediti e mai consultati da alcuno, specie per quanto
      attiene ai periodi della Gestione del Comune. 
      Nel corso degli anni ho potuto studiare e pubblicare
      alcuni carteggi che mi erano sembrati significativi, ma solo ora ho potuto
      compiere uno spoglio delle carte relative agli anni tra il 1815-1826 e
      qualche loro seguito. 
      Le lettere (le minute), le memorie, i pareri, le note,
      gli avvisi, i manifesti, che mi sembrano degni di interesse e di
      pubblicazione, sono almeno 500. 
      Nel corso di una breve relazione non posso che fare una
      scelta esemplificativa di alcuni titoli indicativi delle idee e del lavoro
      svolto da Monaldo in quegli anni, con non poche incomprensioni e
      delusioni. Spero poi di poter pubblicare una raccolta dei documenti
      originali degni di attenzione e - forse - capaci di far luce sulle ancora
      generiche e stereotipate valutazioni sul Monaldo amministratore, che
      ricorrono in tutti gli scritti - pur pregevoli per alcuni aspetti - dei
      non molti che si sono occupati di questi argomenti senza però aver potuto
      leggere i molti carteggi e manoscritti che - soli - possono consentire un
      giudizio più equilibrato. 
      
      Subito dopo la sconfitta di Murat (3 maggio 1815), la
      S.Sede inviò Mons. Tommaso Bernetti, come Delegato, per riprendere
      possesso delle Provincie recuperate, ma per mancanza di ordini dalla Corte
      di Vienna dové lungamente fermarsi a Tolentino. 
      Di lì mandò a chiamare Monaldo Leopardi, che non
      conosceva. Ma gli aveva parlato di lui Carlo Antici. Con lettera del 9
      maggio gli affidò il Governo Provvisorio della sua patria, con il titolo
      di vice-Gerente, dandogli ampi poteri, ma pregandolo di tenere riservato l’incarico
      fino alla nomina ufficiale del Delegato Apostolico per la Marca maceratese,
      fermana e ascolana. Da una nota di Monaldo si rileva che in realtà la
      lettera è del 23 maggio. Monaldo, che non aveva voluto accettare l’incarico
      conferitogli in precedenza dal Governo Provvisorio Austriaco, prese atto
      della nomina. Ma Mons. Bernetti già l’8 di luglio era stato sostituito
      da Mons. Tiberi, che il 25 nominò Monaldo come membro della Congregazione
      Governativa di Macerata. 
      Appena un mese dopo il nostro Conte presentò le
      dimissioni al Segretario di Stato Card. Consalvi, adducendo ragioni di
      famiglia e di salute. Ma intanto allegava una memoria:
         
      
        
          1. Mons. Delegato non sembra penetrato dallo
          spirito di perdono, di conciliazione e di pace che saggiamente ispira
          il Governo. 
          Aver servito i passati governi è agli occhi suoi
          un delitto imperdonabile (inespiabile) e parla pubblicamente di tutti
          gli impiegati come di persone infami. Rispetta come un quinto
          Evangelio un libro datogli da qualche imprudente [...] Questa condotta
          aliena gli animi e [...] Per solo delitto di opinione ha risolutamente
          dimesso molti giudici di pace, Cancellieri e Segretari Comunali. 
          2. Il Delegato non è persuaso di dover lasciare
          provvisoriamente l’attuale impianto. Ma detesta tutti i funzionari
          di Prefettura, sostituendoli con uomini inabili. Il dimettere in
          questi momenti gli attuali capi di ufficio equivale allo spegnere il
          lume nel più buio della notte.
        
           
          3. Manca di ogni esperienza, di cognizioni e di
          talenti governativi. Si occupa di affari meschini e inconcludenti e
          manca di direzione e di sistema.
        
           
          4. Non conosce i limiti delle sue competenze.
        
           
         
       
      Con una lettera del 6 settembre il Card. Consalvi
      respinse le dimissioni di Monaldo. Ma l’11 settembre Monaldo tornò a
      scrivere per ribadire le sue preoccupazioni: «in un mese di
      amministrazione debole, inetta, sconnessa, si è rovinata l’opera di
      dieci secoli». 
      Il 13 ottobre poi, comunica che gli avvertimenti della
      Segreteria di Stato sono stati ignorati da Mons. Tiberi, persuaso solo
      della propria infallibilità. Così si è acquistato la contrarietà e il
      disprezzo di tutta la provincia. 
      Intanto «la provincia è ridotta a una selva
      formicolante di ladri e di assassini. Le stesse strade postali sono
      intransitabili dopo il tramonto del sole e ogni mattina si geme sui
      disordini accaduti la notte». Il 28 ottobre Monaldo confermò le
      dimissioni, sperando che «non vorrà condannarmi a comparire più
      lungamente il complice delle sue stravaganze (di Mons. Tiberi)».
      Finalmente, l’8 di novembre il Card. Consalvi accettò le dimissioni,
      lasciando intendere un nuovo incarico. Prese buona nota delle proposte
      allegate cui poi non dette seguito, o almeno così sembrava. 
      Delle proposte di riforma, mi limiterò solo a dare un
      elenco (più completo di quello che fu pubblicato nel 1940 da Massimo
      Petrocchi)
         
      
        
          
            Per la costituzione degli Atti dello Stato
            Civile. 
            Sulla carcerazione per causa civile («Il Debito
            non è un delitto e il debitore non deve trattarsi come uno
            scellerato») 
            Sul pignoramento dei mobili 
            Sulla citazione ovvero esecuzione personale
            (contro la pratica ‘barbara’ dell’usura e senza precetto di
            pignoramento). 
            Domicilio da eleggersi del creditore committente
            una esecuzione. 
            Corti di appello. 
            Amministrazioni delle comuni. 
            Tabacco. 
            Cancellieri del Censo e Conservatori dei Catasti. 
           
         
       
      Si tratta di innovazioni che - tutte - presto o tardi
      furono in seguito introdotte nel nuovo ordinamento. In questo clima, il 14
      novembre 1816 Monaldo fu nominato Gonfaloniere la prima volta
         
      
        
          chiamato dal voto dei miei concittadini e dalla
          Sanzione Sovrana alla rappresentanza di questa mia Patria avvegnaché
          sconfortato dalla infelicità de’ tempi e dalla scarsezza delle mie
          forze, ho accettato l’ufficio conferitomi di Gonfaloniere persuaso
          che al Principe ed alla Patria si deve quanto si ha [...] è mio primo
          dovere il recarmi personalmente a fare omaggio all’E.V.R. […] ed a
          raccomandarLe questa Comune che […] merita i Superiori riguardi, e
          che li esige per le sventurate combinazioni alle quali è sottoposta.
          Permettendomi però qualche giorno di ritardo per prendere una qualche
          tintura dei Pubblici affari onde coll’E.V.R. conferire
          opportunamente, premetto quest’atto di ossequioso e divoto rispetto
          [...]
        
           
          14 9bre [novembre] 1816
          Monaldo Leopardi Gonf.
        
           
          
         
       
      
      
      Il primo intervento del Gonfaloniere appena eletto fu
      la liberazione dei pescatori fatti schiavi, dei quali scrissi nel 1978
      Erano originariamente ben cinquantacinque e tra essi alcuni bambini di
      sei-otto anni. Quindici morirono in schiavitù. Ecco una lettera di
      Monaldo del 26 di novembre 1816 al Delegato Apostolico:
         
      
        
          
      
      i nativi di Porto di Recanati reduci dalla
          schiavitù di Algeri e di Tripoli in numero di 39 e le vedove e gli
          orfani di altri 14 infelici morti nella schiavitù, gementi tutti
          nella più desolante miseria, reclamano in nome della umanità la
          beneficenza del governo. Privi di qualunque sostanza e solamente
          capaci di guadagnarsi il pane col mestiere di pescatori, sono
          attualmente condannati all’ozio e per la stagione non propizia al
          loro mestiere e perché i Padroni di Barca sono attualmente provveduti
          di marinai e principalmente perché perdettero insieme colla libertà
          tutto il proprio capitale consistente in molti cappotti indispensabili
          in una professione che li espone dì e notte a tutte le intemperie
          dell’aria. Spinti pertanto dalla fame, vanno errando per le
          campagne, si pascono di ghiande e di radiche e invocano quella
          schiavitù che li teneva almeno un passo più lontano dalla morte.
        
           
          
      
      Un soccorso di dieci o dodici scudi per famiglia,
          ravviverebbe in qualche modo la loro speranza e sarebbe di piccolo
          aggravio al governo che se non potrà garantirli dal sommo dei mali,
          vorrà almeno generosamente accorrere a mitigarne le orribili
          conseguenze
        
           
         
       
      
      In data 20 gennaio 1817 il Gonfaloniere scrive al
      Cardinal Albani in Roma:
         
      
        
          
      
      Ho procurato di alleviare momentaneamente i loro
          mali, ma un soccorso capace di liberarneli non è nelle mie forze né
          in quelle della comune da me rappresentata. Inoltre, io credo che la
          schiavitù non possa riguardarsi come una calamità privata
          equiparabile all’incendio e alla grandine, ma che nascendo dallo
          stato di guerra in cui si trova il governo colle potenze infedeli,
          abbia il governo stesso un maggior titolo per sollevare quei miseri
          che ne furono disgraziatamente le vittime.
        
           
          
      
      Supplico pertanto umilmente l’Em. Vostra Rev.ma a
          degnarsi di accordare a questi infelici uno straordinario sussidio con
          cui possano almeno rivestirsi e riassumere il proprio faticoso
          mestiere.
        
           
          
      
      Conviene - risponde il Card. Albani - che la
          Congregazione locale esamini, proponga e trovi i mezzi per sollevare
          gli schiavi liberati, che debbono considerarsi come gli altri poveri.
          Ma - aggiunge - avendo quelli l’industria della pesca debbono in
          essa ancora occuparsi, né possono pretendere di essere mantenuti come
          gli inabili che hanno bisogno di particolare soccorso e di lavoro
          adatto alla loro situazione. Serva a Lei ciò di governo per animare
          codesta congregazione ad aver presenti anche gli individui su nominati
          e con parzialità di stima resto di V.S. Ill.ma servitore [...]
        
           
         
       
      
      Non pare si possa ignorare che Monaldo provvede
      silenziosamente di sua tasca come può e che nel contempo afferma due
      concetti tutt’altro che pacifici al suo tempo (e in gran parte ancora
      del nostro). Infatti l’idea che a chi è in condizioni di bisogno
      occorre dare ciò che serve per liberarlo e ricondurlo alla parità con
      gli altri, è concetto moderno contro le beneficenze che cronicizzano il
      bisogno.
         
      
      Coerente con tale impostazione e ancor più
      significativo in termini politici è il concetto di dipendenza della
      schiavitù da motivazioni generali di rapporti tra gli Stati, con
      conseguente dovere di intervento del Governo per una calamità che non
      può considerarsi come un fatto privato. In realtà era invece tuttora
      invalso l’uso di considerare la cattura come una disgrazia privata. In
      precedenza (1600) era addirittura considerata come la conseguenza della
      imprudenza dei pescatori che uscivano in mare malgrado preavvertiti del
      rischio delle vedette.
         
      
      Altro episodio significativo è la risposta data da
      Monaldo nel 1816 ai medici condotti:
         
      
        
          
      
      Sul ricorso avanzato alla Sacra Congregazione del
          Buon Governo dai medici condotti nella provincia della Marca, diretto
          ad ottenere l’esenzione dalle tasse comunitative del focatico e
          della guardia urbana, osservo primieramente che il principio su cui i
          Sig.ri medici appoggiano il loro reclamo è falso e sarebbe produttore
          di inammissibili assurdi. Se il medico non dovesse considerarsi come
          cittadino del luogo in cui esercita la sua professione e quindi non
          dovesse concorrere in modo alcuno a sostenere la sua parte dei pesi
          comuni, ne seguirebbe che il medico non fosse cittadino di nessun
          paese e che, solo in tutta la società, potesse rendersi estraneo alla
          medesima ed anzi, privilegiato sopra l’ordine naturale, godesse
          tutti i vantaggi sociali senza contribuire menomamente a procurarli
          (Recanati, 5 dicembre 1816)
        
           
          
         
       
      
      
      Era tempo di carestia, di fame e disoccupazione. 
      Il 23 dicembre1816 il Gonfaloniere chiedeva al Deputato
      alle provviste per la Congregazione di Pubblica Beneficienza, conte
      Benedetto Carradori (suo cugino), di voler provvedere con la più grande
      sollecitudine cinquemila libbre di canapa greggia e duecento libbre di
      lino rossetto greggio. 
      
      Con lettera del 13 Monaldo informava il Governatore di
      aver anche provveduto qualche quantità di lenticchie per i poveri vecchi
      ed inabili. 
      È interessante rilevare come il Gonfaloniere
      considerasse preferibile questo metodo, piuttosto che quello di mandare a
      ritirare la zuppa a distanza; i poveri preferiscono cuocersi le lenticchie
      nelle loro case - dice - e poi ciò diminuisce la pubblicità, il tumulto
      e i reclami di quelli che non hanno titolo ad essere sussidiati. 
      Inoltre annunciava di aver ordinato la perizia per i
      lavori della strada convenuta, che sarebbe stata fatta compatibilmente con
      la stagione e i mezzi disponibili. 
      
      Continuava intanto il gonfaloniere di Recanati ad
      impartire disposizioni per la filatura della canapa. 
      Al parroco di Castelnuovo raccomandava che il filo
      fosse molto fino, perché la tela potesse vendersi meglio, che il prezzo
      si tenesse basso, perché non insorgessero monopoli, che non fosse
      maggiore di sette baiocchi la libbra per il filato migliore e 4 baiocchi
      per le stoffe. Poi si sarebbe distribuito il filato riconsegnato alle
      tessitrici. 
      La sintesi più chiara del metodo seguito è però
      contenuta nella seguente lettera con cui il Conte Monaldo Leopardi, in
      data 20 gennaio 1817, ragguagliava il Gonfaloniere di Fermo che gliene
      aveva fatto richiesta. 
      
        
          
      
      Al S. Gonfal. di Fermo
        
           
          
      
      20 del 1817, Recanati
        
           
          
      
      […] mi sono limitato al minimo possibile nella
          distribuzione dei gratuiti soccorsi e ho calcolato che sia assai più
          provvido il fornire al popolo un più abbondante lavoro, onde possa
          senza pubblico aggravio e senza timento di inerzia provvedere ai
          propri bisogni.
        
           
          
      
      1. Fondo di opere e sussidio […] 
      2. Sussidio gratuito […] 
      3. Lavoro alle donne […] 
      4. Lavoro agli uomini […] 
          
         
       
        
      
      Cercando lavoro per alleviare le condizioni dei poveri,
      il Gonfaloniere inviò il 24 gennaio una lunga lettera all’intendente
      dell’appannaggio del Principe Eugenio, in Recanati, perché si
      compiacesse di ordinare «un qualche grandioso lavoro urbano o
      campestre». Proseguiva poi: «comprendo che gli affitti vigenti esimono
      gli intendenti del Principe dall’accudire alla coltivazione dei suoi
      latifondi, ma sono anche persuaso [...]» e suggeriva così la costruzione
      di nuove case rurali, la escavazione di pozzi, una gran piantagione di
      alberi, l’apertura di qualche nuova strada vicinale.
         
      
      Qualche giorno dopo, il 25 gennaio, Monaldo fu
      costretto a scrivere allo stesso Governatore, lamentandosi che gli avesse
      inviato alcuni contadini perché li provvedesse di grano.
         
      
        
          
      
      Forse hanno abusato del Suo nome - diceva - ma
          certo è che mai è mancato il grano in piazza, che anche al mercato
          di questo stesso giorno se ne vendeva; che i forni sono ben forniti,
          che i contadini vogliono avere il grano a buon prezzo e non a prezzo
          commerciale; ma - concludeva - bisogna essere forti contro le prime
          lagnanze, perché il popolo non si creda in diritto di esser
          provveduto a suo modo.
        
           
         
       
      
      Intanto, nel breve lasso di un mese, nell’ultimo
      scorcio del 1816, il nuovo Gonfaloniere si era occupato intensamente, come
      poi fece sempre, delle varie materie dell’attività quotidiana,
      scrivendo personalmente ogni nota. 
      Scrisse il regolamento orario per i «Servitori del
      Pubblico». 
      Non mancò, naturalmente, di mobilitare tutti sulla
      questione annosa della classificazione della Città di Recanati come capo
      distretto. Scrisse a Mons. Rivarola, protettore della Città, al
      Gonfaloniere di Fermo, perché in nome dell’antica amicizia intervenisse
      su Roma, al vescovo di Urbania Leonini, al marchese Girolamo Melchiorri e
      a Carlo Antici in Roma. 
      
      Intanto, poiché cresceva la miseria e la
      disoccupazione, scrisse al Gonfaloniere di Ancona, Clemente Ferrari (2
      dic. 1816). Questi aveva avuto l’appalto delle forniture alle truppe e
      Monaldo sperava di avere parte delle commesse (camicie e scarpe, ma il
      Ferrari forniva i viveri e non il vestiario, che invece era assegnato a
      Cesare Mancinelli di Ancona, su decisione di Roma). Scrisse quindi al
      Marchese Melchiorri a Roma, perché non si desse pace finché non avesse
      ottenuto un contratto subalterno.
         
      
      Se non si fosse potuto con le forniture militari, si
      rivolgesse agli ospedali, per assicurare la vendita di 10 o 20.000 braccia
      di tela casareccia. E inviò campioni di tele e prezzi. 
      Supplicò il Delegato Apostolico di consentire la
      somministrazione gratuita dei medicinali ai poveri, (informando che la
      faceva chiedendo i rimborsi). 
      Regolò la vendita del pane e del vino al Porto. 
      
      Infine Monaldo avviò col 1816 un rapporto annuale
      ragionato sul quadro territoriale dei prodotti e dei consumi nella Città
      di Recanati, che meriterebbe da solo di essere adeguatamente commentato,
      come fonte di documentazione preziosa che non era concepita come semplice
      adempimento a formali quesiti, ma come moderna rilevazione sulle tendenze
      evolutive delle attività produttive e dei cambiamenti in atto. Monaldo,
      sempre rigoroso nel metodo, ironicamente notava di invidiare
         
      
        
          
      
      quelle Comuni che hanno saputo evadere i superiori
          quesiti, senza esporre un calcolo cabalistico e privo di ogni base e
          verità di cui il rispetto che professo alle Autorità Superiori e il
          mio attaccamento al Governo non saprebbero farmi capace
        
           
         
       
      
      Nel 1817 assunse una interessante iniziativa,
      proponendo a molti Gonfalonieri di tutto lo Stato di firmare una petizione
      perché le disposizioni governative venissero inviate in copia non solo ai
      Governatori, ma anche ai Gonfalonieri, ad evitare che essi dovessero
      mescolarsi con la folla per leggerle sui muri. 
      La motivazione più vera si trova in una sua lettera
      del 10 marzo (1817) al Gonfaloniere di Macerata. Vale la pena di leggerne
      un brano: 
      
        
          
      
      è assurdo che un corpo abbia due capi e questo
          mostro partorirà sempre effetti perniciosi. Io poi sono intimamente
          persuaso che l’Emin.mo Segretario di Stato sia di questo medesimo
          sentimento e che abbia solo temporaneamente ceduto al sentimento dei
          vecchi cardinali, che vogliono i Governatori come vogliono i
          Parrucconi di cui ella è così ragionevolmente scontenta. Qua non si
          porta più di Rubboni né di Perucche ed io rinunzierei l’ufficio
          prima che espormi in quel buffo corredo alle risa dei miei
          concittadini. Se tutto soggiace a riforma e tutto al mondo è caduco,
          ai soli Perucconi si vorrà accordata l’immortalità?
        
           
          
         
       
        
      
      Malgrado le legittime speranze, la polizia fece sapere
      a Monaldo Leopardi che l’iniziativa non era gradita ed egli dovette
      sospendere la trasmissione dell’istanza, nella lusinga che comunque
      ormai il governo conosceva i desideri dei Comuni e che presto o tardi li
      avrebbe esauditi; non così per la abolizione dei Governatori, che anzi da
      loro ebbe non pochi guai.
         
      
      Nel 1817 Monaldo rilanciò la vaccinazione:
         
      
        
          
      
      questa provida e felicissima instituzione va
          giornalmente perdendo nella opinione del popolo, perché in verità i
          sintomi e gli effetti della inoculazione vaccina non sono più tanto
          innocenti e miti come lo erano nei primi anni in cui venne adottata.
          Io stesso, che primo in tutto lo stato Pontificio, feci inoculare il
          vaccino ai miei figli nel 1801, ho verificato l’esacerbamento
          graduato dei suoi effetti, sperimentandosi ben diversi negli altri
          figli che vi ho successivamente sottoposti, a segno che temerei di
          esporvene un altro. Io sospetto che questa dispiacevole varietà possa
          dedursi dal non venire il pus desunto ogni anno originalmente dalle
          vacche, ma passato già per molti anni dall’uomo all’uomo,
          tantoché essendosi a quest’ora soverchiamente umanizzato [...]
        
           
         
       
      
      Non starò a ripetere ciò che ho scritto tanti anni
      fa. Sottolineo però ancora la modernità della metodologia e certe
      attenzioni a bambini poveri e delle zone rurali, nonché le multe a chi si
      sottraeva senza motivo.
         
      
      Il 24 marzo 1817, con circolare della delegazione
      apostolica di Macerata ai signori Governatori, C. Nembrini metteva in
      guardia dal rischio che la carestia si abbinasse con le malattie
      epidemiche. 
      Si istituiva anche una commissione provinciale. Di essa
      facevano parte il Gonfaloniere, il primo medico e il chirurgo. In aprile
      la commissione fu costituita in Recanati. 
      Il 7 maggio il Gonfaloniere richiamava i medici all’obbligo
      di riferire due volte la settimana, e più esattamente il martedì e il
      venerdì, sui casi di malattia, dal momento che in provincia già
      serpeggiava il morbo petecchiale. 
      E purtroppo il morbo esplose anche in Recanati, più
      esattamente al Porto, il 10 di maggio. 
      In dettaglio ho documentato altrove l’andamento di
      questa epidemia e le misure adottate dal Gonfaloniere col risultato che a
      Recanati negli anni 1816-18 non aumentò la mortalità, malgrado il tifo
      petecchiale e la fame. 
      L’epidemia non cessò completamente nel 1817. Il 26
      febbraio 1818 il Gonfaloniere aveva comunicato che 
      
        
          
      
      il morbo epidemico petecchiale torna ad assumere la
          propria ferocia a danno degli abitanti del Porto [...], la di cui
          permanente miseria li sottopone a contrarlo e diffonderlo,
          rapidamente. Quella popolazione composta di oltre duemila individui,
          privi tutti di ogni mezzo di sussistenza, sarà fra poco distrutta ove
          non venga prontamente e solidamente soccorsa.
        
           
         
       
      
      E continuava chiedendo sovvenzioni per mantenere aperto
      l’ospedale dei contagiosi e separare gli infetti, poiché «è fermo
      parere dei medici che la nervosa dominante tuttora in questo posto
      degenererà in febbre decisa pestilenziale e attenterà la salute di tutta
      l’intera provincia». 
      Vi fu anche un tentativo di creare occasioni di lavoro.
      Ne trovo testimonianza in una lettera del 20 aprile, diretta dal
      Gonfaloniere al delegato amministrativo del Porto. Da essa si apprende che
      si era colà recato in visita il direttore di polizia Guido Mattioli, il
      quale aveva preso in considerazione l’ipotesi che il governo provvedesse
      e sostenesse barche da pesca. Ma Monaldo dubitava che ciò si potesse
      verificare e ipotizzava in alternativa qualche fabbrica stabile e adatta
      ai mezzi e alle capacità del popolo. Di fatto non si attuò né l’una
      né l’altra iniziativa. Purtroppo il governo non inviò neppure i
      promessi modesti sussidi per le minestre e con la metà di maggio il
      Gonfaloniere fu costretto a disporre la sospensione sia della
      concentrazione in ospedale dei malati sia della somministrazione delle
      minestre. 
      
      Decise però di continuare nella somministrazione
      gratuita dei medicinali. Per fortuna intanto i casi erano diventati meno
      numerosi. Ma neanche per i medicinali il governo - che aveva inizialmente
      autorizzato - mantenne la parola e non un baiocco fu rimborsato; i
      farmacisti al dicembre dell’anno 1818 erano ancora in attesa di ricevere
      i primi pagamenti, dopo 8 mesi.
         
      
      Altra preoccupazione dominante del Gonfaloniere fu
      quella delle scuole e della Cultura. 
      Nella lettera a Carlo Antici, scritta il 2 gennaio
      1817, Monaldo scrive: 
      
        
          
      
      A togliere questo paese dall’ultimo abbrutimento
          conviene assolutamente pensare a rianimare alquanto gli studi,
          giacché la cultura delle scienze e delle arti è misura della
          moralità e della prosperità sociale. Da Visconti saprete i passi che
          ho dati per ottenere i gesuiti e potete farvi comunicare più di
          quanto sappia io stesso.
        
           
          
      
      Poco spero di averli e nella mancanza di essi
          conviene che provveda il paese, giacché quello che non faremo da noi
          nessuno farà per noi. Fra le scuole dunque che abbiamo e quelle da
          aggiungere vorrei che qui fossero le seguenti:
        
           
          
            
              
      
      1 - alfabeto. 
      2 - calligrafia. 
      3 - aritmetica. 
      4 - grammatica. 
      5 - retorica. 
      6 - filosofia. 
      7 - diritto civile. 
      8 - medicina. 
      9 - chirurgia. 
      10 - ostetricia. 
             
           
          
      
      Seguiterò attentamente nella analisi dei miei
          castelli in aria. […]
        
           
          
      
      Tutta questa spesa non ammonterebbe a più che
          annui 448 scudi cioè meno di quello che Macerata domandava da noi
          [per ripristinare l’Università] e meno della metà di quanto si
          proponeva di carpirci in seguito. Vorrei che il governo ci donasse o
          cedesse in enfiteusi il convento di S. Agostino, nel quale vorrei
          raccogliere tutte le scuole e principiarvi un gabinetto fisico e un
          piccolo orto botanico e adattarvi camere anatomiche e a poco a poco
          praticarvi quanto facesse al caso.
        
           
         
       
      
      Scrive tra l’altro in data 13.1.1818:
         
      
        
          
      
      In ordine al mio progetto per attivare e
          resuscitare in qualche modo l’amore e la cultura delle scienze in
          questa città, tornerò in seguito e vi spedirò un piano più
          dettagliato
        
           
         
       
      
      La questione fu ripresa negli anni 1823-25. Una lettera
      di Carlo Antici del 17.7.1825 metteva il suggello alla questione, con una
      raccomandazione quasi profetica: che vengano depositati nell’Archivio
      comunale tutti i carteggi, i promemoria, i documenti comprovanti il grande
      lavoro svolto da Monaldo, perché, se i contemporanei non lo capiscono,
      almeno i posteri ne prendano atto. 
      
      Non si creda che fossero solo queste le iniziative del
      Gonfaloniere. 
      
        
          
      
      Nel 1817-18 dette avvio alla costruzione del nuovo
          cimitero e per questo cercò dapprima uno spazio nell’orto dei
          Passionisti, essendo allora il Convento restato deserto. 
      Per far fronte alle spese attivò provvisoriamente
          un dazio comunale sulla pesa e consumazione delle farine di grano e
          frumentone. 
      Cominciò nel 1817 la annosa pratica per ottenere
          che i Gesuiti tornassero a Recanati. 
      Stilò il regolamento per il Bollo di garanzia nei
          pesi e nelle misure, bilance e statere. 
      Regolò vecchie pendenze per il molino a grano
          detto dei Massari. 
      Chiese la collocazione di una brigata di 8
          Carabinieri a piedi e di 8 a cavallo. 
      Avviò il nuovo censimento della popolazione e i
          nuovi registri di Stato civile. 
      Fece approvare un progetto di ripresa della
          costruzione dei Carri e vetture. 
      Portò all’approvazione del Consiglio una tassa
          straordinaria di 10 bajocchi ogni 100 scudi di estimo catastale, per
          provvedere al restauro della strada per Osimo e Ancona e per dare
          lavoro a una "immensità" di operai e combattere la fame. 
      Creò un movimento tra tutti i Comuni perché lo
          Stato restituisse ad essi una rata Prediale del 1815, pretesa dagli
          austriaci. 
      Riordinò il dazio sul bestiame. 
      Costrinse il Delegato Apostolico a vietare che a
          coloro che non potevano pagare la tassa del focatico venissero
          pignorate e portate via le porte di casa. 
      Provvide a che gli abitanti del Porto non pagassero
          due volte il dazio sulle carni. 
      Estese a tutti i comuni l’azione per evitare che
          Macerata procedesse nella apertura di una Università a spese di tutta
          la provincia. 
      Dovette lungamente combattere per il tentativo di
          sottrarre il Castello e il territorio di Montefiore al territorio di
          Recanati (1818-22). Partendo dal ridicolo errore di considerare
          Montefiore come Comune, nella tabella di distrettualizzazione del
          1816, esso veniva aggregato a Montefano. Ne derivarono danni economici
          notevoli, nel riporto dei proventi e questo si ripercosse però fino
          al 1822 sui bilanci comunali. 
      Nel 1818 abolì il dazio comunale sui Posteggi e
          Scarichi e moderò il dazio sul bollo dei pesi e misure. 
      Regolamentò la professione dei raccoglitori di
          ferri, metalli vecchi e stracci. 
         
       
      
      Malgrado l’ottimo lavoro svolto, alla fine del
      mandato nel 1819, la nuova amministrazione approvò, senza aver sentito
      Monaldo, un conto da cui sarebbe risultato un netto disavanzo. Monaldo
      preparò una nuova memoria dalla quale risulta in dettaglio un largo
      avanzo di amministrazione. Ma il nuovo Gonfaloniere Politi, si dimise
      rapidamente e la relazione restò nel cassetto.
         
      
      Il Conte non rinunciò tuttavia ad inviare una nuova
      memoria al Card. Albani, Prefetto della Sacra Congregazione del Buon
      Governo. 
      Infine molte energie Monaldo dedicò a partire dal 1816
      alla annosa questione dei primi tentativi di distacco del Porto di
      Recanati. Su questo problema tornerò brevemente alla fine. 
      
      Al termine del mandato fece un nobile manifesto di
      saluto:
         
      
        
          
      
      Il Gonfaloniere
        
           
          
      
      Devo gratitudine, e onorevole testimonianza a tutti
          gli Impiegati Municipali, i quali con abilità, con onore, e con zelo
          hanno costantemente corrisposto ai rispettivi doveri, e mi hanno
          secondato utilmente nel disimpegno dei pubblici affari. Devo stima
          riconoscenza ed affetti a tutti i Cittadini di ogni ceto e di ogni
          ordine, perché sempre conformi a se stessi, hanno osservate le leggi,
          mantenuta la tranquillità, rispettata la Rappresentanza, e compatita
          amorevolmente l’imperizia del Magistrato. […] Ho cercato di
          deporre religiosamente ogni riguardo ed interesse privato, di
          considerarmi Padre, e Fratello di tutti questi Abitanti, di prestarmi
          all’utile e al desiderio di tutti, di conciliarne gli animi, e di
          tutelarne i diritti. Ho procurato di sostenere le ragioni della Patria
          […]. Ho atteso a mantenere in credito e in equilibrio la finanza del
          pubblico, spendendone il denaro senza profusione, e risparmiandolo
          senza viltà. […] Ho abborrito le vie del rigore, e resa la forza
          insensibile […] avrei voluto insomma che la mia Amministrazione
          Tutoria e Paterna concorresse al vantaggio e alla soddisfazione di
          tutti, ma pur troppo mi sento lontano dall’avere raggiunto il mio
          scopo.
        
           
          
         
       
        
      
      Nel 1820 fu finalmente chiesto a Monaldo di tornare ad
      assumere l’incarico di Gonfaloniere, ma egli rinunciò o fu indotto a
      rinunciare. Fu invece di nuovo eletto nel 1823 e restò in carica fino all’inizio
      del 1826 (biennio 1824-25). Furono anni meno drammatici per certi aspetti.
      Monaldo si dedicò con lo stesso metodo all’ammodernamento dell’amministrazione
      e della città. Ma il suo lavoro era costantemente turbato da un lato per
      l’angoscia dei persistenti tentativi di smembrare il territorio di
      Recanati e dall’altro lato dalla ricerca di nuove ragioni di vita per la
      popolazione. Ricerca contrastata da molti.
         
      
      Tra i molti temi affrontati in questo periodo
      ricorderò solo:
         
      
        
          
            
      
      la realizzazione della nuova illuminazione
            notturna della città e il suo appalto, anche a garanzia dell’ordine
            pubblico e della sicurezza della popolazione; 
      la definizione di antiche pendenze sulla
            privativa per il sale, la nuova regolamentazione per il suo appalto
            e i criteri di fissazione dei prezzi; 
      il rilancio della vaccinazione contro il vaiolo; 
      la grande lungimiranza con cui provvide a coprire
            le condotte mediche, con concorsi che portarono tra l’altro alla
            nomina di Francesco Puccinotti che poi fu eletto professore di
            Patologia Medica a Macerata e che divenne celebrato docente a
            Bologna e a Siena e fondatore della Medicina sociale moderna, oltre
            che amico di Giacomo Leopardi. Bisogna dire ancora che Monaldo non
            aveva rinunciato al vecchio disegno di una università e quindi
            pensava a medici che avessero anche ruolo di insegnamento; 
      la rilevazione razionale dello stato della
            popolazione (16431 al 30 maggio 1823); 
      il quadro statistico annuale dei prodotti
            territoriali; 
      il regolamento per il Monte di Pietà e certi
            particolari accorgimenti perché gli oggetti di valore storico non
            andassero dispersi. Prevedeva tra l’altro la riduzione del premio
            percepito dal Monte dal 6 al 2 per cento; 
      il nuovo regolamento per il dazio sul mosto e il
            vino imbottato, ivi compresa la nuova misurazione delle botti; 
      avendo ottenuto un aumento di altre rendite
            comunali, per l’anno 1825 i cittadini furono sollevatati dalla
            tassa del focatico (definita in qualche modo arbitraria, giacché
            non potendo percuotere nessuna proprietà censita dipende dall’opinione
            in cui sta la dovizia dei contribuenti, opinione che non di rado è
            fallace e quindi cagiona scontentezza e lamenti. Anche per questo
            Monaldo promosse una riforma del sistema); 
      il regolamento per il dazio dell’affida (o
            conta-assegna) del bestiame; 
      il regolamento per la Chiesa di S. Vito, le
            Congregazioni in essa funzionanti, le Confraternite, le Processioni
            del Venerdì Santo e di S. Vito; 
      la rinnovata richiesta al generale degli
            Agostiniani per riaprire lo studio e il Convento di Recanati; 
      lo scambio continuo di corrispondenza,
            informazioni, consigli, proposte, con i Gonfalonieri delle Marche e
            di altre regioni; 
      le lettere e delegazioni inviate per la elezione
            di Papa Leone XII (1823) 
      la costruzione del faro del Porto per i
            pescatori. 
           
         
       
      
      In mezzo ad argomenti di grande rilievo, Monaldo non
      mancò di interessarsi di argomenti di costume, pur importanti dal punto
      di vista sociale. Citerò per tutti la simpatica nota relativa al lusso e
      ai regali tra i fidanzati, che erano regali di discreto valore come
      fazzoletti ricamati, zinali, coralli, anelli, corone, di 20-30 scudi.
      Quando si rompeva il fidanzamento nascevano gravi dissapori. Le cose
      valevano di meno e i giovanotti volevano la restituzione in denaro. Ne
      nascevano dissidi, cause e fatti di sangue. Monaldo proponeva una legge
      secondo cui i doni fatti dal fidanzato non dovessero restituirsi o lo
      dovessero solo in natura.
         
      
      Per il funzionamento dei Consigli Comunali Monaldo nel
      1823 rilanciò la multa di 3 scudi per gli assenti ingiustificati, che gli
      era stato già concesso di applicare dal 1816 al 1818. Inoltre ripristinò
      l’uso di indire consigli almeno tre giorni prima e di esporre in
      Segreteria le proposte perché venissero consultate preventivamente da
      tutti. L’anziano (Girolamo Melchiorri) ricorse e la Delegazione
      Apostolica ostacolò duramente la prassi adottata da Monaldo. E lui
      ricorse al Segretario di Stato (4 agosto 1823) dicendo che non riconosceva
      alla Delegazione Apostolica il potere di fare leggi e molto meno di farne
      solo per lui, con lettera singolare e su istanza di un solo cittadino
      scontento.
         
      
      Si occupò pure della raccolta e trasmissione delle
      mercuriali. 
      Regolò la macellazione del bestiame, la vendita delle
      carni e dei pesci, l’igiene e la profilassi veterinaria, la lotta alle
      epizoozie e alle interiora bovine. 
      Naturalmente connesso ai consumi era il dazio sulle
      carni, la questione del "quinto quarto" e delle parti escluse
      dal dazio. 
      
      Analogo problema che regolò è quello del carniccio
      delle pelli (per la colla dei pittori) della segatura delle botteghe dei
      calzolai (per ingrasso degli ulivi), dell’ugnola (unghie e altre
      frattaglie non commestibili delle bestie) che si vendeva alla fiera di
      Senigallia, o in Romagna per ingrasso dei canapeti, dei ritagli o segatura
      dei corni per i pettini, sempre per concime.
         
      
      Ancora si occupò del dazio sui bachi da seta.
         
      
      In certe memorie dettagliate, si trova l’interesse a
      nuovi modi di produzione ad es. sul modo di fermentazione del vino.
         
      
      Il naufragio di 2 paranze del Porto il 20 maggio 1823
      dette luogo all’annegamento di 13 marinai e risollevò la questione
      della miseria generale dei pescatori, cui Monaldo cercò di dare aiuto.
         
      
      I rapporti politici che il Gonfaloniere stilava
      personalmente sarebbero fonte di numerose notizie e altrettante proposte
      di innovazione. 
      Un rapporto alla Deleg. Apostolica è dedicato (10 nov.
      1824) alla conciliazione delle liti come "ufficio di carità proprio
      di ogni uomo da bene. Se non venne mai interdetto a un galantuomo privato,
      non potrà interdirsi a un magistrato e rappresentante del popolo, che
      anzi dovrà lodarsi quando procura di evitare litigi tra i suoi
      amministratori". In risposta alle "censure" rivoltegli
      scriveva: 
      
        
          
      
      questa magistratura non ha mai preteso di erigersi
          a Tribunale e conosce bene che il proferir giudizio e sentenze sulle
          cause spetta alla Autorità giudiziaria, ma non perciò è vietato al
          Magistrato il procurare di conciliare amichevolmentele questioni che
          insorgono tra i cittadini
        
           
         
       
      
      Tornò ad insistere per il ritorno dei Gesuiti a
      Recanati e per questo rispose negativamente all’ospedale S. Lucia che
      chiedeva di avere in concessione il fabbricato di S. Vito e la chiesa .
         
      
      Tra le memorie e proposte di interpretazione delle
      disposizioni vigenti non posso tacere della supplica avanzata per l’interpretazione
      della Riforma di Procedura all’Art. 717, che consentiva che per ogni
      azione esecutiva non si potessero prendere in pegno il letto, le vesti
      necessarie all’uso quotidiano del debitore e della sua famiglia, i
      viveri bastanti per 10 giorni, gli arnesi di lavoro, i bovi aratori e gli
      strumenti agricoli. In tre pagine che sono un documento umanissimo sulla
      vita quotidiana della più parte della popolazione, Monaldo spiegava e
      chiedeva che si desse disposizione soprattutto che "fosse esente da
      qualunque pignorazione un solo caldaio di rame per ogni famiglia,
      come strumento necessario alla povera alimentazione familiare di ogni
      giorno.
         
      
      Dettò precise disposizioni perché gli abitanti del
      Porto nel proporre istanze davanti al Gonfaloniere per le cause civili di
      sua competenza potessero evitare ogni sorta di spesa ed anche quella di
      doversi recare di persona all’ufficio municipale.
         
      
      Si riferiva in particolare al motu proprio con cui si
      attribuiva ai Gonfalonieri la facoltà di giudicare le cause non eccedenti
      la somma di 5 scudi. Monaldo si fece un personale dettagliatissimo
      regolamento provvisorio che trasmise anche ad altri Gonfalonieri che gli
      chiedevano consiglio.
         
      
      Monaldo si occupò anche dello Istituto Provinciale
      degli esposti e ne difese i diritti. 
      In vista dell’anno 1826, anno del giubileo, si
      preoccupò persino della compatibilità con la stagione teatrale e il
      carnevale. Ma soprattutto scrisse una preghiera che avrebbe potuto essere
      usata anche per il 2000! 
      
      Curò in particolare l’ordine pubblico, il
      potenziamento delle caserme e dei controlli nelle campagne.
         
      
      Nell’anno 1823 aveva scritto in una lettera
      (inedita): «è nella persuasione di tutti che il servizio della Posta sia
      regolato assai male»; e proseguiva specificando che alcuni inconvenienti
      sono derivati da errori singoli, ma i più sono necessari a conseguenza
      dei regolamenti sbagliati. Così - ad esempio - le lettere che partivano
      da Roma per Recanati o viceversa al quindici del mese, il 16 erano a
      Spoleto e il 17 a destinazione. Invece le lettere scritte da Spoleto
      giungevano solo 6 giorni dopo, con il corriere successivo e così le
      lettere da Tolentino (a 24 miglia da Recanati) impiegavano 4 giorni in
      più di quelle da Roma (170 miglia); e ciò per tutti i Paesi che - pur
      essendo sulla strada della corriera - erano solo sede di ufficio di
      distribuzione e non di direzione o sottodirezione. Il buon Monaldo non si
      capacitava che, essendo Recanati posto tra Loreto e Macerata, le lettere
      scritte da queste città verso Pesaro e Bologna giungevano lo stesso
      giorno, mentre quelle da Recanati dovevano prima fermarsi chissà dove. Ma
      il male peggiore doveva essere il fatto che gli uffici dovevano applicare
      la tassa postale sulla base del peso del plico e delle distanze da
      percorrere, costringendo così il direttore dell’ufficio e il suo
      compagno ad un complesso calcolo delle distanze e dei pesi per scrivere
      poi su ogni lettera "la sua condanna" e cioè il valore della
      tassa.
         
      
      Monaldo Leopardi propone allora che il servizio venga
      ricondotto al sistema del 1808: il prezzo di due baiocchi applicato
      indistintamente a tutte le lettere renderebbe l’amministrazione
      "alla sua antica semplicità", diminuirebbe gli impiegati,
      compenserebbe l’erario e soddisferebbe i cittadini "levando di
      mezzo tanti intralci e complicazioni con le quali una finanza irrequieta
      ha deturpato una delle più belle istituzioni sociali"
         
      
      Dopo questo fiero attacco alla burocrazia Monaldo
      conclude, proponendo nientemeno quello che noi chiamiamo "il
      biglietto postale" con sopra stampato il bollo da vendere al prezzo
      equivalente cosicché «le lettere scritte con questa carta sono franche
      di loro natura, perché hanno già pagato alla finanza il prezzo del loro
      corso e anche i viaggiatori possono portarle liberamente; l’erario non
      perde e i sudditi sono lieti di queste oneste facilitazioni».
         
      
      Non poche note riguardano usi e costumi. Tra questi
      citerò quella sulla caccia e la pesca.
         
      
      Promosse una campagna tra i Gonfalonieri della regione
      per uniformare le istruzioni ai periti stimatori delle terre, affinché i
      proprietari delle Marche non dovessero essere gravati più di quelli della
      Romagna (colonie parziarie)
         
      
      Si occupò di tutti i particolari del funzionamento del
      vecchio teatro, mentre avviava e sosteneva la costruzione del nuovo, in
      mezzo a vertenze ed ostacoli di ogni tipo.
         
      
      Si preoccupò di regolare le distanze delle case dalle
      nuove piantagioni di alberi (23 aprile 1824), definendo per ogni specie di
      albero le distanze necessarie.
         
      
      Interessante è ancora la attenzione che Monaldo portò
      sempre alle Poste e al funzionamento degli uffici fin dal 1816. Dispose
      tra l’altro che per tutti i giorni dell’anno restasse aperto l’ufficio,
      salvo le maggiori solennità (purché non cadesse in esse la partenza o l’arrivo
      dei corrieri ordinari). Spedizione e destinazione delle corrispondenze
      dovevano avvenire immediatamente. Ma nell’anno 1823 avanzò più serie
      proposte alla Delegazione Apostolica.
         
      
      Non posso poi tacere di quell’interessante relazione
      del 1825 sulle industrie manifatturiere dei pettini di corno che è un
      esempio raro di documentazione sulla protoindustria: «In questo comune
      non esiste alcuna fabrica in grande, che pure sarebbe necessaria per
      impiegare tanto popolo mancante di lavoro e riuscirebbe felicemente
      perché i viveri e la mano d’opera vi sono a buon mercato». Tuttavia
      veniva in breve segnalata l’esistenza di: 1. una piccola fabbrica di
      «stoviglie e vasellame ordinario di coccio»; 2. le coperte di lenzi o
      stracci lavorate «in dettaglio dal basso popolo»: nelle singole case si
      faceva filatura e tessitura e soprattutto tele che venivano smerciate a
      Roma; 3. «molte botteghe o piccole fabbriche di petttini da testa ed
      altri lavori di corno».
         
      
      Si apprende così che questa lavorazione era fiorente e
      in particolare che i pettini che si vendevano a La Spezia e che si
      riteneva fossero importati dalla Francia erano in realtà lavorati a
      Recanati. Rinvio molti particolari alla Nota che pubblicai su «Proposte e
      Ricerche» nel 1983 (n. 10).
         
      
      Ma la questione che occupò i giorni e le notti del
      Gonfaloniere dal 1816 al 1826, fu quella dei tentativi di separare il
      Porto dalla antica città. Al primitivo tentativo di fare del Porto un
      appodiato, Monaldo aveva già risposto nel 1818 con l’adozione di un
      "Regolamento provvisorio per l’Amministrazione del Porto", che
      non fu mai approvato dalle Autorità superiori, ma gli consentì di
      continuare così fino al 1823.
         
      Monaldo Leopardi, appena tornato Gonfaloniere, nel
      1823, chiede al Delegato apostolico cosa deve fare, rilevando che - per
      quanto imperfetto - il suo regolamento -  «conosciuto dalla Delegazione
      apostolica» - aveva consentito di operare «passabilmente» fino al 1821.
         
      
        
          
      
      Allora venne abolito, ma non essendosi sostituito
          altro metodo migliore, tutto va colaggiù in disordine e giace in
          perfetta anarchia […]. Per conseguenza quel popolo vive come vuole,
          abbandonato a se stesso ed alla provvidenza e se non fosse un popolo
          buonissimo e docilissimo, andrebbe incontro ai più gravi
          inconvenienti. […] Duemila abitanti vivono in quel luogo come
          vivrebbe un gregge errante senza guida e senza Pastore.
        
           
         
       
      
      Il fuoco covava sotto la cenere. Ed ecco che il 16 di
      agosto del 1825 il Gonfaloniere di Recanati, sempre Monaldo Leopardi,
      dovette inviare alla Commissione incaricata della nuova classificazione
      dei Comuni una lunga e dettagliata memoria, per controbattere la pretesa
      della «Coamministrazione» lauretana di scorporare da Recanati la
      contrada degli Scossicci, che diventerà in seguito parte integrante del
      nuovo Comune di Porto Recanati. Questa memoria, che ho pubblicato per
      intero, poiché era inedita1, conferma ancora una volta quanto
      la storia dell’autonomia del Porto sia indivisibile dalle rivendicazioni
      di Loreto e dalla decadenza di Recanati, l’antica patria comune, proprio
      come aveva previsto Monaldo, il quale - piaccia o no la sua coerenza -
      difese fin che poté l’unità del territorio.
         
      
      Alla fine dell’intenso periodo di lavoro condotto in
      quegli anni, due problemi avvelenarono i giorni di questo amministratore
      avveduto, lungimirante ed equo più di quanti Recanati ne avesse mai
      avuti:
         
      
        
          
            
      
      La annosa causa Flaminj per l’Annona che si
            trascinava dall’inizio dell’800 e che riemergeva ogni tanto. 
      La inimicizia del Governatore Luca Mazzanti, del
            quale sono documentate agli atti le meschine e continue richieste
            per la propria abitazione, perfino per le stoviglie di cucina e le
            interferenze su ogni competenza. 
           
         
       
      
      Una nota di pugno di Monaldo, diretta al Governo
      Pontificio il 24 novembre 1823 mi sembra molto eloquente. Non è certo
      priva di acredine, ma ha una indiscutibile dose di verità. Eccola:
         
      
        
          
      
      Recanati 24 Nov. 1823
        
           
          
      
      Fino dallo scorso mese di Marzo il Nobil uomo Sr.
          Cav. Luca Mazzanti dal Governo di Santa Vittoria venne destinato al
          Governo di questa città, ma non poté recarvisi fino al mese di
          Maggio perché impedito costantemente da grave e pericolosa infermità
          di Artritide. Nell’epoca suddetta giunse in questa città oppresso
          dallo stesso male che in seguito si aggravò non poco, e segnatamente
          nei mesi di maggio e giugno obbligandolo a quasi continuo letto, ed a
          rigorosa cura di frequenti salassi, bagni ed altri metodi debilitanti
          necessari a comprimere l’atrocità del morbo e la febbre che li
          accendeva spesso con imponenza e minacciava segnatamente la testa. Io
          lo ho veduto con frequenza in questo stato compassionevole da cui non
          è ancora totalmente risorto, e mi sono convinto non avrebbe potuto
          applicarsi a conoscere le leggi che si emanavano dal Governo, e a
          disimpegnare gli ordinarii incombenti del proprio uffizio, e di fatto
          non è mai intervenuto al pubblico consiglio. Di tutto ciò per essere
          la verità rilascio il presente certificato.
        
           
          
      
      Monaldo Leopardi
        
           
         
       
      
      Per parte sua il Mazzanti mise insieme 83 capi di
      accusa contro Monaldo tra presunte spese arbitrarie, abusi e violazioni di
      legge, che poi - ma ci vollero anni - risultarono tutte infondate. Luca
      Mazzanti fu trasferito a Sassoferrato e poi a Terracina, con tutti i suoi
      malanni, ma Monaldo già nel febbraio del 1826 fu sostituito dal Marchese
      Girolamo Melchiorri.
         
      
      Negli anni successivi, perodicamente, si chiese al
      Conte di accettare nuovi incarichi di Consigliere. Le sue risposte furono
      sempre negative. L’ultima che ho trovato è del 1843 e comincia così:
      «Sono già 15 anni da che […] dimisi l’ufficio di consigliere e
      qualunque altra ingerenza nella Amministrazione delle pubbliche cose […].».
      Per la verità una brevissima eccezione la fece quando accettò nel 1831
      di far parte della Giunta provvisoria dopo la rivoluzione. Ma la profonda
      amarezza che dopo l’esperienza amministrativa era restata dentro l’animo
      di Monaldo è espressa nel modo più chiaro nella lettera dell’8 di
      aprile 1830, in risposta alla richiesta di tornare a far parte del
      Consiglio Comunale.
         
      
      Vorrei leggerla a conclusione, per ora senza commento,
      perché è vera, quanto amara:
         
      
        
          
      
      L’inaspettato graziosissimo ufficio con cui le
          Sig.rie loro Ill.me, a nome ancora e per volontà di tutto il
          Consiglio, mi invitano a rientrare nel loro corpo, è tale e tanto
          larga dimostrazione di fiducia e di benevolenza che devo chiamarmene
          al sommo onorato e riconoscente. A questo atto di tanta cortesia ed
          amicizia non corrisponderò certamente con la rusticità di un
          rifiuto, ma mi pare che io già non possa rientrare utilmente nel
          corpo amministrativo di questa Città, e vorrei che le Sig.rie loro
          Ill.me e tutti li signori del Consiglio ne fossero ugualmente
          persuasi.
        
           
          
      
      Ancorché sappia di non avere mai volontariamente
          nei tempi passati operato contro il vantaggio pubblico della Patria,
          overo arrecati privata offesa a miei concittadini, può essere che
          dovessi soltanto alla mia imprudente e mal misurata condotta il
          trovarmi per gli ufficii pubblici in gravissime angustie; ma in ogni
          modo e qualunque ne fosse la causa quelle angustie mi comandarono il
          ritiro da qualsivoglia pubblica cura, e chiunque dové una volta
          salvarsi con la faccia non può più comparire con onore nel Campo,
          né farvi ufficio di valoroso soldato. Di quelli angosciosi tempi mi
          resta sempre il dubbio che potrebbero insorgere nuovamente, la paura
          gravissima di trovarmi un’altra volta in consimili stretti e quindi
          la risoluzione invariabile di non assumere mai più nessuna
          Magistratura. Così aggiunto alla naturale insufficienza il presente
          scoraggiamento, non posso oramai essere più utile cittadino di questa
          Patria e tornando a sedere in Consiglio vi porterei solamente l’animo
          infiacchito, la voce snervata e la fantasia preparata a qualunque
          timorosa apprensione.
        
           
          
      
      Per tutto questo niente altro desidero fuorché
          passare il poco residuo della vita nella pace e nella dimenticanza, e
          prego le S.rie loro Ill.me, e li Signori del Consiglio a volermelo
          concedere benignamente. Questa grazia, che imploro con ardentissimi
          voti dalla loro bontà, non eliminerà in alcun modo il pregio sommo
          dell’attuale onorevolissimo invito, e dell’una e dell’altro
          conserverò sempre verso le S.rie loro Ill.me, e verso il rispettato
          corpo dei Consiglieri la più dovuta e sincera riconoscenza.
        
           
          
      
      Con questi sentimenti passo all’onore di
          protestarmi pieno di rispettosissimo ossequio
        
           
          
      
      Delle SS.rie loro 
          
      
      Ill.me D.mo [devotissimo] Obbl.mo [obbligatissimo] 
          
      
      Monaldo Leopardi
        
           
          
      
      Recanati 8 Aprile 1830
        
           
         
       
      
        
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      Quel
      paio di jeans di Tiberio Mitri  di Carlo Trevisani 
      "Per l’Italia fu una favola": così
      titolava La Gazzetta dello Sport del 13 febbraio tratteggiando in prima
      pagina la figura di Tiberio Mitri, l’indomani della sua tragica
      scomparsa. 
      Di una parte di quella favola Porto Recanati fu
      testimone, e in qualche modo partecipe, nelle occasioni in cui il campione
      triestino venne ad allenarsi nella nostra cittadina, aggregandosi alla
      nazionale dilettanti della FPI, che aveva eletto il proprio quartier
      generale presso la palestra Diaz, grazie alle entrature e alla
      lungimiranza di autentici gentlemen dello sport locale, come Luigi Rabuini
      e Reolo Rapaccini. 
      Accedere alla palestra Diaz, durante gli allenamenti di
      Mitri e dei nazionali, era privilegio riservato a pochi spettatori, in
      quanto l’indimenticabile "maestro" Egidio Mosca, e
      "Peppe" il custode, facevano rigorosamente osservare le
      disposizioni restrittive impartite dagli istruttori federali Steve Klaus e
      Natalino Rea, che non gradivano la presenza di troppa gente, e soprattutto
      di troppe ragazze, onde evitare agli atleti pericolose occasioni di
      "distrazione". 
      Fu così che nel 1950, all’età di appena 11 anni,
      contagiato dall’entusiasmo che circolava in paese, presi a frequentare
      la palestra Diaz in qualità di apprendista boxeur, presentato al maestro
      dal mio indimenticabile amico Fabio Ballarini, atleta naturale
      eccezionalmente dotato, che allora praticava la boxe, e che mi avrebbe
      successivamente coinvolto nella passione per il ciclismo, prima di
      raggiungere le vette calcistiche della seria A nel ruolo di bravissimo
      portiere. 
      La veste di neofita dell’Accademia pugilistica mi
      consentiva di accedere come spettatore agli allenamenti dei professionisti
      e dei dilettanti nazionali, che precedevano quelli dei pugili locali, e di
      godermi lo spettacolo offerto dal fior fiore del pugilato italiano di quel
      tempo. In mezzo a tanti pugili di pur elevato livello, la classe eccelsa
      di Tiberio Mitri svettava in modo eclatante per la perfezione dell’impostazione
      tecnica, per l’intelligenza tattica, per l’eleganza dello stile e per
      la fantasia spumeggiante delle combinazioni di colpi: per quanto io possa
      ricordare dei pugili di quel tempo, e di tutti quelli che sono seguiti,
      solo Ray "Sugar" Robinson poté eguagliare la classe del nostro
      campione, nella categoria "regina" dei pesi medi. 
      Si è detto e ripetuto che Mitri difettasse di potenza,
      di quel colpo risolutore che contraddistingue il grande
      "fighter", indispensabile al più alto livello, ma si è sempre
      trattato di una diagnosi superficiale, in cui un limite caratteriale è
      stato equivocato per un limite fisico: Tiberio era un buono, ed il suo
      vero limite era la mancanza di cattiveria, che gli impediva di infierire
      sull’avversario, così nella boxe come nella vita. 
      Quanto alla potenza, basti ricordare che era solito
      concludere i suoi allenamenti sgonfiando la camera d’aria del "puncin
      g ball" con un jab destro di eccezionale violenza, quello stesso
      colpo che nel 1954 gli consentì di tornare ad essere campione d’Europa,
      atterrando alla prima ripresa il detentore Randy Turpin, che si era
      permesso il lusso di battere niente meno che Ray Robinson, titolo mondiale
      in palio, e che si era andato a cercare la lezione, sfottendo Tiberio
      nelle schermaglie polemiche della vigilia. 
      Al pari di altri campioni dello sport, Coppi su tutti,
      Mitri si distingueva per una naturale eleganza, che si manifestava non
      solo nel gesto atletico e nell’affabilità del tratto, ma anche nell’esteriorità
      dell’abbigliamento, sia nella pratica sportiva che nella ordinaria
      quotidianità. In allenamento era solito indossare una tenuta composta da
      un pantaloncino Everlast bianco con banda nera, indossato sopra una
      calzamaglia nera, e da una canottiera nera indossata sopra una T-shirt
      bianca. 
      Per le strade di Porto Recanati lo si vedeva indossare
      con disinvoltura un paio di pantaloni mai visti prima d’allora, di un
      cotone color blu leggermente stinto, con impunture di filo color
      "becco di papera", che segnavano i margini delle tasche e le
      cuciture delle gambe, arrotolati in fondo a mo’ di terzaroli. Quei
      pantaloni di nuova foggia altro non erano che il primo paio di jeans che
      si fosse mai visto a Porto Recanati, che Tiberio aveva certamente
      acquistato durante la trasferta in USA per l’incontro mondiale con il
      "toro del Bronx" Jack La Motta. 
      Ai miei occhi di ragazzino esercitarono un fascino
      irresistibile, evocando nella fantasia la rusticità delle tenute da cow
      boy, tanto che implorai di farmene fare un paio simile: fu così che mia
      madre mi fece confezionare da un’anziana pantalonaia di nome Giovanna,
      che abitava sul Corso, di fronte alle scuole elementari, un paio di
      pantaloni di comune tela blu, impunturati di filo bianco, che furono
      probabilmente il primo simil-jeans autoctono realizzato ed indossato a
      Porto Recanati, ben prima che la moda jeans si diffondesse
      irrefrenabilmente per ogni dove. 
      L’ultima volta che vidi Tiberio Mitri fu una sera di
      tanti anni fa, al vecchio Bar centrale: era reduce da una rimpatriata con
      alcuni ex pesi medi, in occasione di una sua visita in zona per una
      modesta attività commerciale, e si diede da fare per arginare l’arroganza
      di un bullo anconetano, in cerca di improbabili rivincite postume nei
      confronti del nostro Antonio Agostinacchio, da cui era stato ripetutamente
      suonato in diversi confronti diretti, nonostante che la differenza d’età
      giocasse a suo favore. 
      È scomparso così, all’alba di un giorno triste di
      febbraio, investito di spalle da un treno, mentre vagava senza meta sui
      binari, come nella tragica sequenza finale di uno di quei film sulla boxe,
      in cui aveva recitato da comprimario. 
      Se c’è un paradiso per gli ex campioni della "noble
      art", all’arrivo di Tiberio avranno certamente fatto una gran
      festa, riservandogli un meritato posto d’onore. 
      
        
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      Ricordo di Spartè  di Nevia Rombini 
      
      Espartero Rombini era personaggio più che conosciuto
      nell’ambito della marineria portorecanatese. Questo ricordo che
      pubblichiamo, opera della figlia Nevia, ci riporta alla tragica notte del
      29 marzo 1935, quando cinque nostri pescatori persero la vita. Espartero,
      Spartè per tutti, si rese protagonista di un atto di coraggio che pochi
      conoscono e che, invece, merita di non essere dimenticato. Eccone il
      racconto. 
      Il 29 marzo 1935, durante il temporale che flagellava
      la nostra costa, mio padre, Rombini Espartero, i suoi fratelli Francesco e
      Angelo e altri famigliari di coloro che erano usciti a pescare con la
      barca a vela, correvano su e giù lungo la spiaggia cercando di portare
      soccorso. 
      La barca di Francesco Borini era in balia delle onde.
      Il figlio Fortunato, a bordo anche lui, non sapeva nuotare. Il padre era
      riuscito a metterlo in salvo. Si era salvato anche un altro pescatore
      della stessa barca, Giacomo Bufarini. 
      Francesco Borini aveva cercato di riprendere il governo
      della barca, ma le onde indomabili avevano sbattuto l’imbarcazione sulle
      pietre. Era in pericolo di vita. 
      Mio padre, con il coraggio di chi ha vent’anni, si
      era legato una cima intorno alla vita, tenuta con forza dai miei zii
      Francesco e Angelo. Poi si era gettato in mare ed era riuscito a portare a
      terra Francesco Borini. Purtroppo era morto da pochi minuti. 
      Argentina Borini, figlia di Francesco, esprime stima e
      affetto ancora oggi alla memoria di mio padre. 
      
      "Guardando il mare in burrasca 
      si può capire quanto è grande il cuore di chi
          attende, prega e spera 
      Signore io Ti amo 
      Ti prego, vigila su chi ha bisogno di Te." 
      
        
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      Un Patrono, due
      Comuni   di Carlo Pesco 
      Ogni paese ha il suo patrono. Non è una frase di
      effetto o una verità rivelata. E’ un dover ammettere che ciascuno di
      noi è legato alle proprie tradizioni, alla propria cultura, agli usi e
      costumi del proprio luogo natio o della propria dimora. E ciò è tanto
      più vero soprattutto quando siamo chiamati a confrontarci con gli altri
      che, magari ci infastidiscono perché esaltano talmente il proprio luogo
      come se fosse il migliore, l’unico.
       
      
      Succede allora che l’emulazione ci porta a gareggiare
      con l’altro nelle varie bontà che abbiamo, dimenticando così che
      accanto a fenomeni positivi ci sono anche delle ombre. Tutti i sindaci e i
      parroci sarebbero, in questi momenti, orgogliosi di avere tali
      concittadini. Finita la "gara", si ritorna alla normalità e
      alla critica della propria realtà e del proprio paese.
       
      
      Capita, però, che in qualche realtà non si abbia
      tempo per queste "memorie" o che usi e costumi siano talmente
      cambiati da disperdere un patrimonio culturale o sociale, o che non ci sia
      mai stata una tradizione legata al proprio particolare Santo. E’,
      inoltre, da tener presente che è invalsa da alcuni anni la
      "moda" di rievocazioni più o meno storiche che hanno avuto ed
      hanno il merito di aggregare le persone con conseguenti vantaggi anche
      economici.
       
      
      È successo vent’anni fa anche a Camerano. L’allora
      parroco, l’arciprete don Gabriele Ruzziconi, nuovo del paese ma non del
      servizio, volendo avere un rapporto diverso con i propri fedeli, dopo aver
      osservato, per un certo periodo, che in paese c’erano sì tante
      attività e tanti momenti di aggregazione, ma tutti rigorosamente
      separati, pensò a un qualcosa per tutto il paese.
       
      
      La sua idea non era tanto quella di far confluire in
      piazza persone per ritrovarsi assieme in un momento di sana allegria: era
      pur sempre un sacerdote. E come in tutti i paesi la festa del patrono
      (quello di Camerano è San Giovanni Battista) si celebrava solo con la
      Santa Messa e la processione: era ormai abitudine invalsa festeggiarla
      così. La fede, a volte, abbisogna di imput per essere sempre viva e non
      stanca.
       
      
      Si confrontò con diverse persone, tra cui chi scrive,
      espose la sua idea e questa divenne in breve un progetto. Ad agosto sarà
      la ventunesima festa del patrono che celebreremo secondo queste ormai
      consolidate modalità. Nella festa, infatti, convergono momenti diversi
      (religioso, folkloristico, sociale, ludico e di appartenenza) che la
      rendono accettabile e partecipata da tutte le componenti del paese.
      Temporalmente dura almeno due giorni, a volte anche una settimana. Abbiamo
      infatti progressivamente arricchito la festa con manifestazioni
      integrative del nucleo iniziale.
       
      
      Ma la festa vera e propria è composta da:
       
      
        
      Una sfilata per le vie del paese in abiti
        "storici" con tutte le varie categorie ed in particolare coi
        personaggi del tempo: S.Giovanni Battista, Erode, Erodiade, i soldati
        romani…. C’è stata una cura particolare nel ricercare i costumi
        dell’epoca.
       
        
      Una gara tra i rioni in cui è stato diviso il paese,
        recuperando nel nome le località o gli aspetti più significativi. Tale
        gara è divisa in due momenti. Un primo momento, nel pomeriggio e subito
        dopo la sfilata, la "corsa del sacro vassoio". Squadre di
        quattro persone, intercambiabili durante il percorso, devono
        attraversare il paese nel più breve tempo possibile recando un vassoio
        di due metri per uno, cadenzando il passo sui compagni della squadra.
        Tale squadra avrà un certo punteggio secondo l’ordine di arrivo. Alla
        sera, dopo cena, al campo sportivo ci sono i giochi di squadra ed, alla
        fine, le premiazioni.
       
        
      Un recital. E’ il momento della serena riflessione
        e dello spettacolo. Il filo conduttore è sempre San Giovanni. I testi
        sono tratti dal Vangelo ed adattati all’attualità.
       
        
      Fanno da contorno altre manifestazioni coi giovani e
        coi ragazzi come il mercatino, spettacoli musicali…La partecipazione
        delle autorità a tutte le manifestazioni ed al momento liturgico per
        eccellenza.
       
       
      
      Tale festa è ormai diventata tradizione e coinvolge un
      notevole numero di concittadini. Si lavora per molti mesi e con ruoli
      diversi. Dopo tale impegno si è pensato di esportare la festa o tutta o
      in parte nei paesi limitrofi che, magari, hanno lo stesso patrono. Sarebbe
      un modo di allargare i propri orizzonti e di veder riconosciuto anche il
      proprio impegno. Chissà!
       
      
        
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      DOCUMENTO 8   -  Prigionieri di guerra 
      
      È un documento toccante, composto di sei lettere di
      Quinto Cavallari scritte ai famigliari; le prime tre, aprile-settembre
      1917, sono del bersagliere Cavallari impegnato in zona di guerra, le
      altre, ottobre ’17 – gennaio ’18, del prigioniero Cavallari, inviate
      dal campo di concentramento di Milowwitz bei Lissa dove il nostro
      concittadino è morto. 
      Sulla località di prigionia abbiamo ancora qualche
      dubbio: può trattarsi dell’odierna Lysa nad Labem, pochi km a nord est
      di Praga oppure dell’attuale Lezno (più probabile) sita a circa 60/70
      km a nord ovest di Varsavia. 
      Ringraziamo la signora Jole Fabbrizzi Cavallari, che ci
      ha fornito copia di questa preziosa documentazione. 
      La grammatica è… di guerra e i puntini appaiono
      dove la calligrafia è diventata illeggibile. 
      Zona di guerra. 9-4-‘17. 
      Cari Genitori, ieri mi è giunta una del zio Pasquale
      dove mi dice che rimase ferito il giorno 6 corrente. Perché mi fate privo
      di tutto? Al meno se non vi sentite di darmi cattive nottizie…Sono da
      dieci giorni che mi trovo in questo Reggimento che è il 21° e ancora
      devo avvere un vostro scritto e…con la presente sono quatro mie che v’invio.
      Fate la cortesia di darmi una pronta risposta. Saluti e baci a tutti. 
      Zona di guerra. 28-8- ‘17. 
      Caro Padre si parte per ignota destinazione atendete
      più presto possibile il mio indirizzo. Saluti e baci a tutti di famiglia.
      Vostro aff.mo figlio Cavallari. Fate avvisato Attilio (il
      fratello) baci. 
      Zona di guerra. 30-9-’17. 
      Cari Genitori, da molto tempo che sono privo di vostre
      nottizie non so come sia. Quanto prima ricevete la presente, mi date buone
      nottizie. La mia salute ottimamente. Come pure spero di voi tutti in
      famiglia. D’ora sono giunto al 21° Reggimento come già vi feci noto
      con una mia. Saluto a voi tutti in famiglia in più tutti gli amici chi
      domanda di me e un forte abbraccio e un bacio vostro aff.mo figlio
      Cavallari Quinto.
       
      
      22 decembre 1917. 
      Cari Genitori dal 20 ottobre (1917) che sono
      prigioniero…..ottima come pure spero per voi. Quanto prima avrete la
      presente inviarmi vaglia telegrafigo e più abbonarsi alla Croce Rossa per
      il pane. Vi ripeto ancora abbonarsi alla Croce Rossa. Pane e Pane.
      Inviarmi vaglia………
      
       
       30 decembre 1917. 
      Cari Genitori colla presente vi faccio noto del mio
      bene stare di salute. Come pure spero di voi tutti. In data 22/12/917
      scrissi una mia cartolina raccomandandovi che quanto prima ricevete la
      presente inviarmi pane, pane e pane e vaglia telegrafigo. Non mancherete
      soddisfare il mio pensiero come mi avete sempre soddisfatto miei cari.
      Saluti Attilio, Giuseppe, Gina e Nonno e tutti gli amici e parenti e a voi
      un forte abbraccio e bacio dal vostro aff.mo figlio Cavallari Quinto.
      
       
      
      21 gennaio 1918. 
      Cari Genitori colla presente vi invio il mio bene stare
      di salute. Come pure spero di voi tutti, in famiglia. Quanto prima la
      ricevete, mi inviate pane e bonatevi alla Croce Rossa. Sperando al più
      presto possibile vostre nottizie. Saluti a tutti gli amici e compagni. E a
      voi in famiglia un forte abbraccio e un bacio dal vostro aff.mo figlio
      Cavallari Quinto. Darete buone notizie al mio fratello Attilio del mio
      bene stare salutandolo caramente con un bacio.
       
      
      
        
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       CRONACHE DELL’ARTE E DELLA CULTURA:
      novembre-aprile 2001 
      
      di Aldo Biagetti 
      
      NOVEMBRE 2000 
      SABATO 4 
      
      
        Al Castello Svevo viene presentato il programma del
        1° ANNO ACCADEMICO DELLA UNIVERSITA’ DELLE TRE ETA’, di recente
        istituita a Porto Recanati, con il patrocinio della Civica
        Amministrazione e l’apporto iniziale della Unitre di Civitanova
        Marche; il Centro Studi Portorecanatesi curerà i vari corsi, il Centro
        Sociale "Anni d’Argento" ogni problema burocratico ed
        amministrativo. Sede delle lezioni la Scuola Elementare di Corso
        Matteotti. 
        Sono previsti tre corsi : 
        
          Arte e Storia del Territorio, 24 lezioni, docenti:
          Carotti, Palanca, Bislani e Bonifazi, con inizio lunedì 6 novembre 
          Inglese (1° livello) – 48 lezioni, docente
          Franco Montesarchio, inizio venerdì 10 novembre 
          Taglio e cucito - 24 lezioni – docente sig.ra
          Aliota, inizio 28 novembre 
          Iscritti 71 
          
         
         
        
        DICEMBRE 2000 
      VENERDI’ 15 
        
      
      Per l’organizzazione dell’Associazione culturale
      Amadeus ha inizio, nei locali della Parrocchia di S. Giovanni Battista,
      una serie di concerti di musica classica, con la partecipazione della
      Scuola di Musica diretta da Ilaria Tramannoni. 
       
      
      DOMENICA 17 
      
      
      Al Castello Svevo, salone Biagio Biagetti,
      presentazione del libro "Il Cantiere Navale Gardano e Giampieri –
      1941/1966 – storia vera di una leggenda" di Aldo Biagetti e Lino
      Palanca, a cura del Comitato ex-dipendenti del Cantiere e del Centro Studi
      Portorecanatesi; relatore l’Ammiraglio Marcantonio Trevisani. 
       
      
      GENNAIO 2001 
      SABATO 20 
      
      
      Al Cineteatro Adriatico con il lavoro "Gli esami
      non finiscono mai" di E. de Filippo ha inizio la seconda stagione
      teatrale, organizzata dall’Assessorato alla Cultura e dall’Associazione
      Arca. 
       
      
      SABATO 27 
      
      
      Il Centro Studi Portorecanatesi, con una cerimonia nei
      propri locali, consegna una targa alla esimia pittrice locale VELIA
      SIMONCINI, in occasione del suo 90° compleanno. Sono presenti, oltre a
      numerosi cittadini, il Sindaco di Porto Recanati ed il dr. Franco Foschi
      che, a nome del Comune di Recanati, consegna alla nostra cara artista una
      particolare moneta d'oro. 
      
       
      FEBBRAIO 2001 
      SABATO 10 
      
      
      Al Castello Svevo, per iniziativa dell’Assessorato
      alla Cultura, del C.S.P. e dell’Associazione Culturale Coro a Più Voci
      presentazione del romanzo storico "Il Vergaro – Storia di contadini
      nella terra di Leopardi" di Renato Pigliacampo. Relazione critica
      della Prof.ssa Donatella Donati. 
       
      
      
      MARZO 2001 
      DOMENICA 4 
      
      
      
      Giuseppe Soffiantini presenta al Castello Svevo un
      volume dove narra i dolorosi giorni del suo sequestro. 
       
      
      DOMENICA 11 
      
      
      A Palazzo Volpini viene presentato il libro "Marconi
      e il mare" di Filippo Pacelli (Patrocinio del Comune di Porto
      Recanati, della Lega Navale e del Centro Studi Portorecanatesi). 
      
       
      
      APRILE 2001 
      DOMENICA 1 
      
      
      Nella Basilica Lauretana il Cardinale Carlo Furno
      nomina Cavaliere dell’ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme
      Padre Bruno Silvestrini. 
      PADRE BRUNO SILVESTRINI nasce a Porto Recanati il 15
      marzo 1954 da Guido e Laura Mandolini. 
      Ordinato Sacerdote presso la Parrocchia del P.mo Sangue
      di Porto Recanati il 7/12/1981, segue a Roma studi di specializzazione in
      Liturgia. Nominato Segretario Provinciale Piceno nel 1993, nel Capitolo
      tenutosi a Cascia (17/28 giugno 2000) viene nominato Segretario Nazionale
      dell’Ordine Agostiniano. 
      
       
      DOMENICA 22 
      
      
      All’Auditorium della Scuola Media, organizzato dal
      Centro Studi Portorecanatesi, con il patrocinio del Centro Mondiale della
      Poesia e della Cultura di Recanati e del Comune di Porto Recanati, viene
      presentato "Percorsi della Memoria", un volume di Aldo Biagetti
      e Lino Palanca, sul soldato portorecanatese nella seconda guerra mondiale
      e nella Resistenza. Relatore l’Ammiraglio di Divisione Elio Bolongaro,
      Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dell’Adriatico. 
       
      
        
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       Cronache del 2000  
      (1/11/2000
      – 30/4/2000) 
      
      I fatti e i giorni 
      
      
      
      In
      novembre iniziano i lavori di rifacimento del lungomare. 
      Il 17 dello stesso mese muore in un incidente stradale,
      in territorio di Castelfidardo, il giovane Luca Ascani. 
      In gennaio, il 18, artificieri dell’esercito fanno
      brillare una bomba, residuato della seconda guerra mondiale, in un campo
      di Scossicci, presso la spiaggia. 
      Il 4 marzo, organizzato dal Gruppo Podistico Amatori,
      si svolge un apprezzato carnevale portorecanatese. 
      Si acuiscono, a partire dal mese di marzo, le proteste
      per il supposto inquinamento nella zona di Santa Maria in Potenza. 
      L’Associazione Amici di Mar del Plata è fondata il
      22 marzo. 
      Il 13 aprile, venerdì santo, si svolge, come accade
      ormai da secoli, la processione della "bara de notte". 
      
       
      
      
      Lo
      sport 
      
      
      
      In
      gennaio l’Amministrazione Comunale premia con una targa atleti e
      dirigenti di società sportive locali. 
      A metà marzo i giovanissimi fratelli Storani ottengono
      grandi successi nei campionati regionali e nazionali di sci alpino. 
      A fine marzo l’Amministrazione Comunale annuncia che
      non ci sono più ostacoli sostanziali alla realizzazione del nuovo stadio
      nella periferia sud della città. 
      Il primo aprile si svolge a Porto Recanati la finale
      del campionato d’inverno regionale cross country di mountain bike. 
       
      
      Ordine pubblico 
      
      
      
      Il
      17 novembre, la Guardia di Finanza opera due fermi in pieno centro
      cittadino procedendo poi a un arresto per reati connessi allo spaccio di
      stupefacenti. 
      Il 3 gennaio si scopre che mancano altre tre tele dalla
      Pinacoteca Moroni. Si tratta di opere di Francesco Maffei (Gesù al
      tempio, XVII secolo), Dante Ricci (Mandorlo fiorito, XIX) e Celso
      Baldassarri (Canale, XIX). Siamo al furto numero 8 e l’emorragia
      continua. 
      In gennaio il Sindacato Autonomo di Polizia lancia un
      allarme, l’ennesimo: a Porto Recanati si fanno pochi controlli. Poco
      dopo vengono chiuse diverse case così dette a luci rosse. 
      Nel mese di marzo si registrano parecchi incendi dolosi
      di barche e impianti balneari a Scossicci e presso il Potenza. 
      Il 28 marzo avviene una rapina nella filiale della
      Banca delle Marche. I Carabinieri, però, subito sul posto, arrestano i
      tre banditi e i loro complici, cinque persone in totale. 
      Il 31 marzo altro incendio doloso di un negozio di
      frutta e verdura in via Cavour. 
       
      
      Vita sociale 
      
      
      
      Il 17 dicembre si presenta il volume sul cantiere
      Gardano-Giampieri, di Lino Palanca e Aldo Biagetti, a cura del CSP. Pochi
      giorni dopo, il Centro decide di creare "La Ginestra", sezione
      leopardiana del CSP, che nasce dal gruppo di conversazione già attivo da
      qualche mese. 
      Sempre in dicembre prende avvio il primo concorso di
      poesia dialettale marchigiana intitolato a Emilio Gardini. 
      In gennaio esce il numero 4 di questa Rivista mentre
      riprendono i corsi dell’Unitre, sospesi per le feste di fine anno. Il
      giorno 27 viene festeggiato in sede il 90° compleanno di Velia Simoncini. 
      Il 4 febbraio si tiene l’assemblea dei soci, che
      eleggono nel direttivo (del quale fanno parte di diritto i soci fondatori)
      le seguenti persone: Maria Teresa Moscatelli, Aldo Biagetti, Alessandro
      Rovazzani e Flaviano Ponziani. Nel collegio dei probiviri-revisori dei
      conti sono invece eletti: Carlo Trevisani, Giovanni Rovazzani e Enzo
      Valentini. Il nuovo direttivo elegge Lino Palanca presidente, Luciano
      Monarca vice, M.T.Moscatelli segretaria, Giuseppe Perfetti economo. Lo
      stesso coopta come soci fondatori: Nando Carotti, Luciano Monarca, Enzo
      Panico e Enzo Valentini. 
      Il 4 e il 28 marzo vengono ricordati, rispettivamente
      con un telegramma ai famigliari e fiori sulla tomba, i presidenti onorari
      del CSP Giovanni Cittadini e Attilio Moroni, nel giorno anniversario della
      loro morte. 
       
      
      Dialetto in pillole 
      Cénciu. Nella Vie
      de Saint Alexis (1050 circa), un testo in antico francese in cui è
      narrata la vicenda del patrizio romano Alessio, che abbandona affetti e
      ricchezze per vivere un’esperienza religiosa in stretta povertà,
      compare nella strofa XXIX il vocabolo cinces (< lat. cincius).
      Siamo nel momento di grande disperazione della madre del futuro santo, che
      si reca nella stanza ormai vuota del figlio e: ‘Chambre – dit ele
      – ja mais n’estras parede,/ ne ja ledece n’iert en tei demenede!’/
      Si l’ot destruite com s’ost l’oüst predede;/ sas i fait pendre e cinces
      deramedes:/ sa grant orrour a grant duel at tornede…. 
      (‘Camera – disse – mai più sarai addobbata,/ né
      più gioia sarà tra le tue pareti."/ E poi l’ha ridotta come
      saccheggiata dal nemico;/ crine vi fa appendere e miserabili stracci:/ il
      grande orrore in lutto grande è volto…). 
      Il francese, in seguito, ha perduto il vocabolo in
      favore dell’attuale chiffon, attestato già in Mathurin de
      Régnier nel 1608 e proveniente dall’antico francese chipe, che
      ha dato luogo a chiffe (un pezzetto, una parte tolta, stracciata
      dal tutto). 
      L’italiano, al contrario, l’ha conservato, come il
      dialetto il quale, al solito, si è mantenuto più fedele al latino
      mantenendo la u finale. 
      Il vocabolo è usato nell’espressione cénciu el
      pàggiu!, esclamazione di valore negativo, riferita a persona che non
      gode della considerazione di chi parla e che significa: quel pàggiu (uomo)
      di cui si parla vale quanto un cencio. 
      Si dice pure ‘mmullà el cénciu nel senso di
      approfittare di una situazione, ma qui, per quanto ci siano alcune
      ipotesi, è un po’ difficile azzardare indicazioni sull’origine del
      detto. 
      
      4^ Edizione PREMIO POESIA – ESTATE 2000 
      1^ classificata: ANNA MARIA PELOSI di ANCONA, con la poesia "PER NOI" 
      
      Non dormire, 
      ascolta: 
      il vento, 
      il grande vento del cosmo, 
      si è impadronito ormai delle strade 
      e le percorre di corsa, 
      con la furia di un amante. 
      Viene da est… 
      E’ passato stanotte sopra il mare, 
      rapido 
      e come un insaziabile predone 
      ha catturato quella dolce amaritudine 
      che ora lo rivela. 
      Sì, 
      il suo vasto mantello 
      dev’essersi impigliato poco fa ai ferri del balcone 
      poi, forse, le fessure delle persiane chiuse 
      l’hanno incuriosito 
      e la lama sottile della sua audace giovinezza 
      è penetrata fin dentro le stanze… 
      Non dormire, 
      ascolta: 
      il vento, 
      il libero vento degli oceani, 
      è qui. 
      Ha scelto di confondersi col respiro segreto 
      della nostra casa. 
      Per noi. 
      
        
      
      2^ classificata: MARA GIOVINE ALBENGA, con la poesia "IO
      NON HO NOME"
       
      Io non ho nome. 
      Chiamami mare: danza di spuma 
      tra l’ànfiteatro 
      di sognanti stelle, 
      fiume di vetro 
      sui tappeti d’alghe 
      delle speranze; 
      labbra incollate 
      nella solitudine 
      di conchiglie chiuse, 
      palpito di squame 
      su letti di coralli. 
      Già ho alzato un volo 
      di vele bianche 
      che non han paura 
      appese agli aquiloni 
      dei gabbiani. 
      Ardono alti i fari, 
      non temo isole 
      di bagliori sublunari 
      nella magica tregua 
      degli specchi. 
      Poeta è squarcio su orizzonti alti. 
      Io non ho nome. 
      Chiamami cielo: ciottolo di luna 
      gettato dentro 
      il pozzo della notte, 
      grido sigillato 
      di un’antica esplosione 
      di comete, 
      angelo vagabondo 
      dai capelli di nuvola 
      e le ali di vento 
      sotto la trasparenza 
      delle stelle. 
      Poeta è fiume delle meraviglie 
      Io non ho nome. 
      Chiamami fuoco: incendio 
      di questa enorme notte 
      della vita, 
      cascata e orgia 
      di ubriaca luce, 
      ugola e grido 
      e crepito di fiamma. 
      Poeta è cero di sole incandescente 
      Io non ho nome. 
      Chiamami donna: terra sconfinata, 
      arata, aperta 
      al prodigioso coito 
      di sogni onnipotenti. 
      Poeta è fiato di universi nuovi. 
      Io non ho nome. 
      C’è mare e cielo e vento 
      nei miei occhi. 
      Troppo mare, forse, 
      troppo vento e cielo… 
      C’è fuoco, notte, figli 
      nel mio ventre. 
      Troppa notte, forse, 
      troppo donna e fuoco… 
      Ci sono cupole, archi, echi, 
      briciole e frantumi di poesia 
      dentro il cuore. 
      Troppa attesa di poesia, forse, 
      troppo dolore… 
      Ma creare è un sogno 
      che denuda gli occhi 
      e accende grappoli di stelle 
      sotto i polpastrelli delle dita. 
      Io non ho nome 
      o forse un nome solo. 
      Chiamami amore. 
      
        
      
      3° classificato LAMBERTO PERLINI di
      JESI, con la poesia: "UN VIANDANTE IN PROVENZA" 
      
 
      Sei case, una locanda, febbraio soffia vento sulla
      brina; 
      laggiù un viandante, da un campo di lavanda, pian piano
      si avvicina. 
      Povero Cristo, quanto cammino ho fatto, 
      stanco, affamato, disperato, offeso. 
      L’ispida barba rossa: una ferita sul volto suo
      disfatto. 
      Ha combattuto tanto, poi si è arreso. 
      Or della trattoria socchiude l’uscio 
      per chiedere qualcosa da mangiare 
      è rattrappito, racchiuso nel suo guscio, 
      prova vergogna: non ha di che pagare! 
      L’oste è colpito da quegli occhi spenti, 
      capisce il dramma suo. Lo fa pranzare. 
      Mentre vuota il buon vino dal bicchiere 
      si guarda attorno: il grigio si dissolve, 
      e i colori ritornano a danzare. 
      Vorrebbe dir qualcosa, ringraziare 
      gli escono due parole: "son Vincenzo…" 
      Prima di uscire al freddo che l’aspetta 
      sfila da una cartella alcuni fogli 
      li porge sorridendo, senza fretta. 
      Apre la porta e mesto si allontana 
      piccolo punto che va scomparendo, sulla strada montana. 
      Anche l’oste sorride. Gira e rigira i fogli tra le
      mani, 
      senza capire, guarda quei segni strani. 
      Scuote la testa un po’ mentre li straccia, in tanti
      pezzettini, almeno cento. 
      Aperti i vetri, li lancia al cielo e se li prende il
      vento. 
      Ma uno ne resta. E’ lì sul davanzale, l’oste dentro
      di se quasi si pente, 
      a stento legge un nome, 
      Va…Van… Van Gogh Vincènt, 
      ma è un nome che gli dice rien de rien  
      
      
        
      
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